Erich Fromm

Anatomia della distruttività umana

Mondadori, Milano 1978
La teoria freudiana dell'aggressività e della distruttività (pp. 551-591)

1. L'evoluzione del concetto freudiano di aggressività e distruttività

Forse l'elemento più interessante negli studi compiuti da Freud sull'aggressività è il fatto che fino a! 1920 egli praticamente ignorò il problema dell'aggressività e della distruttività umane. Egli stesso espresse la propria perplessità al riguardo diversi anni dopo in II disagio della civiltà, pubblicato nel 1930: «Non riesco più a capire come potessimo trascurare l'ubiquità dell'impulso aggressivo e distruttivo non erotico, omettendo di assegnargli il posto dovuto nell'interpretazione della vita». (S. Freud, 1930.)1

Per capire questa zona particolarmente oscura, sarà utile metterci nei panni delle classi medie europee nell'epoca antecedente la prima guerra mondiale. Dal 1871 non c'erano stati grossi conflitti. La borghesia progrediva costantemente, sia socialmente sia politicamente, e l'aspro antagonismo fra le classi stava attenuandosi, poiché la situazione delle classi lavoratrici era in costante ascesa. In apparenza il mondo era pacifico e si civilizzava sempre più, soprattutto se ci si dimenticava di quella parte della razza umana, la più numerosa, che viveva in Asia, Africa e Sud- America, in condizioni di estrema povertà e degradazione. La distruttività umana sembrava un fenomeno dei secoli bui del Medioevo e di epoche ancora più antiche, cancellato ora dalla ragione e dalla buona volontà. Così venivano alla luce i problemi psicologici suscitati dal rigido codice morale delle classi medie, e Freud rimase talmente colpito dalle prove dei danni inflitti dalla repressione sessuale, che semplicemente trascurò di attribuire importanza al problema dell'aggressività, finché, con l'esplosione della prima guerra mondiale, non fu più possibile ignorarlo. Questa guerra, dunque, costituisce la linea di demarcazione nell'evoluzione della teoria freudiana dell'aggressività.

Nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), Freud considera l'aggressività come una delle «componenti» dell'istinto sessuale. Scrive: «Il sadismo corrisponderebbe allora a una componente aggressiva della pulsione sessuale, resasi indipendente ed esagerata, che usurpa per spostamento la posizione principale». (S. Freud, 1905.)

Ma, in totale contrasto con la linea centrale della sua teoria, come avviene così frequentemente in Freud, emerge un'intuizione che doveva rimanere assopita ancora per parecchio tempo. Nella sezione 4 dei Tre saggi, egli scrive: «E’ lecito supporre che i moti crudeli muovano da fonti che di fatto sono indipendenti dalla sessualità, sebbene in uno stadio primitivo possano ad essa congiungersi per anastomosi presso i loro luoghi d'origine». (S. Freud, 1905. Il corsivo è mio.)

Nonostante ciò, quattro anni dopo Freud afferma molto esplicitamente, nella sua Analisi della fobia di un bambino di cinque anni, in cui descrive le vicende del piccolo Hans: «Non posso risolvermi ad ammettere una speciale pulsione aggressiva accanto alle pulsioni di autoconservazione e sessuali che ci sono familiari, e sullo stesso piano di queste». Una certa esitazione salta subito agli occhi in questa formulazione: «Non posso risolvermi ad ammettere»; non è altrettanto forte e semplice di una negazione completa, e l'ulteriore precisazione «sullo stesso piano» sembra lasciar aperta la possibilità di una aggressività indipendente, anche se non sullo stesso livello.

In Pulsioni e loro destini (1915) Freud sviluppa entrambe le linee di pensiero, quella della distruttività come componente dell'istinto sessuale e come forza indipendente dalla sessualità.

Mentre gli istinti sessuali attraversano il loro complicato sviluppo, negli stadi primitivi dell'amore emergono obiettivi sessuali provvisori. Fra il primo di questi obiettivi individuiamo la fase in cui regna il desiderio di incorporare o divorare: un tipo d'amore coerente all'abolizione dell'esistenza separata dell'oggetto, e che perciò potrebbe essere definito ambivalente. Allo stadio superiore dell'organizzazione pregenitale sadico- anale, la tensione verso l'oggetto appare sotto forma di impulso di controllo, per il quale l'offesa o l'annientamento dell'oggetto è completamente indifferente. In questa forma e a questo stadio primitivo l'amore non si distingue dall'odio per quanto riguarda l'atteggiamento verso l'oggetto. Soltanto quando si stabilisce l'organizzazione genitale, l'amore diventa il contrario dell'odio. (S. Freud, 1915.)

Nello stesso scritto, però, Freud porta avanti anche l'altra posizione espressa nei Tre saggi, sebbene modificata nel 1915 - la tesi cioè dell'aggressività come indipendente dall'istinto sessuale. Questa ipotesi alternativa parte dal presupposto che gli istinti dell'Io siano la fonte dell'aggressività. Freud scrive: «Come forma di rapporto con gli oggetti, l'odio è più antico dell'amore. Deriva dal rifiuto narcisistico primordiale del mondo esterno2 con tutta la sua messe di stimoli. Come espressione della reazione di dispiacere evocata dagli oggetti, resta sempre in stretto rapporto con gli istinti di auto-conservazione; così che gli istinti sessuali e dell'Io possono prontamente sviluppare un'antitesi che ripeta quella d'amore e odio. Quando gli istinti dell'Io dominano la funzione sessuale, come succede nello stadio di organizzazione sadico-anale, trasmettono le qualità dell'odio anche alla meta istintuale.» (S. Freud, 1915. Il corsivo è mio.)

Qui Freud avanza la tesi che l'odio sia più antico dell'amore, radicato negli istinti dell'Io o istinti di auto-conservazione; questi in primo luogo respingono la «corrente di stimoli» che fluisce dal mondo esterno, e sono in antitesi agli impulsi sessuali. Bisognerebbe precisare brevemente come questa posizione sia importante per il modello umano complessivo di Freud. Il bambino, per lui, essenzialmente rifiuta gli stimoli e odia il mondo per la sua intrusione. Una posizione, questa, che è stata smantellata recentemente da numerose prove cliniche, da cui emerge che l'uomo, e persino il neonato pochi giorni dopo la nascita, sono assetati di stimoli, ne hanno bisogno, e non sempre odiano il mondo invadente.

Nello stesso scritto Freud compie un passo avanti nella sua formulazione sull'odio: «L'Io odia, aborrisce e perseguita con intento distruttivo tutti gli oggetti che sono per lui fonte di dispiacere, senza preoccuparsi di distinguere se essi significhino la frustrazione della soddisfazione sessuale o delle esigenze di auto-conservazione. In verità si potrebbe affermare che i veri prototipi del rapporto di odio non derivano dalla vita sessuale, ma dalla lotta condotta dall'Io per preservarsi e sostenersi.» (S. Freud, 1915. Il corsivo è mio.)

Col documento Pulsioni e loro destini (1915) si conclude la prima fase del pensiero freudiano sulla distruttività. Abbiamo visto che egli seguì due concetti contemporaneamente: l'aggressività come parte della pulsione sessuale (sadismo orale e anale) e l'aggressività indipendente dall'istinto sessuale, come qualità degli istinti dell'Io che avversa e odia l'intrusione degli stimoli esterni, e ostacola la soddisfazione dei bisogni sessuali e di auto-conservazione.

Nel 1920, con Al di là del principio del piacere, Freud comincia una revisione fondamentale di tutta la sua teoria degli istinti. In quest'opera attribuisce alla «coazione a ripetere» le caratteristiche di un istinto; e per la prima volta postula la nuova dicotomia di Eros e dell'istinto di morte, sulla cui natura discuterà poi, con dovizia di particolari, in L'Io e l'Es (1923) e negli scritti successivi. Questa nuova dicotomia dell'istinto (ovvero degli istinti) di vita (Eros)3 e di morte subentra alla dicotomia originaria fra gli istinti sessuali e gli istinti dell'Io. Anche se Freud tenta di identificare Eros con la libido, la nuova polarità costituisce un concetto di pulsione completamente diverso da quello antico.4

Freud stesso descrive succintamente lo sviluppo della sua nuova teoria in II disagio della civiltà (1930).

«Così vennero a contrapporsi le pulsioni dell'Io e le pulsioni oggettuali. Per l'energia di queste ultime, ed esclusivamente per essa, introdussi il termine «libido»5, si svolse così il contrasto tra pulsioni dell'Io e pulsioni «libidiche» dell'amore, nel senso più ampio, dirette verso l'oggetto6... Ma queste contraddizioni [rispetto al sadismo] furono superate; il sadismo apparteneva chiaramente alla vita sessuale, ove il gioco della crudeltà poteva sostituire quello della tenerezza... Importanza decisiva ebbe l'introduzione del concetto di narcisismo, cioè del concetto che anche l'Io è investito dalla libido, della quale è anzi la dimora originaria, e rimane in una certa misura il quartier generale7... Il passo seguente lo feci in Al di là del principio del piacere (1920), quando fermai l'attenzione per la prima volta sulla coazione a ripetere e sul carattere conservativo della vita pulsionale. Partendo da speculazioni sull'origine della vita e da paralleli biologici, trassi la conclusione che, oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più larghe, doveva esisterne un'altra, ad essa opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle allo stato primevo, inorganico. Dunque, oltre ad Eros, una pulsione di morte.» (S. Freud, 1930. II corsivo è mio.)

Quando Freud scrisse Al di là del principio del piacere, non era affatto convinto della validità della sua nuova ipotesi. «Ci si potrebbe domandare» scrive «se e in quale misura io sia convinto della verità delle ipotesi esposte in queste pagine. La mia risposta sarebbe che io stesso non ne sono convinto e che non cerco di persuadere gli altri a credervi. O, più esattamente, che non so in quale misura io vi creda.» (S. Freud, 1920.) Dopo aver cercato di costruire un nuovo edificio teorico, che minacciava la validità di diversi concetti precedenti e che gli era costato un enorme sforzo intellettuale, questa sincerità di Freud, che pervade così luminosamente tutta la sua opera, è particolarmente impressionante. Per i diciotto anni successivi lavorò sulla nuova teoria, acquistando sempre più la convinzione che inizialmente non aveva. Non che abbia aggiunto aspetti completamente nuovi all'ipotesi : quel che fece fu, piuttosto, uno «scandaglio» intellettuale che lo lasciò convinto, rendendo ancor più deludente il fatto che pochi fra i suoi discepoli capirono veramente e condivisero le sue opinioni.

La nuova teoria trovò la sua prima elaborazione completa in L'Io e L'Es (1923). «Particolarmente importante è l'assunto di un processo fisiologico peculiare (di anabolismo o catabolismo) che sarebbe associato a ciascuna delle due classi di istinti; l'uno e l'altro sarebbero in opera in ciascuna delle parti della sostanza vivente, ma esse sarebbero mescolate in proporzioni variabili, tanto che una di queste parti potrebbe, in un dato momento, affermarsi come più particolarmente rappresentativa di Eros.

Noi non possiamo ancora farci alcuna idea della maniera in cui i due istinti si combinino, si associno, si mescolino. Ma se si accetta il nostro punto di vista, si deve ammettere che queste combinazioni, associazioni e mescolanze si producono regolarmente e su vasta scala. L'associazione di un gran numero di organismi elementari unicellulari, con formazioni consecutive di esseri viventi multicellulari, ha reso possibile la neutralizzazione dell'istinto di morte della cellula particolare e isolata, e ha consentito di far deviare verso il mondo esterno, mediante un organo particolare, le tendenze distruttive. Quest'organo sarebbe rappresentato dalla muscolatura, e l'istinto di morte si manifesterebbe ormai (almeno in parte) sotto forma di una tendenza alla distruzione, diretta contro il mondo e gli altri esseri viventi.» (S. Freud, 1923. Il corsivo e mio.)

In queste formulazioni Freud rivela la nuova direzione del suo pensiero più esplicitamente che in Al di là del principio del piacere. Invece dell'approccio fisiologico meccanicistico della vecchia teoria, costruito sul modello della tensione prodotta chimicamente e sull'esigenza di ridurre questa tensione alla sua soglia normale (principio di piacere), l'approccio della nuova teoria è biologico, e ciascuna cellula vivente è dotata delle sue qualità basilari della materia vivente, Eros, e la tensione di morte; comunque, il principio della riduzione della tensione viene preservato in una forma più radicale: riduzione dell'eccitazione a zero (principio del Nirvana).

Un anno dopo, nel 1924, con il problema economico del masochismo, Freud compie un ulteriore progresso nella chiarificazione della relazione fra i due istinti. Scrive :

«La libido ha il compito di rendere innocuo l'istinto distruttivo e adempie questo compito deviando in larga misura quell'istinto verso gli oggetti del mondo esterno, spesso con l'aiuto di uno speciale sistema organico, l'apparato muscolare. Allora l'istinto viene definito istinto distruttivo, istinto di dominio o volontà di potenza8. Una parte dell'istinto si colloca direttamente al servizio della funzione sessuale, dove ha un ruolo importante da svolgere. Questo è sadismo in senso stretto. Un'altra parte non condivide questa trasposizione verso l'esterno: rimane all'interno dell'organismo e, con l'aiuto dell'eccitazione sessuale conseguente, descritta sopra, vi si lega in modo libidico. È in questa parte che dobbiamo riconoscere il masochismo originale, erotogenico. (S. Freud, 1924.)

In Introduzione alla psicoanalisi del 1933, Freud conserva la posizione precedente: descrive le «pulsioni erotiche, che vogliono sempre più conglobare la sostanza vivente in maggiori unità, e quelle di morte, che si oppongono a questa aspirazione e riconducono ciò che è vivente allo stato inorganico».» (S. Freud, 1933.) Nella stessa serie di lezioni Freud scrisse sull'originario istinto distruttivo:

«Sembra che la nostra percezione Io possa afferrare soltanto a queste due condizioni: quando si collega con le pulsioni erotiche a formare il masochismo, o quando si rivolge contro il mondo esterno in forma di aggressività, con una più o meno grande aggiunta di erotismo. Ci si presenta subito la possibilità che l'aggressività non trovi soddisfacimento nel mondo esterno, perché si imbatte in ostacoli reali, e ci domandiamo che cosa accadrebbe. In tal caso forse si ritirerà, andrà ad accrescere l'autodistruttività predominante all'interno. Vedremo che avviene realmente così e quanto sia importante questo processo. Aggressività impedita sembra significare una grave offesa. E’ realmente come se dovessimo distruggere qualche altra cosa o persona per non distruggere noi stessi, per preservarci dalla tendenza all'autodistruzione. Una triste rivelazione, certo, per il moralista!» (S. Freud, 1933. Il corsivo è mio.)

Nelle sue due ultime opere, scritte, rispettivamente, uno e due anni prima della morte, Freud non effettuò alcuna importante alterazione dei concetti da lui sviluppati negli anni precedenti. In Analisi terminabile e interminabile (1937) sottolinea ancor più la potenza dell'istinto di morte come scrive Strachey nelle sue note redazionali: «Ma il più potente fattore di impedimento, totalmente al di là di ogni possibilità di controllo... è l'istinto di morte». (S. Freud, 1937. Il corsivo è mio.)

In Sommario di psicanalisi (scritto nel 1938 e pubblicato nel 1940), Freud riafferma in modo sistematico le sue tesi precedenti senza apportare alcun cambiamento rilevante.

2. Analisi delle vicende e critica delle teorie freudiane dell'istinto di morte ed Eros

La precedente, succinta descrizione delle nuove teorie di Freud, quella dell'Eros e dell'istinto di morte, non può mettere sufficientemente a fuoco la radicalità del cambiamento avvenuto nella nuova teoria rispetto all'antica, e nemmeno Freud ne afferrò tutta la rilevanza, restando perciò imprigionato in varie incongruenze teoriche e contraddizioni immanenti. Nelle pagine seguenti cercherò di descrivere la portata dei cambiamenti e di analizzare il conflitto fra la teoria vecchia e quella nuova.

Dopo la prima guerra mondiale, Freud ebbe due nuove intuizioni. La prima fu dettata dalla potenza e dall'intensità delle tensioni aggressive-distruttive dell'uomo, indipendenti dalla sessualità. Dire che questa intuizione fosse nuova non è del tutto esatto. Come ho già dimostrato, Freud non aveva completamente ignorato l'esistenza di impulsi aggressivi indipendenti dalla sessualità. Ma questa intuizione era stata espressa solo sporadicamente, senza che ne fosse mai risultata cambiata l'ipotesi principale sulla polarità fondamentale di istinti sessuali e istinti dell'Io, anche se successivamente la teoria fu modificata con l'introduzione del concetto di narcisismo. Nella teoria dell'istinto di morte, invece, la consapevolezza della distruttività umana esplose con tutta la sua forza: la distruttività diventò un polo dell'esistenza che, lottando con l'altro polo, Eros, forma l'essenza stessa della vita. La distruttività divenne un fenomeno primario di vita.

La seconda intuizione che caratterizza la nuova teoria di Freud non è priva di agganci con la teoria precedente, ma è in piena contraddizione con essa: «Eros, presente in ogni cellula di sostanza vivente, ha come scopo l'unificazione e l'integrazione di tutte le cellule e, oltre a ciò, è al servizio della civiltà, ha la funzione di integrare le piccole unità nel complesso unitario dell'umanità.» (S. Freud, 1930.) Freud scopre l'amore non-sessuale. All'istinto di vita dà anche la definizione di «istinto d'amore»; l'amore viene identificato con la vita e con la crescita, e - combattendo con l'istinto di morte - determina l'esistenza umana. Nella teoria precedente di Freud l'uomo era considerato come un sistema isolato, dominato da due impulsi: quello di sopravvivenza (istinto dell'Io) e quello di ottenere piacere superando le tensioni, che a loro volta venivano prodotte chimicamente nel corpo e localizzate nelle «zone erogene», comprendenti i genitali. In questo quadro l'uomo era fondamentalmente isolato, ma instaurava rapporti con membri dell'altro sesso per soddisfare la sua tensione di piacere. Il rapporto fra i due sessi era concepito in un modo che rassomiglia al tipo di rapporti umani in un mercato. Ciascuno si preoccupa soltanto di soddisfare le proprie esigenze, ma per perseguire questa soddisfazione deve allacciare dei rapporti con gli altri, che gli offrono ciò di cui lui ha bisogno e che hanno bisogno di ciò che lui può offrire.

Nella teoria dell'Eros, tutto cambia. L'uomo non è più concepito come un essere fondamentalmente isolato ed egoista, l' homme machine, ma soprattutto come un essere in rapporto con gli altri, mosso dagli istinti di vita che lo spingono a sentire l'esigenza di unirsi agli altri. Vita, amore, crescita sono aspetti dello stesso fenomeno, più profondamente radicati e fondamentali della sessualità e del «piacere».

Il cambiamento in questa nuova visione di Freud emerge chiaramente nella sua nuova valutazione del comandamento biblico: Amerai il prossimo tuo come te stesso. In Perché la guerra? (1933a) scrisse:

«Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi fra gli uomini deve agire contro la guerra. Questi legami possono essere di due specie. In primo luogo relazioni come con un oggetto amoroso, anche se prive di meta sessuale. La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Ora è facile pretenderlo, ma è difficile porlo in atto. L'altra specie di legame emotivo è quello per identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse riposa in buona parte l'assetto della società umana.» (S. Freud, 1933 a. Il corsivo è mio.)

Queste parole sono scritte dallo stesso uomo che, soltanto tre anni prima, aveva così concluso un commento sullo stesso comandamento biblico : «A che pro un precetto enunciato tanto solennemente, se il suo adempimento non si raccomanda da se stesso come razionale?». (S. Freud, 1930.)9

Dunque, si era verificato un cambiamento radicale. Freud, il nemico della religione, definita un'illusione che impediva all'uomo di raggiungere la maturità e l'indipendenza, ora cita uno dei più fondamentali comandamenti di tutte le grandi religioni umanistiche a sostegno della sua tesi psicologica. E sottolinea che «la psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla d'amore» (Freud, 1933a);10 evidentemente sente il bisogno di fare questa precisazione per superare l'imbarazzo che certo suscitava in lui un cambiamento così drastico rispetto al concetto di amore fraterno.

Ma Freud si rendeva conto della radicalità di questo mutamento nel suo approccio? Era consapevole della contraddizione, profonda e irreconciliabile, fra la vecchia e la nuova teoria? Ovviamente no. In L'Io e l'Es (1923) identifica l'Eros (istinto di vita o istinto d'amore) con gli istinti sessuali (oltre all'istinto di auto-conservazione) :

Io penso anzitutto che bisogna ammettere l'esistenza di due varietà di istinti, di cui l'una formata dagli istinti sessuali (Eros) è di gran lunga la pili evidente e la più accessibile alle nostre conoscenze. Questa varietà comprende non solo l'istinto sessuale propriamente detto, sottratto ad ogni inibizione, come le tendenze, inibite a raggiungere i loro scopi e sublimate, che ne derivano, ma anche l'istinto di auto-conservazione che noi dobbiamo attribuire all'Io, e che all'inizio del nostro lavoro analitico noi abbiamo, per ottime ragioni, opposto alle tendenze sessuali orientate verso gli oggetti. (S. Freud, 1923. Il corsivo è mio.)

Proprio perché inconsapevole di questa contraddizione, egli cercò di riconciliare la teoria vecchia con quella nuova, in modo che, in apparenza, formassero una linea continua senza brusche interruzioni. Questo tentativo doveva originare, nella nuova teoria, diverse contraddizioni e incongruenze immanenti, che Freud tentò continuamente di superare, appianare, o negare, senza mai riuscirvi. Nelle pagine seguenti cercherò di descrivere le vicissitudini cui andò incontro la nuova visione, perché Freud non ammise che non si poteva mettere il vino nuovo - e in questo caso migliore - negli otri vecchi.

Ma prima di cominciare questa analisi dovremo indicare un altro cambiamento, anch'esso non riconosciuto, che complica ulteriormente le cose. Freud aveva costruito la sua vecchia teoria su un modello scientifico facilmente individuabile: il modello materialistico-meccanicistico che era stato l'ideale scientifico del suo maestro, von Brücke, e di tutta la cerchia di materialisti- meccanicisti come Helmholtz, Büchner, von Brücke e altri.11 Per loro l'uomo era una macchina dominata da processi chimici : per spiegare sentimenti, affetti ed emozioni tiravano in campo processi fisiologici specifici e identificabili. Anche se gran parte dell'ormonologia e delle scoperte neurofisiologiche degli ultimi decenni erano loro sconosciute, insistevano, con audacia e ingegnosità, sulla correttezza del loro approccio. Ignoravano le esigenze e gli interessi per cui era impossibile trovare una fonte somatica, e i processi che non erano trascurati venivano inquadrati secondo i principi del pensiero meccanicistico. Il modello della fisiologia di von Brücke e il modello freudiano dell'uomo potrebbero essere replicati oggi in un cervello elettronico programmato a dovere. «Egli» sviluppa un certo livello di tensione che, raggiunta una certa soglia, deve essere scaricato e ridotto, mentre questa realizzazione è controllata da un'altra parte, l'Io, che osserva la realtà e inibisce lo sfogo quando entra in conflitto con le esigenze di sopravvivenza. Questo robot freudiano assomiglierebbe al robot fantascientifico di Isaac Asimov, solo che sarebbe programmato diversamente : dominato non dalla legge di infierire sugli esseri umani, ma da quella di evitare l'autolesione o l'autodistruzione.

La nuova teoria di Freud non segue questo modello meccanicistico «organicistico», ma è incentrata su un orientamento biologico in cui le fondamentali forze della vita (e il loro contrario: la morte) diventano la principale forza motivazionale umana. La natura della cellula, cioè di ogni sostanza vivente, diventa la base teorica per una teoria della motivazione, e non un processo fisiologico che va avanti in certi organi del corpo. Forse la nuova teoria era più vicina a una filosofia vitalistica12 che alla concezione dei materialisti meccanicisti tedeschi. Ma, come ho già detto, Freud non è chiaramente consapevole di questo cambiamento; perciò tenta continuamente di applicare il suo metodo «organicistico» alla nuova teoria, e inevitabilmente fallisce nel suo tentativo di far quadrare il cerchio. È vero però che, sotto un importante aspetto, entrambe le teorie hanno una premessa comune, che è stata l'assioma immutato del pensiero freudiano: il concetto che l'apparato psichico è governato dalla tendenza a ridurre la tensione (o l'eccitazione) a un costante livello basso (il principio di costanza, su cui si basa il principio di piacere), o a livello zero (il principio del Nirvana, su cui si basa l'istinto di morte).

Ora dobbiamo proseguire un'analisi più accurata delle due nuove intuizioni freudiane, quella dell'istinto di morte e quelli dell'istinto di vita come forze fondamentali nel determinare l'esistenza umana.13

Perché Freud fu motivato a postulare l'istinto di morte?

Uno dei motivi cui ho già accennato fu probabilmente l'impatto della prima guerra mondiale. Come molti altri uomini della sua epoca ed età, aveva condiviso la visione ottimistica così caratteristica delle classi medie europee, e si era trovato ad affrontare improvvisamente un uragano di odio e distruzione impensabile prima del 1° agosto 1914.

Si potrebbe essere tentati di aggiungere a questo fattore storico un fattore personale. Come sappiamo dalla biografia di Ernest Jones (E. Jones, New York 1957), Freud era assillato dal pensiero di morire. Dall'età di quarantanni, fu tormentato ogni giorno dall'idea di morire. Aveva attacchi di Todesangst («paura della morte») e certe volte nel salutare qualcuno aggiungeva: «Potreste non rivedermi più». Si potrebbe ipotizzare che la sua grave malattia debba essergli sembrata una conferma della sua paura della morte, contribuendo così alla formulazione dell'istinto di morte. Ma questa speculazione non regge in una forma così semplificata, perché i primi sintomi della malattia si manifestarono soltanto nel febbraio 1923, parecchi anni dopo la concezione dell'istinto di morte. (E. Jones, Milano 1962.) Non è però azzardato ipotizzare che il suo antico assillo di morte si intensificò con la malattia, portandolo a formulare un concetto in cui centro dell'esperienza umana era il conflitto fra vita e morte, e non il conflitto fra due pulsioni affermatici della vita, il desiderio sessuale e le pulsioni dell'Io. La conclusione che l'uomo ha bisogno di morire perché la morte è l'obiettivo nascosto della sua vita potrebbe essere considerata una specie di conforto destinato ad alleviare la sua paura della morte.

Mentre questi fattori storici e personali costituiscono una serie di motivazioni per l'interpretazione dell'istinto di morte, esiste un altro insieme di fattori che devono averlo portato a concepire questa teoria. Freud pensava sempre in termini dualistici. Vedeva forze avverse che si combattevano l'un l'altra e il processo vitale come risultato di questa battaglia. Originariamente la teoria dualistica assunse la forma del desiderio sessuale e della pulsione di auto-conservazione. Ma col concetto di narcisismo, che collocava gli istinti di auto-conservazione nella sfera della libido, il vecchio dualismo sembrò minacciato. La teoria del narcisismo non imponeva forse una teoria monistica, secondo cui tutti gli istinti erano libidici? E, peggio ancora, questo non giustificava una delle principali eresie di Jung, il concetto secondo cui la libido denota tutta l'energia psichica'? Freud doveva assolutamente districarsi da questo dilemma intollerabile, intollerabile perché equivaleva ad approvare il concetto di libido di Jung. Come base di un nuovo approccio dualistico doveva trovare un nuovo istinto, opposto alla libido. L'istinto di morte rispondeva a questa esigenza. Al vecchio dualismo ne era subentrato uno nuovo, e l'esistenza poteva ancora essere interpretata dualisticamente, come campo di battaglia fra istinti avversi, Eros e gli istinti di morte.

Col nuovo dualismo, Freud segui uno schema di pensiero che approfondiremo in seguito: costruì due ampi concetti nei quali doveva essere inserito ogni fenomeno. Così aveva fatto col concetto di sessualità, allargandolo in modo che tutto quel che non rientrava nell'istinto dell'Io appartenesse all'istinto sessuale. Seguì lo stesso metodo con l'istinto di morte. Lo dilatò al punto che ogni tensione non classificata sotto Eros rientrava nell'istinto di morte, e viceversa. A questo modo aggressività, distruttività, sadismo, la pulsione a controllare e dominare, divennero, nonostante le differenze qualitative, manifestazioni della stessa forza: l'istinto di morte.

Sotto un altro aspetto ancora Freud seguì lo stesso schema di pensiero che aveva avuto tanta presa su di lui nella prima fase di elaborazione del suo sistema teorico. Dice, a proposito dell'istinto di morte, che in origine esso è tutto interiore; poi viene in parte proiettato verso l'esterno, diventando aggressività, e in parte resta all'interno come masochismo primario. Ma quando la parte proiettata verso l'esterno incontra ostacoli troppo grandi, insuperabili, l'istinto di morte viene ridiretto verso l'interno, manifestandosi come masochismo secondario. Questo schema di ragionamento è esattamente lo stesso impiegato da Freud nella sua discussione sul narcisismo. Dapprima tutta la libido è nell'Io (narcisismo primario), poi viene estesa verso oggetti esterni (libido oggettuale), ma spesso viene ridiretta nuovamente verso l'interno, formando il cosìddetto narcisismo secondario.

Frequentemente l'«istinto di morte» è usato come sinonimo di «istinto di distruzione» e di «istinti aggressivi».14 Ma allo stesso tempo Freud fa sottili distinzioni fra questi termini. Tutto sommato, come ha sottolineato James Strachey nella sua introduzione all'edizione inglese de II disagio della civiltà (S. Freud, 1930), l'istinto aggressivo, negli ultimi scritti di Freud (per esempio II disagio della civiltà, 1930; L'Io e l'Es, 1923; Introduzione alla psicoanalisi, 1933; Sommario di psicoanalisi, 1938), è diventato secondario, derivato dall'auto-distruzione primaria.

Nei seguenti paragrafi citerò alcuni esempi di questo rapporto fra istinto di morte e aggressività. In II disagio della civiltà egli definisce «più promettente l'idea che una parte della pulsione si dirigesse verso il mondo esterno, e diventasse quindi visibile come pulsione all'aggressione e alla distruzione».

In Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) definisce l'auto-distruttività «come espressione di una "pulsione di morte", che non può mancare in alcun processo vitale» (il corsivo è mio). Nella stessa opera, Freud esprime ancor più esplicitamente il suo pensiero: «Il masochismo è più antico del sadismo, e il sadismo è la pulsione distruttiva rivolta verso l'esterno, la quale acquisisce così il carattere di aggressività». (S. Freud, 1933.) La parte dell'istinto distruttivo che rimane all'interno si collega «con le pulsioni erotiche a formare il masochismo, o si rivolge contro il mondo esterno in forma di aggressività, con una più o meno grande aggiunta di erotismo». (S. Freud, 1933.) Ma, prosegue Freud, se l'aggressività diretta verso l'esterno incontra ostacoli troppo forti, si volge verso l'interno, aumentando l'auto- distruttività. Questo sviluppo teorico e piuttosto contraddittorio si conclude negli ultimi due scritti di Freud. Nel Sommario egli afferma che, all'interno dell'Es, «operano gli istinti organici; essi stessi composti da miscele di due forze originali (Eros e Distruzione) in misure alternanti...». (S. Freud, 1938. Il corsivo è mio.) In Analisi terminabile e interminabile, Freud parla ancora dell'istinto di morte e dell'Eros come di due «istinti originari». (S. Freud, 1937.)

Con una stupefacente, impressionante fermezza, Freud restò attaccato al suo concetto dell'istinto di morte, nonostante le grandi difficoltà teoriche che cercò duramente - e a mio avviso inutilmente - di superare.

Forse la maggiore difficoltà risiede nel presupposto dell'identità di due tendenze, quella del corpo a ritornare allo stato originale, inorganico (come risultato del principio della coazione a ripetere) e quella dell'istinto di distruggere, se stessi o gli altri. Per la prima tendenza potrebbe essere adatto il termine thanatos (usato per la prima volta da P. Federn) riferito alla morte, o addirittura «principio del Nirvana» indicante la tendenza alla riduzione della tensione energetica fino a far terminare tutti gli impulsi energetici.15 Ma questo lento defluire di forze vitali equivale forse alla distruttività? Certo si potrebbe argomentare logicamente - come fa Freud implicitamente - che se una tendenza a morire è intrinseca all'organismo, deve esistere anche una forza attiva che tende a distruggere. (In realtà è lo stesso tipo di pensiero che troviamo fra gli istintivisti che postulano un istinto speciale dietro ogni tipo di comportamento.) Ma, andando al di là di questo ragionamento circolare, esiste qualche prova o addirittura ragione per identificare la tendenza alla cessazione di ogni eccitazione con l'impulso di distruggere? Sembra proprio di no. Se partiamo dal presupposto, sviluppato da Freud sulla base della coazione a ripetere, che la vita ha una tendenza intrinseca a rallentare, e infine a estinguersi, una tale tendenza biologicamente innata sarebbe completamente diversa dall'impulso attivo di distruggere. Se poi aggiungiamo che questa stessa tendenza a morire è vista anche come fonte della passione di potenza e dell'istinto di dominio, e - qualora sia mescolata con la sessualità - come fonte di sadismo16 e masochismo, appare evidente che questo tour de force teorico è condannato al fallimento. Il «principio del Nirvana» e la passione di distruggere sono due entità disparate che non possono essere riunite sotto la stessa categoria di istinto di morte.

Un'ulteriore difficoltà risiede nel fatto che l'«istinto» di morte non si inserisce nel concetto generale freudiano di istinto. In primo luogo, a differenza degli istinti nella prima formulazione freudiana, non ha origine da una zona particolare del corpo, ma è una forza biologica intrinseca a tutta la sostanza vivente. Otto Fenichel ha illuminato convincentemente questo aspetto:

«La dissoluzione delle cellule... - cioè la distruzione oggettuale - non può essere la fonte di un istinto distruttivo nello stesso senso in cui una sensibilizzazione, determinata chimicamente, dell'organo centrale, attraverso

stimolazione delle zone erotogenetiche, è la fonte dell'istinto sessuale. Perché, secondo la definizione, l'istinto mira a eliminare il cambiamento somatico che denominiamo come fonte dell'istinto; ma l'istinto di morte non mira a eliminare la dissoluzione. Per questo motivo non mi sembra possibile contrapporre I'«istinto di morte» come una specie d'istinto a un'altra specie.» (O. Feniche!, New York 1953.)

Fenichel mette qui in luce una delle difficoltà teoriche che Freud si creò, anche se, potremmo dire, ne represse la consapevolezza. Questa difficoltà è tanto più seria se consideriamo che Freud, come dimostrerò in seguito, era giunto al risultato che l'Eros non soddisfa le condizioni teoriche di un istinto. Certo se non avesse avuto forti motivazioni personali, Freud non avrebbe usato il termine «istinto» in un senso completamente diverso da quello originario, senza sottolineare egli stesso tale differenza. (Questa difficoltà si fa sentire persino nella terminologia. Eros non può essere accoppiato alla parola «istinto», e logicamente Freud non parlò mai di un «istinto dell'Eros». Ma creò dello spazio al termine «istinto», usando l'espressione «istinto di vita» alternativamente a Eros.)

In realtà, l'istinto di morte non ha alcun legame con la prima teoria di Freud, tranne nell'assioma generale della riduzione della tensione. Come abbiamo visto, prima l'aggressione era una pulsione facente parte della sessualità pregenitale, o una pulsione dell'Io diretta contro stimoli esterni. Nella teoria dell'istinto di morte non è creata alcuna connessione con le antiche fonti di aggressione, se non che l'istinto di morte è ora usato per spiegare il sadismo (mescolato alla sessualità). (S. Freud, 1933.)17

Per riassumere, il concetto dell'istinto di morte fu determinato da due requisiti principali : primo, l'esigenza di riconciliare la nuova convinzione di Freud della potenza dell'aggressione umana; secondo, dall'esigenza di attenersi a un concetto dualistico di istinto. Una volta che anche gli istinti dell'Io furono considerati libidici, Freud dovette trovare una nuova dicotomia, e quella fra Eros e l'istinto di morte apparve la più opportuna. Ma se era opportuna dal punto di vista della soluzione immediata di una difficoltà, mal si inseriva nello sviluppo della teoria freudiana complessiva della motivazione istintuale. L'istinto di morte divenne un concetto «passe-par-tout», con il quale si cercò inutilmente di risolvere contraddizioni insanabili. Forse per via dell' età e della malattia, Freud non affrontò di petto il problema, e si limitò a rappezzare le contraddizioni. La maggioranza degli psicoanalisti che non accettarono il suo concetto dell'Eros e dell'istinto di morte trovarono una facile soluzione; trasformarono l'istinto di morte in «istinto distruttivo» opposto al vecchio i- stinto sessuale. Così conciliarono la loro fedeltà a Freud con l'incapacità di spingersi oltre la teoria istintuale vecchia maniera. Pur considerando le difficoltà che presentava, la nuova teoria costituiva una notevole impresa: riconosceva nella scelta fra la vita e la morte il conflitto fondamentale dell'esistenza umana, e abbandonava il vecchio concetto fisiologico di pulsioni per una speculazione biologica più profonda. Ma Freud non ebbe la soddisfazione di trovare una soluzione, e dovette lasciare incompiuta la sua teoria istintuale. Con l'ulteriore sviluppo della teoria freudiana, bisognerà affrontare il problema e risolvere le difficoltà, sperando di trovare nuove soluzioni.

Discutendo la teoria dell'istinto di vita e dell'Eros, ci accorgiamo che le difficoltà teoriche sono addirittura più serie di quelle incontrate nel concetto dell'istinto di morte. Il motivo è abbastanza ovvio. Nella teoria della libido, l'eccitazione era provocata dalla sensibilizzazione prodotta chimicamente, attraverso la stimolazione delle varie zone erotogeniche. Con l'istinto di vita ci troviamo di fronte una tendenza, caratteristica di tutta la sostanza vivente, per cui non esiste nessuna fonte fisiologica o organo specifici. Come potrebbero identificarsi il vecchio istinto sessuale e il nuovo istinto di vita, Eros e sessualità?

Sebbene nella Introduzione alla psicoanalisi del 1933 Freud scrivesse che la nuova teoria era «subentrata» alla teoria della libido, egli afferma, nella stessa serie di lezioni e altrove, che gli istinti sessuali e l'Eros sono identici. Scrive : «Noi supponiamo che vi siano due specie essenzialmente diverse di pulsioni: quelle sessuali, intese nel senso più ampio - l'Eros, se preferite questa denominazione - e quelle aggressive, la cui meta è la distruzione». (S. Freud, 1933.) O nel Sommario: «... tutta l'energia dell'Eros disponibile,... che d'ora in poi chiameremo libido...». (S. Freud, 1938.) Talvolta identifica l'Eros con l'istinto sessuale e l'istinto di auto-conservazione (S. Freud, 1923), la qual cosa fu logica soltanto dopo che ebbe rivisto la vecchia teoria, e classificato come libidici entrambi gli avversari originari, l'istinto di auto-conservazione e quello sessuale. Ma anche se talvolta mette Eros e la libido sullo stesso piano, Freud esprime un punto di vista leggermente diverso nella sua ultima opera, il Sommario di psicoanalisi. Scrive: «Quanto di più preciso conosciamo dell'Eros, ovverossia della sua esponente, la libido, è stato compreso attraverso lo studio della funzione sessuale che, come è noto, nella concezione corrente, anche se non nella nostra teoria, coincide con l'Eros». (S. Freud, 1938. Il corsivo è mio.) Secondo questa dichiarazione, e in contraddizione con quelle citate in precedenza, Eros e sessualità non coincidono. A quanto pare quel che Freud ha in mente qui è che l'Eros è un «istinto primordiale» (a prescindere dall'istinto di morte), di cui l'istinto sessuale è un esponente. In realtà ritorna così a una tesi già espressa in Al di là del principio del piacere, dove, in una nota a piè di pagina, afferma che l'istinto sessuale «è divenuto l'Eros che cerca di riunire le parti della sostanza vivente, di mantenere la loro coesione; ed è così che ciò che si chiama volgarmente col nome di istinti sessuali ci è apparso come quella delle parti di questo Eros che si rivolge verso l'oggetto». (S. Freud, 1920.)

Una volta Freud tenta persino di ipotizzare che il suo concetto originario di sessualità «non si identificava assolutamente con l'impulso a una unione dei due sessi o nel produrre una sensazione piacevole nei genitali; assomigliava assai di più all'Eros, che tutto pervade e preserva, del Simposio di Platone». (S. Freud, 1925.) La verità contenuta nella prima parte di questa dichiarazione è ovvia. Freud aveva sempre dato della sessualità una definizione molto più ampia, al di là della genitalità. Ma è difficile capire su quali basi egli affermi che il suo antico concetto di sessualità rassomigli a quello dell'Eros platonico.

La sua precedente teoria sessuale era precisamente il contrario di quella platonica. Secondo Freud, carico di estremi pregiudizi patriarcali, la libido era maschile, e non esisteva una corrispondente libido femminile; di conseguenza, la donna non si trovava sullo stesso piano dell'uomo, ma era un maschio castrato e mutilato, mentre l'essenza stessa del mito platonico è che maschio e femmina erano un tempo una cosa sola e poi furono divisi in due metà, il che implica, naturalmente, che le due metà sono uguali, e che formano una polarità dotata della tendenza a riunirsi.

L'unica spiegazione a questo tentativo freudiano di interpretare la vecchia teoria della libido alla luce dell'Eros platonico deve risiedere nel desiderio di negare la discontinuità delle due fasi, anche a costo di deformare, ovviamente, la vecchia teoria.

Come avvenne per l'istinto di morte, Freud si trovò in difficoltà con la natura istintuale dell'istinto di vita. Come ha sottolineato Fenichel, l'istinto di morte non può essere definito «istinto» secondo il nuovo concetto freudiano di istinto, sviluppato prima in Al di là del principio del piacere e portato avanti attraverso le ultime opere, compreso il Sommario di psicoanalisi. (O. Fenichel, New York 1953.) Freud scrisse: «Per quanto essi [gli istinti] siano l'ultima causa di ogni attività, essi sono di natura conservatrice; da ogni stato raggiunto da un essere, sorge una tendenza a ristabilire tale stato quando sia stato abbandonato». (S. Freud, 1938.)

Forse che l'Eros e l'istinto di vita hanno la qualità conservativa di tutti gli istinti, e quindi possono essere appropriatamente definiti tali? Freud si sforzava intensamente di trovare una soluzione che salvasse il carattere conservativo degli istinti di vita.

Parlando delle cellule germinali che «s'oppongono alla morte della sostanza vivente e sembrano assicurarle ciò che ci sembra una immortalità potenziale», dichiara:

«Gli istinti che vegliano sui destini di questi organismi elementari che sopravvivono all'organismo vivente totale, che assicurano la loro sicurezza e integrità finché sono esposti senza difesa alle influenze del mondo esteriore, così come la loro associazione con altre cellule germinali, formano il gruppo degli istinti sessuali. Questi istinti sono conservatori, come gli altri, per quel tanto che fa loro provocare la riproduzione di stati anteriori della sostanza vivente, ma lo sono più pronunciatamente, per quel tanto che mostra in loro una maggior resistenza nei confronti delle influenze esterne e, soprattutto, per quel tanto che li rivela capaci di conservare la vita per un tempo abbastanza lungo. Sono gli istinti vitali nel vero senso della parola; per il fatto che essi funzionano in senso inverso alla tendenza degli altri istinti che, attraverso la funzione, incamminano l'organismo verso la morte, essi si mettono con questi in stato di opposizione, cosa di cui la psicoanalisi ha presto inteso l'importanza e il significato. La vita degli organismi offre una specie di ritmo alterno; un gruppo di istinti procede precipitosamente per raggiungere, quanto più rapidamente è possibile, lo scopo finale della vita; l'altro, dopo aver raggiunto una certa tappa di questo cammino, torna indietro per ricominciare la stessa corsa, seguendo lo stesso percorso, cosa che ha per risultato il prolungamento del viaggio. Ma per quanto la sessualità e le differenze sessuali non esistano certamente all'origine della vita, non è per questo meno possibile che gli istinti, i quali, in una ulteriore fase, divengono sessuali, non siano già, fin dall'inizio, esistiti, ed abbiano, fin dall'origine, manifestato un'attività in opposizione al gioco degli «istinti dell'Io». (S. Freud, 1920. Il corsivo è mio.)

Quel che più interessa in questo brano - ecco perché lo cito estesamente - è il tentativo quasi disperato di salvare il concetto conservativo di tutti gli istinti, e quindi anche dell'istinto di vita. A questo scopo Freud dovette rifugiarsi in una nuova formulazione dell'istinto sessuale, visto come qualcosa che veglia sui destini della cellula germinale, staccandosi così dall'intera concezione di istinto da lui sviluppata nelle opere precedenti.

Qualche anno dopo, in L'Io e l'Es, Freud compie lo stesso tentativo di conferire all'Eros lo status di vero istinto, attribuendogli una natura conservativa. Scrive:

«Basandoci su ragioni teoriche applicate alla biologia abbiamo ammesso l'esistenza di un istinto di morte, che ha per funzione quella di ricondurre tutto ciò che è dotato di vita organica allo stato inanimato, mentre lo scopo che l'Eros persegue è quello di complicare la vita, e naturalmente mantenerla e conservarla, integrando la sostanza vivente, divisa e dissociata, con un numero sempre più grande delle sue particelle staccate. I due istinti, tanto l'istinto sessuale, quanto l'istinto di morte, si comportano come istinti di conservazione nel senso più stretto della parola, perché tendono, l'uno e l'altro, a ristabilire una situazione che è stata turbata dall'apparire della vita. L'apparire della vita sarebbe dunque anche la causa del prolungarsi della vita come dell'aspirazione alla morte, e la vita stessa appare come una lotta o un compromesso fra queste due tendenze. La questione dell'origine della vita rimarrebbe una questione di ordine cosmologico che, dal punto di vista dello scopo e dell'intenzione seguiti dalla vita, comporterebbe una risposta dualistica.» (S. Freud, 1923.)

Eros mira a complicare la vita e a preservarla, e perciò ha anch'esso carattere conservativo, perché, emergendo la vita, nasce un istinto che ha il compito di mantenerla. Ma, dobbiamo allora domandarci, se l'istinto per sua natura è portato a ripristinare il più antico stato di esistenza, la materia inorganica, come può allo stesso tempo tendere a ristabilire una forma di esistenza successiva, cioè la vita?

Dopo questi futili tentativi di salvare il carattere conservativo dell'istinto di vita, Freud arriva infine a una soluzione negativa nel Sommario: «Non possiamo però applicare questa formula [del carattere conservativo degli istinti] all'Eros (istinto dell'amore). Ciò presupporrebbe che la sostanza vivente fosse una volta un'unità che fu poi spezzata e che ora anela alla riunificazione». (S. Freud, 1938. Il corsivo è mio.) A questo punto Freud aggiunge, a piè di pagina, una nota significativa : «I poeti hanno avuto fantasie simili. Dalla storia della sostanza vivente non ci è noto niente di analogo». (S. Freud, 1938.) Ovviamente Freud si riferisce qui al mito platonico di Eros, che respinge come prodotto dell'immaginazione poetica. Questo rifiuto è davvero sconcertante. A dire il vero, la risposta platonica soddisferebbe l'esigenza teorica della natura conservativa dell'Eros. Se maschio e femmina fossero stati uniti in origine, e poi separati, e se fossero guidati dal desiderio di ricongiungersi, la soluzione migliore per equilibrare la formula sarebbe proprio questa: gli istinti tendono a ripristinare una situazione pre-esistente. Perché Freud non accettò questa scappatoia, liberandosi così dal gravame teorico dell'Eros come istinto non autentico?

Forse, per capire meglio il problema, ci sarà di aiuto confrontare questa nota a piè di pagina del Sommario con una dichiarazione molto più particolareggiata fatta nell'antecedente Al di là del principio del piacere, dove Freud cita il discorso di Platone nel Convito sull'unità originaria dell'uomo, che poi Zeus divise in due parti; poiché, dopo la separazione, ciascuna metà desiderava l'altra, si riunirono, abbracciandosi, desiderose di tornare a essere una cosa sola. Freud scrive:

«Dobbiamo noi seguire l'invito del filosofo poeta e formulare l'ipotesi per la quale la sostanza vivente, una e indivisibile prima di ricevere il principio di vita, si sarebbe un giorno animata, divisa in una moltitudine di particelle le quali, da allora, cercano di riunirsi di nuovo, spinte dalle tendenze sessuali? E che queste tendenze, che esprimono a modo loro l'affinità chimica della materia inanimata, si inseguono attraverso il regno dei protozoi e superano a poco a poco le difficoltà che oppone alle loro manifestazioni un ambiente carico di eccitazioni mortali, il quale le obbliga ad avvilupparsi in uno strato corticale protettivo? Dobbiamo supporre noi che queste particelle di sostanza vivente, separate così le une dalle altre, finiscono, nel loro desiderio di ritrovarsi, col realizzare la pluricellularità, per localizzare finalmente questo desiderio di unione, spinto al massimo grado di concentrazione nelle cellule genitali? Io credo che il meglio che noi possiamo fare sia lasciare questi problemi senza risposta e fermarci con le nostre speculazioni. (S. Freud, 1920.)18»

La differenza fra le due dichiarazioni salta subito all'occhio: nella prima (Al di là del principio del piacere) Freud lascia ancora aperta la risposta, mentre in quella posteriore (Sommario di psicoanalisi) la risposta è decisamente negativa.

Molto più importante è la formulazione particolare comune a entrambe le dichiarazioni. In tutti e due i casi Freud parla di «sostanza vivente» separata. Nel mito platonico, però, non si parla di separazione nella «sostanza vivente», ma fra maschio e femmina, desiderosi perciò di riunirsi. Perché Freud insiste a parlare di «sostanza vivente» come punto fondamentale?

Forse la risposta risiede in un fattore soggettivo. Freud era profondamente impregnato della convinzione patriarcale che gli uomini fossero superiori alle donne. Perciò la teoria della polarità maschio-femmina - che come tutte le polarità implica differenza e uguaglianza - era inaccettabile per lui. Questo pregiudizio emozionale maschile lo aveva, molto tempo addietro, portato a formulare la teoria che le donne sono maschi mutilati, dominate dal complesso di castrazione e dall'invidia del pene, inferiori all'uomo anche perché dotate di un Super-io più debole, ma di un narcisismo più forte di quello maschile. Se questa costruzione è indubbiamente brillante, è altrettanto palese che il presupposto secondo cui metà della razza umana è una versione mutilata dell'altra metà, è né più né meno un'assurdità, che si può spiegare soltanto con l'abisso del pregiudizio sessuale (non troppo diverso da quello razziale e/o religioso). È sorprendente allora che Freud si sia arrestato qui, quando, seguendo il mito di Platone, sarebbe stato certo costretto ad ammettere l'uguaglianza maschio-femmina? Certo, Freud non poteva fare questo passo: perciò cambiò l'unione maschio-femmina in unione della «sostanza vivente», rifiutando una soluzione logica alla difficoltà che l'Eros non condivideva la natura conservativa degli istinti.

Mi sono soffermato a lungo su questo punto per diverse ragioni. Prima di tutto, perché conoscere le motivazioni che lo costrinsero ad arrivare a queste soluzioni contraddittorie aiuta a capire le contraddizioni immanenti della teoria freudiana. In secondo luogo, perché l'importanza di questo problema va ben al di là delle particolari vicissitudini della teoria istintuale freudiana. Dunque, stiamo cercando di interpretare il pensiero conscio di Freud come un compromesso fra la nuova visione e le vecchie abitudini di pensiero radicate nel suo «complesso patriarcale», che gli impedì di esprimere la nuova visione con chiarezza e senza ambiguità. In altre parole, Freud era prigioniero dei sentimenti e delle abitudini di pensiero della sua società, che fu incapace di trascendere.19 Quando recepiva una nuova visione, soltanto una parte - o le sue conseguenze - diventava conscia, mentre un'altra parte restava inconscia, perché incompatibile col suo «complesso» e col precedente pensiero conscio. Così il suo pensiero conscio era costretto a tentare di negare le contraddizioni e le incongruenze, elaborando costruzioni sufficientemente plausibili da soddisfare i processi di pensiero consci.20

Freud non scelse - e non poteva scegliere, come ho cercato di dimostrare - la soluzione di far si che l'Eros si adattasse alla sua definizione di istinti, e cioè alla natura conservativa di questi. Gli restava forse una diversa alternativa teorica? Credo di si. Avrebbe potuto trovare un'altra soluzione da conciliare con la sua nuova visione, il ruolo dominante di amore e distruttività all'interno della sua vecchia, tradizionale teoria della libido. Avrebbe potuto instaurare una polarità fra sessualità pregenitale (sadismo orale e anale) come fonte di distruttività e sessualità genitale come fonte d'amore.21 Ma naturalmente, per un motivo già indicato in un altro contesto, questa soluzione era difficile da accettare per lui. Si sarebbe avvicinata pericolosamente a una visione monistica, perché sia la distruttività sia l'amore sarebbero stati libidici. Eppure, arrivando alla conclusione che la componente distruttiva della libido sadico-anale è l'istinto di morte, Freud aveva già posto la base per una connessione fra distruttività e sessualità pregenitale. (S. Freud, 1923, 1920.) Se fosse così, sembrerebbe legittimo ipotizzare che la stessa libido anale dovesse avere una profonda affinità con l'istinto di morte: in realtà potrebbe sembrare scontata la conclusione successiva, e cioè che mirare alla distruzione è nell'essenza stessa della libido anale.

Ma Freud non giunse a questa conclusione, ed è interessante analizzarne i motivi.

La prima ragione risiede in un'interpretazione troppo limitata della libido anale. Per Freud e i suoi allievi l'aspetto essenziale dell'analità risiede nella tendenza a controllare e possedere (oltre all'aspetto amichevole di trattenere). Ora, le tendenze a controllare e possedere sono certamente opposte a quelle di amare, far crescere, liberare, che formano una sindrome a parte; ma «possesso» e «controllo» non contengono l'essenza stessa della distruttività, il desiderio di distruggere, l'ostilità alla vita. Indubbiamente, il carattere anale ha un'attrazione e un interesse profondi per le feci come parte della sua affinità generale a tutto ciò che non è vivo. Le feci sono il prodotto definitivamente eliminato dal corpo, al quale non sono più di alcuna utilità. Il carattere anale è attratto dalle feci così come è attratto da qualsiasi cosa non serva alla vita, e cioè lerciume, morte, putrefazione.22 Perciò possiamo dire che la tendenza a controllare e possedere non è che un aspetto del carattere anale, ma più tenue e meno maligna dell'odio per la vita. Io credo che se Freud avesse visto questa diretta connessione tra feci e morte, sarebbe potuto arrivare alla conclusione che la polarità principale è fra orientamento genitale e orientamento anale, due entità clinicamente ben studiate che sono l'equivalente di Eros e dell'istinto di morte. In tal caso, Eros e l'istinto di morte non gli sarebbero apparsi come due tendenze biologicamente innate e ugualmente forti, ma avrebbe considerato Eros come l'obiettivo biologicamente normale dello sviluppo, mentre avrebbe visto nell'istinto di morte la conseguenza del fallimento dello sviluppo normale e, in questo senso, una tensione patologica, anche se radicata in profondità. Volendo formulare una speculazione biologica, si potrebbe mettere l'analità in relazione al fatto che l'orientamento con l'olfatto è caratteristico di tutti i mammiferi a quattro zampe, e che la stazione eretta implica il passaggio all'orientamento con la vista. Questo cambiamento di funzione del vecchio cervello olfattivo sarebbe seguito da una corrispondente trasformazione di orientamento. In questo senso, si potrebbe considerare l'ipotesi che il carattere anale costituisca una fase regressiva dello sviluppo biologico per la quale potrebbe persino esserci una base genetico-costituzionale. L'analità del bambino piccolo potrebbe rappresentare una ripetizione evolutiva di una fase biologicamente precedente nel processo di transizione al funzionamento umano completamente sviluppato. (Secondo i termini freudiani, analità-distruttività avrebbero la natura conservativa di un istinto, e cioè segnerebbero il ritorno dell'orientamento genitalità-amore-vista a quello analità-distruzione-odore.)

Il rapporto fra istinto di morte e istinto di vita sarebbe stato essenzialmente come quello esistente fra libido pregenitale e genitale nello schema di sviluppo freudiano. La fissazione della libido a livello anale sarebbe stato un fenomeno patologico, ma con profonde radici nella costituzione psicosessuale, mentre il livello genitale avrebbe caratterizzato l'individuo sano. In questa speculazione, allora, il livello anale avrebbe avuto due diversi aspetti: uno, la pulsione a controllare; l'altro, la pulsione a distruggere. Come ho tentato di dimostrare, questa sarebbe la differenza fra sadismo e necrofilia.

Ma Freud non stabilì tale connessione, e forse non poteva, per le ragioni già discusse riguardo alle difficoltà sorte nella teoria dell'Eros.

3. Potere e limitazioni dell'istinto di morte

Nelle pagine precedenti ho indicato le contraddizioni immanenti in cui Freud cadde inevitabilmente quando passò dalla teoria della libido alla teoria dell'Eros-istinto-di-morte. Ma in quest'ultima teoria c'è un altro conflitto di tipo diverso che deve attirare la nostra attenzione : il conflitto fra Freud il teorico e Freud l'umanista. Il teorico arriva alla conclusione che l'uomo ha soltanto l'alternativa di distruggere se stesso (lentamente, con la malattia) o distruggere gli altri; o, per dirla in parole semplici, fra il causare sofferenze a se stesso o agli altri. L'umanista si ribella all'idea di un'alternativa così tragica che farebbe della guerra una soluzione razionale a questo aspetto della esistenza umana.

Non che Freud fosse alieno dalle alternative tragiche. Al contrario, nella sua prima teoria ne aveva costruita proprio una: rimozione delle esigenze istintuali (soprattutto pregenitali) come base per lo sviluppo della civiltà; la pulsione istintuale rimossa era «sublimata» in preziosi canali culturali, ma sempre a danno della completa felicità umana. D'altra parte, la rimozione non accresceva soltanto la civiltà, ma anche lo sviluppo di nevrosi nelle persone in cui il processo repressivo non funzionava. Dunque, l'alternativa sembrava essere questa: mancanza di civiltà e felicita totale, oppure civiltà accoppiata a nevrosi e diminuzione della felicità.23-24

La contraddizione fra l'istinto di morte ed Eros obbliga l'uomo ad affrontare un'alternativa veramente tragica. Un'alternativa reale perché, pur di non soffrire, può decidere di attaccare, di scatenare guerre, di essere aggressivo ed esprimere in qualche modo la sua ostilità. Che una simile alternativa sia tragica, non è necessario dimostrarlo, almeno nel caso di Freud o di qualche altro umanista.

Freud non fa alcun tentativo di annebbiare il problema, smussando l'asprezza del conflitto. Come abbiamo detto in precedenza, scrive nella Introduzione alla psicoanalisi del 1933:

«Ci si presenta subito la possibilità che l'aggressività non trovi soddisfacimento nel mondo esterno, perché si imbatte in ostacoli reali, e ci domandiamo che cosa accadrebbe. In tal caso, forse si ritirerà, andrà ad accrescere l'autodistruttività predominante all'interno. Vedremo che avviene realmente così e quanto sia importante questo processo.» (S. Freud, 1933.)

Nel Sommario di psicoanalisi scrive: «Trattenersi dall'aggressione è in genere cosa perniciosa, rende malato, affligge». (S. Freud, 1938.) Dopo aver tracciato così nettamente le linee di demarcazione, come reagisce Freud all'impulso di non lasciare i problemi umani in un cul-de-sac così disperato, evitando di schierarsi fra coloro che raccomandano la guerra come elisir della razza umana?

In realtà Freud tentò varie volte di uscire dal suo dilemma di teorico e umanista. Per esempio, con l'idea che l'istinto distruttivo possa essere trasformato in coscienza morale. In II disagio della civiltà, Freud pone questo interrogativo : «Che cosa avviene nell'individuo [nell'aggressore] a rendere innocuo il suo desiderio di aggressione?». Così risponde Freud :

«Qualcosa di assai curioso, che non avremmo mai indovinalo e che pure è così semplice. L'aggressività viene introiettata, interiorizzata, propriamente viene rimandata là donde è venuta, ossia è volta contro il proprio Io. Qui viene assunta da una parte dell'Io, che si contrappone come Super-io al rimanente, ed ora come «coscienza» è pronta a dimostrare contro l'Io la stessa inesorabile aggressività che l'Io avrebbe volentieri soddisfatto contro altri individui estranei. Chiamiamo senso di colpa la tensione tra il rigido Super-io e l'Io ad esso soggetto; tale senso si manifesta come bisogno di punizione. La civiltà domina dunque il pericoloso desiderio di aggressione dell'individuo infiacchendolo, disarmandolo e facendolo sorvegliare da una istanza nel suo interno, come da una guarnigione nella città conquistata.» (S. Freud, 1930.)25

A differenza di quel che crede Freud, trasformare la distruttività in coscienza auto-punitiva non sembra rappresentare un gran vantaggio. Secondo la sua teoria, la coscienza dovrebbe essere crudele come l'istinto di morte, perché impregnata delle energie di quest'ultimo. Non si spiega perché l'istinto di morte dovrebbe essere «infiacchito» e «disarmato». La seguente analogia sembra esprimere più logicamente le conseguenze reali del pensiero freudiano: una città che è stata governata da un tiranno crudele sconfigge questi con l'aiuto di un dittatore, il quale instaura un sistema spietato quanto quello del nemico sconfitto: dov'è il vantaggio, allora?

Questa teoria di una rigida coscienza come manifestazione dell'istinto di morte non è, comunque, l'unico tentativo compiuto da Freud per attenuare la sua tragica alternativa. Qui egli offre una spiegazione meno drastica: «Temperata e imbrigliata, in certo qual modo inibita nella meta, la pulsione distruttiva diretta verso gli oggetti procura all'Io il soddisfacimento dei suoi bisogni vitali e il dominio della natura». (S. Freud, 1930.) Questo sembra un buon esempio di «sublimazione»j26 la meta dell'istinto non è indebolita, ma diretta verso altri obiettivi socialmente validi, in questo caso il «dominio della natura».

Sembrerebbe davvero una soluzione perfetta. L'uomo è liberato dalla tragica alternativa fra distruggere gli altri o se stesso, perché l'energia dell'istinto distruttivo è usata per il controllo sulla natura. Ma, dobbiamo chiederci, può essere veramente così? Può essere vero che la distruttività si converta in costruttività? Cosa può significare il «controllo sulla natura»? Addomesticare e allevare animali, raccogliere e coltivare piante, tessere stoffe, costruire capanne, fabbricare ceramiche, e molte altre attività fra cui la costruzione di macchine, ferrovie, aeroplani, grattacieli. Tutti questi sono atti di costruzione, creazione, unificazione, sintesi, e, volendoli attribuire a uno dei due istinti fondamentali, appaiono motivati dall'Eros piuttosto che dall'istinto di morte. Con la possibile eccezione dell'uccisione di animali per motivi di consumo e dell'uccisione di uomini in guerra, due attività che potrebbero essere considerate entrambe come radicate nella distruttività, la produzione materiale non è distruttiva, ma costruttiva.

Nella sua risposta alla lettera di Albert Einstein, Perché la guerra?, Freud compie un ulteriore tentativo di ammorbidire l'asprezza della sua alternativa. Ma nemmeno in questa occasione, trovandosi a esaminare le cause psicologiche della guerra dietro sollecitazione di uno dei più grandi scienziati e umanisti del secolo, Freud tentò di nascondere o di mitigare l'asprezza delle precedenti alternative. Con estrema chiarezza, scrive:

«Con un po' di speculazione, ci siamo convinti che essa è all'opera nell'interno di ogni essere vivente, e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato di materia inanimata. Con tutta serietà le si addice il nome di pulsione di morte, mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare gli sforzi verso la vita. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva allorquando, con l'aiuto di certi organi, si rivolge all'esterno, verso gli oggetti. L'essere vivente protegge, per così dire, la propria vita distruggendone una estranea. Una parte della pulsione di morte, tuttavia, rimane attiva all'interno dell'essere vivente, e noi abbiamo tentato di derivare tutta una serie di fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione della pulsione distruttiva. Siamo persino giunti all'eresia di spiegare l'origine della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell'aggressività verso l'interno. Noti che non è affatto indifferente se questo processo è spinto troppo oltre: il processo diretto è malsano. Invece il volgersi di queste forze pulsionali alla distruzione nel mondo esterno scarica l'essere vivente, e non può non avere un effetto benefico. Ciò serve come scusa biologica a tutti gli impulsi esecrabili e pericolosi contro i quali noi combattiamo. Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura di quel che lo sia la resistenza con cui noi li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo trovare la spiegazione.» (S. Freud, 1933 a. Il corsivo è mio.)

Dopo essersi espresso senza mezzi termini, con estrema chiarezza, riassumendo le opinioni manifestate in precedenza sull'istinto di morte, e dopo aver dichiarato la propria incredulità per quei resoconti in cui si descrivono regioni felici dove vivono razze «presso le quali la coercizione e l'aggressione sono sconosciute», Freud tenta, verso la fine della lettera, di arrivare a una conclusione meno pessimista di quella fatta balenare all'inizio. La sua speranza si fonda su diverse possibilità: «Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all'antagonista di questa pulsione : l'Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi fra gli uomini deve agire contro la guerra». (S. Freud, 1933a.)

È veramente notevole e commovente questo tentativo compiuto da Freud l'umanista e, come egli si autodefinisce, «pacifista», per eludere quasi freneticamente le conseguenze logiche delle sue stesse premesse. Ma se l'istinto di morte è veramente potente e fondamentale come egli afferma in continuazione, è possibile che basti la comparsa sulla scena dell'Eros per ridurlo fortemente, considerando che sono entrambi contenuti in ogni cellula, e costituiscono una qualità irriducibile della materia vivente?

Il secondo argomento di Freud in favore della pace è ancor più fondamentale. Alla fine della sua lettera ad Einstein, scrive:

«Ora, la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l'atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, così che dobbiamo ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più, non è soltanto un rifiuto intellettuale e affettivo, in noi pacifisti è un'intolleranza costituzionale, per così dire il massimo della idiosincrasia. E mi sembra vero che le degradazioni estetiche della guerra non hanno nel nostro rifiuto una parte molto minore delle sue crudeltà.

Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo.» (S. Freud, 1933 a.)

Alla fine della lettera, Freud sfiora un'intuizione che emerge di tanto in tanto nella sua opera:27 il processo di civilizzazione come causa di una rimozione duratura, costituzionale», «organica», degli istinti.

Freud aveva già espresso questo concetto molto tempo addietro, nei Tre saggi, parlando dell'aspro conflitto fra istinto e civiltà: «Nel bambino civile si ha l'impressione che la costruzione di questi argini sia opera dell'educazione, e certamente l'educazione vi contribuisce molto. In realtà, questo sviluppo è condizionato organicamente, fissato ereditariamente, e può talvolta verificarsi senza alcun aiuto dell'educazione». (S. Freud, 1905. Il corsivo è mio.)

In II disagio della civiltà Freud portò avanti questa linea di pensiero parlando di «rimozione organica», per esempio nel caso di tabu connessi alla mestruazione e all'erotismo anale, e che costituirebbero l'«asfalto» sull'autostrada della civiltà. Ma già nel 1897 Freud si esprimeva in questo senso, in una lettera a Fliess (14 novembre 1897, lettera 75): «Ho sempre sospettato che un elemento organico entrasse in gioco nella rimozione». (S. Freud, 1897.)28

Dai vari brani citati emerge che, affidandosi a una intolleranza «costituzionale» per la guerra, Freud non vuole soltanto tentare di trascendere la tragica prospettiva del suo concetto di istinto di morte formulato, per così dire, ad hoc per la discussione con Einstein, ma segue una linea di pensiero che, sebbene non fosse mai stata dominante, era comunque presente nel background dei suoi pensieri fin dal 1897.

Se fosse esatto il presupposto freudiano che la civiltà produce rimozioni «costituzionali» ed ereditarie, e cioè che nel processo di civilizzazione certe esigenze istintuali sono di fatto indebolite, allora egli avrebbe veramente trovato una via di uscita al dilemma. Allora l'uomo civile non sarebbe dominato, con la stessa intensità del primitivo, da certe esigenze istintuali contrarie alla civiltà; in lui l'impulso distruttivo non avrebbe la stessa intensità e potenza. Da questa linea di pensiero potrebbe infine scaturire l'ipotesi che certe inibizioni a uccidere si sarebbero formate durante il processo di civilizzazione, diventando ereditariamente fissate. Ma, anche se fosse possibile scoprire in generale questi fattori ereditari, sarebbe estremamente difficile assicurarne l'esistenza nel caso dell'istinto di morte.

Secondo il concetto freudiano, l'istinto di morte è una tendenza intrinseca a tutta la sostanza vivente; proporre che questa fondamentale forza biologica possa essere indebolita nel corso della civilizzazione, è teoricamente difficile da sostenere. Secondo la stessa logica si potrebbe presumere che anche l'Eros potrebbe essere indebolito costituzionalmente, arrivando al presupposto più generale che la stessa natura della sostanza vivente può essere alterata, attraverso una rimozione «organica»29 dal processo di civilizzazione.

Comunque sia, tentare di appurare la verità rispetto a questo punto appare oggi uno dei più importanti argomenti di ricerca. Esistono prove sufficienti a dimostrare che, nel corso del processo di civilizzazione, vi è stata una rimozione costituzionale, organica, di certe esigenze istintuali? Questa rimozione si differenzia forse dalla rimozione nel senso freudiano, nella misura in cui indebolisce l'esigenza istintuale, invece di rimuoverla dalla coscienza o deviarla verso altri scopi? E, più specificamente, nel corso della storia gli impulsi distruttivi umani si sono indeboliti, oppure si sono sviluppati impulsi inibitori che ora sono fìssati ereditariamente? Per rispondere a questa domanda occorrerebbero studi estesi, soprattutto di antropologia, sociopsicologia e genetica.

Riconsiderando i vari tentativi compiuti da Freud per attenuare l'asprezza della sua alternativa fondamentale - distruzione degli altri o di se stesso - possiamo soltanto ammirare la sua perseveranza nel tentativo di trovare una via d'uscita al dilemma e, allo stesso tempo, la sua onestà, poiché egli si rifiutò sempre di credere che la sua fosse una soluzione soddisfacente. Perciò, nel Sommario, non fa più alcun riferimento ai fattori che limitano il potere della distruttività (tranne il ruolo del Super-io), e così conclude : «Ciò è uno dei pericoli igienici che l'uomo si addossa nella sua via verso lo sviluppo culturale. Trattenersi dall'aggressione è in genere cosa perniciosa, rende malato, affligge». (S. Freud, 1938.)30

4. Critica alla sostanza della teoria

Dopo la critica immanente alla teoria freudiana degli istinti di vita e di morte dobbiamo verificare criticamente la sostanza della sua argomentazione. Poiché già molto è stato scritto in proposito, non avrò bisogno di prendere in esame tutti i punti, ma mi limiterò a indicare quelli particolarmente interessanti per la mia prospettiva e quelli non ancora affrontati dagli altri autori.

Forse, in questo come rispetto ad altri problemi, la debolezza fondamentale di Freud risiede nel fatto che, in lui, il teorico e il creatore di sistemi hanno la meglio sull'osservatore clinico. Per di più, Freud era guidato unilateralmente dalla sua immaginazione intellettuale, piuttosto che da quella empirica, altrimenti avrebbe intuito che sadismo, aggressività, distruttività, volontà di potenza e di dominio sono, qualitativamente, fenomeni del tutto diversi, anche se non sempre è possibile tracciare una netta linea di demarcazione. Ma Freud pensava in termini astratti, teorici; quel che non era amore, era istinto di morte, e ogni nuova tendenza doveva essere classificata secondo il nuovo dualismo. Mettendo insieme tendenze psichiche diverse e in parte contraddittorie, si arriva necessariamente a non capirne più nulla; si è costretti a parlare in un linguaggio alienato di fenomeni che è possibile discutere soltanto usando parole che si riferiscono a forme di esperienza diverse, specifiche.

Eppure, talvolta, Freud diede prova di saper trascendere il suo legame con la teoria dualistica degli istinti, individuando alcune differenze qualitative essenziali fra varie forme di aggressività, anche se non le contrassegnò con termini diversi. Ecco le tre forme principali da lui descritte:

1. Impulsi di crudeltà, indipendenti dalla sessualità, basati sugli istinti di auto-conservazione; il loro obiettivo è capire i pericoli realistici e difendersi da aggressioni. (Freud, 1905.) Questa aggressione ha come compito la sopravvivenza, e cioè la difesa contro minacce a interessi vitali. Corrisponderebbe grosso modo a quel che ho chiamato «aggressione difensiva».

2. Nel suo concetto di sadismo, Freud vide una forma di distruttività che ricava voluttà dall'atto di distruggere, violentare, torturare (anche se spiegò la qualità particolare di questa forma di distruttività come una lega fra voluttà sessuale e istinto di morte non-sessuale). Questo tipo corrisponderebbe al «sadismo».

3. Infine, Freud riconobbe un terzo tipo di distruttività, che descrive nei termini seguenti : «Ma persino quando emerge senza alcuno scopo sessuale, nella più cieca furia distruttiva, non possiamo negare che la soddisfazione dell'istinto sia accompagnata da un grado di godimento narcisistico estremamente elevato, poiché vengono placati i vecchi desideri di onnipotenza dell'Io».

Non è facile stabilire a quale fenomeno si riferisca Freud in questo passo : se alla pura distruttività del necrofilo, o alle forme estreme di una folla di distruttività di sadici, ebbri di potere, che vogliono linciare o stuprare. Forse la difficoltà risiede nel problema generale di discriminare fra forme estreme di rabbia sadica, onnipotente, e necrofilia pura, e su questo punto ho già espresso il mio parere. Ma qualunque sia la risposta, resta il fatto che Freud, pur individuando diversi fenomeni, rinunciò alla differenziazione quando dovette adeguare i fatti clinici alle sue esigenze teoriche.

A che punto ci troviamo dopo questa analisi della teoria freudiana dell'istinto di morte? È sostanzialmente diversa dalla interpretazione di un «istinto distruttivo» riconosciuto da molti psicoanalisti o dalla precedente tesi freudiana, la teoria della libido? Durante questa discussione abbiamo ricostruito i sottili cambiamenti e le contraddizioni nello sviluppo freudiano della teoria dell'aggressione. Nella risposta a Einstein abbiamo visto che, per un attimo, Freud si abbandona a speculazioni che tendono a smorzare la sua posizione, rendendola meno facilmente funzionale alla giustificazione della guerra. Ma se riprendiamo di nuovo in esame la costruzione teorica di Freud, diventa evidente che, ciò nonostante, il carattere fondamentale dell'istinto di morte segue, in un certo modo, la logica del modello idraulico che Freud aveva originariamente applicato all'istinto sessuale. In tutta la sostanza vivente viene costantemente generata una tensione di morte, che lascia una sola alternativa: compiere interiormente una silenziosa opera di distruzione dell'uomo, oppure rivolgersi all'esterno, come «distruttività», e salvare l'uomo dall'auto-di- struzione, distruggendo gli altri. Come dice Freud : «Trattenersi dall'aggressione è in genere cosa perniciosa, rende malato, affligge». (S. Freud, 1938.)

Tirando le somme di questa discussione sulla teoria freudiana dell'istinto di vita e di morte, è difficile evitare la conclusione che, dal 1920, Freud rimase coinvolto in due concetti fondamentalmente diversi e in due approcci ben distinti al problema della motivazione umana. Il primo, il conflitto fra auto-conservazione e sessualità, era il concetto tradizionale, ragione contro passione, dovere contro inclinazione naturale, o fame contro amore, come le forze pulsionali che dominano l'uomo. L'ultima teoria, basata sul conflitto fra l'inclinazione a vivere e quella a morire, fra integrazione e disintegrazione, fra amore e odio, era completamente diversa. Anche se, in fondo, si potrebbe dire che era basata sul concetto popolare di amore e odio intesi come le due forze che guidano l'uomo, era in realtà più profonda e originale; seguiva la tradizione platonica dell'Eros, e considerava l'amore come l'energia che coagula tutta la sostanza vivente, garante della vita. Ancor più specificamente, sembra seguire l'idea di Empedocle, secondo cui il mondo delle creature viventi può esistere soltanto finché si combattono attivamente le forze contrarie di Odio e Amore, il potere di attrazione e repulsione.31

5. II principio di riduzione dell'eccitazione: la base del principio di piacere e dell'istinto di morte

Le differenze fra la vecchia e la nuova teoria di Freud non devono comunque farci dimenticare l'assioma, profondamente fissato nella mente di Freud da quando studiava con von Brücke, comune a entrambe le teorie. L'assioma è il principio della «riduzione della tensione», filo conduttore nel pensiero freudiano dal 1888 fino alla sua ultima discussione sull'istinto di morte.

Già agli inizi della sua opera, nel 1888, Freud parlava di una «quantità stabile di eccitamento» (S. Freud, 1888). Formulò più esplicitamente il principio nel 1892 : «Il sistema nervoso tende, nei suoi rapporti funzionali, a mantenere costante qualcosa che potremmo chiamare "somma di eccitamento", ed esso realizza questa precondizione della sanità psichica liquidando ogni sensibile incremento di eccitamento (Erregungszuwachs) per via associativa o scaricandolo mediante una corrispondente reazione motoria». (S. Freud, 1892. Il corsivo è mio.)

Di conseguenza, nell'ambito della sua teoria dell'attacco isterico, definisce il trauma psichico come «ogni impressione la cui liquidazione, tramite lavoro mentale associativo o tramite reazione motoria, presenti difficoltà per il sistema nervoso». (S. Freud, 1892. Il corsivo è mio.)

In Progetto di una psicologia scientifica (1895a), Freud parla del «principio dell'inerzia neuronica», secondo il quale «i neuroni tendono a liberarsi di Q. La struttura, lo sviluppo e le funzioni dei neuroni diventano così comprensibili». (Freud, 1895a.)32 Non è del tutto chiaro quel che intende Freud per Q. In questo scritto lo definisce come «ciò che distingue l'attività dalla quiete» (Freud 1895a), alludendo così all'energia nervosa.33 Ad ogni modo possiamo tranquillamente affermare che in quei primi anni cominciò a delinearsi quel che in seguito Freud chiamò il «principio di costanza», implicando con esso la riduzione di ogni attività nervosa a un livello minimo. Venticinque anni dopo, in Al di là del principio del piacere, Freud enunciava il principio nei seguenti termini psicologici: «L'apparato psichico avrebbe la tendenza a mantenere al livello più basso possibile, o, per lo meno, a un livello quanto più è possibile costante, la quantità di eccitamento che contiene». (S. Freud, 1920. Il corsivo è mio.) Freud si esprime qui come se vedesse lo stesso principio - quello della «costanza» o dell'«inerzia» - in due versioni : una che tiene l'eccitamento a livello costante, l'altra che lo riduce al livello più basso possibile. Talvolta Freud usò i due termini indiscriminatamente per designare l'una o l'altra versione del principio fondamentale.34

Il principio di piacere si basa sul principio di costanza. L'eccitamento libidico prodotto chimicamente deve essere ridotto al suo livello normale; questo principio di mantenere la tensione a un livello costante governa il funzionamento del sistema nervoso. Quando sale sopra il livello di guardia, la tensione viene sentita come «dispiacere», mentre la sua riduzione a un livello costante è fonte di «piacere». «I fatti che ci fanno assegnare al principio del piacere un ruolo preponderante nella vita psichica si basano sull'ipotesi per cui l'apparato psichico avrebbe la tendenza a mantenere al livello più basso possibile, o, per lo meno, a un livello quanto più è possibile costante, la quantità di eccitamento che contiene... Il principio del piacere viene così ad essere dedotto dal principio della costanza.» (S. Freud, 1920. Il corsivo è mio.) A meno che non si tenga presente l'assioma freudiano della riduzione della tensione, non si capirà mai la sua posizione, che non era incentrata sul concetto di ricerca edonistica del piacere, ma sul presupposto della necessità fisiologica di ridurre la tensione e, quindi, psichicamente, il dispiacere. Il principio di piacere significa fondamentalmente mantenere l'eccitamento a un certo livello costante. Ma il principio di costanza implica anche la tendenza a mantenere l'eccitamento a un livello minimale. In questa versione, diventa la base dell'istinto di morte. Secondo l'enunciazione di Freud : «La convinzione che noi abbiamo acquisita che la vita psichica, e forse anche la vita nervosa in genere, sia dominata dalla tendenza all'abbassamento, alla soppressione della tensione interna provocata dalle eccitazioni (dal principio del Nirvana, per servirci dell'espressione di Barbara Law) - una tendenza che trova espressione nel principio del piacere -, questa convinzione, dunque, costituisce una delle principali ragioni che ci inducono a credere all'esistenza di istinti di morte». (S. Freud, 1920.)

A. questo punto, Freud arriva a una posizione quasi insostenibile: il principio di costanza, di inerzia, del Nirvana, sono identici; il principio della riduzione della tensione governa l'istinto sessuale (secondo i termini del principio di piacere) ed è allo stesso tempo l'essenza dell'istinto di morte. Considerando che, secondo Freud, dall'istinto di morte ha origine non solo l'autodistruzione, ma anche la distruzione degli altri, egli arriverebbe al paradosso che il principio di piacere e l'istinto distruttivo derivano dallo stesso principio. Ovviamente, Freud non poteva accontentarsi di una simile soluzione, tanto più che corrispondeva a un modello monistico, e non a quel modello dualistico di forze in conflitto cui egli non rinunciò mai. Quattro anni dopo scriveva in II problema economico del masochismo :

«Ma abbiamo identificato senza esitazione il principio di piacere-dispiacere con questo principio del Nirvana... Il principio del Nirvana (e il principio di piacere che presumibilmente si identifica con esso) sarebbe completamente al servizio degli istinti di morte, il cui obiettivo è portare l'inquietudine della vita nella stabilità dello stato inorganico, e avrebbe la funzione di emanare avvertimenti contro le istanze degli istinti di vita - la libido - che cercano di turbare il corso designato della vita. Ma questa teoria non può essere giusta.» (S. Freud, 1924. Il corsivo è mio.)

Per dimostrare l'inesattezza di questa posizione Freud compie un passo che sarebbe stato opportuno fin dall'inizio. Scrive:

«Sembra che, nella gamma di sentimenti di tensione, abbiamo un quadro diretto dell'aumento e del calo degli stimoli, ed è indubitabile che vi siano tensioni piacevoli e sfoghi spiacevoli della tensione. Lo stato di eccitamento sessuale è l'esempio più efficace di aumento piacevole dello stimolo, ma non è certo l'unico.

Perciò piacere e dispiacere non possono essere messi in relazione con un aumento o calo quantitativo (che descriviamo come «tensione derivata dallo stimolo»), anche se, ovviamente, sono connessi a questo fattore. Sembra che dipendano non da questo fattore quantitativo, ma da una sua caratteristica che possiamo definire unicamente qualitativa. Se fossimo in grado di precisare questa caratteristica qualitativa, saremmo molto più progrediti in psicologia. Forse è il ritmo, la sequenza temporale di cambiamenti, crescita e cali nella quantità dello stimolo. Non sappiamo.» (S. Freud, 1924.)

Anche se, a quanto pare, questa spiegazione non lo soddisfaceva, Freud non sviluppò oltre questa linea di pensiero. Ne persegui invece un'altra, che doveva superare il pericolo presentato dall'identificazione di piacere e distruzione. Così prosegue:

«Comunque sia, dobbiamo riconoscere che, appartenendo come appartiene all'istinto di morte, il principio del Nirvana ha subito una modificazione negli organismi viventi, attraverso la quale è diventato principio di piacere; e perciò d'ora in poi eviteremo di considerare i due princìpi come uno solo... Il principio del Nirvana esprime la tendenza dell'istinto di morte; il principio di piacere rappresenta le istanze della libido; e la modificazione dell'ultimo principio, quello di realtà, rappresenta l'influenza del mondo esterno.» (S. Freud, 1924.)

In realtà questa formula con cui Freud si propone di mettere in chiaro che il principio di piacere e l'istinto di morte sono due entità ben separate, ha tutta l'aria di un dogma.

Egli fallisce, a mio avviso, nel suo tentativo, pur estremamente brillante, di districarsi da una posizione paradossale. Ad ogni modo, non è questo che ci interessa ora, ma il fatto che l'intero pensiero psicologico freudiano fu dominato, dall'inizio alla fine, dall'assioma che il principio di riduzione dell'eccitamento governava tutta la vita psichica e nervosa.

Conosciamo le origini dell'assioma. Freud stesso indicò in G. Th. Fechner (1873) il padre di questa idea. Scrisse:

«Non possiamo tuttavia restare indifferenti al fatto che uno scienziato così acuto come G. Th. Fechner concepisse il piacere e il dispiacere in un modo che, nei suoi tratti essenziali, è molto prossimo a quello che deriva dalle nostre ricerche psicoanalitiche. Nel suo opuscolo Einige Ideen zur Schöpjungs-und Entwicklungsgeschichte der Organismen (1875, XI, Appendice, pag. 94) egli ha così formulato la sua tesi: “Posto che gli impulsi coscienti sono sempre accompagnati da piacere o da dispiacere, possiamo ben ammettere che esistano egualmente rapporti psico-fisici tra il piacere e il dispiacere da una parte e gli stati di stabilità e di instabilità dall'altra; e valerci di questi rapporti a sostegno dell'ipotesi, che svilupperemo altrove, per cui ogni movimento psico-fisico che varca la soglia della coscienza è accompagnato da piacere per quel tanto che lo avvicina alla piena stabilità, oltre un certo limite, ed è accompagnato da dispiacere per quel tanto che lo avvicina alla completa instabilità, sempre oltre un certo limite; una certa zona di indifferenza estetica esiste fra i due punti limite, che possono esser considerati come i soli qualificativi del piacere e del dispiacere...»."

I fatti che ci fanno assegnare al principio del piacere un ruolo preponderante nella vita psichica si basano sull'ipotesi per cui l'apparato psichico avrebbe la tendenza a mantenere al livello più basso possibile, o, per lo meno, a un livello quanto più è possibile costante, la quantità di eccitamento che contiene. Ê il principio del piacere formulato in termini un poco diversi; perché, se l'apparato psichico tende a mantenere la propria quantità di eccitamento al livello più basso possibile, ne risulta che quanto è suscettibile di accrescere questa quantità non può esser provato che come anti-funzionale, e cioè come sensazione spiacevole. Il principio del piacere viene così ad essere dedotto dal principio della costanza; mentre in realtà il principio della costanza stesso ci è stato rivelato dagli stessi fatti che ci hanno imposto il principio del piacere. L'ulteriore esame ci mostrerà che la tendenza dell'apparato psichico di cui si è detto, rappresenta un caso particolare del principio di Fechner, cioè della tendenza alla stabilità, cui egli connette le sensazioni di piacere e di dispiacere.» (S. Freud, 1920.)

Ma Fechner non era certo l'unico rappresentante del principio della riduzione della tensione. Stimolato dal concetto energetico della fisica, il concetto di energia e conservazione dell'energia divenne popolare fra i fisiologi. Se Freud ne fosse stato influenzato, queste teorie fisiche avrebbero potuto implicare per lui che l'istinto di morte era soltanto un particolare esempio della legge fisica generale. Ma che tale conclusione è errata, appare evidente considerando la differenza fra materia organica e inorganica. René Dubos ha espresso il problema molto concisamente :

Secondo una delle più fondamentali leggi della fisica, nel mondo della materia regna la tendenza universale a scorrere verso il basso, a cadere al più basso livello possibile di tensione, con perdita costante dell'energia potenziale e dell'organizzazione. Al contrario, la vita costantemente crea e conserva l'ordine dalla casualità della materia. Per percepire il profondo significato di questo fatto basta soltanto pensare a quel che succede a ogni organismo vivente, dal più piccolo al più grosso e più evoluto, quando infine muore. (R. Dubos, New York 1962.)

Due inglesi, R. Kapp (1931) e L. S. Penrose (1931) hanno sviluppato una critica molto convincente a certi autori che hanno cercato di collegare la teoria fisica all'istinto di morte, al punto che si «dovette infine abbandonare l'idea che potesse esistere una qualsiasi relazione fra entropia e istinto di morte».36

Che Freud avesse o non avesse in mente la connessione fra entropia e istinto di morte, non conta gran che. Anche in caso negativo, l'intero principio della riduzione dell'eccitazione e dell'energia al livello minimale si basa sull'errore fondamentale che Dubos indica nel brano sopra citato: l'errore di ignorare la differenza fondamentale fra vita e non-vita, fra «organismi» e «cose».

Per liberarsi da leggi valide soltanto per la materia organica, negli anni successivi un'altra analogia è stata preferita a quella dell'entropia, e cioè il concetto di «omeostasi» sviluppato da Walter B. Cannon (New York, 1963). Ma Jones e gli altri, vedendo in questo concetto un'analogia con il principio freudiano del Nirvana, confondono i due principi. Freud parla della tendenza ad abolire - o ridurre - l'eccitazione. Cannon, invece, come molti ricercatori dopo di lui, parla della necessità di mantenere un ambiente interiore relativamente stabile. Questa stabilità significa che l'ambiente interiore tende a rimanere stabile, ma non che essa tenda a ridurre l'energia al punto minimale. A quanto pare la confusione è provocata dall'ambiguità delle parole «stabilità» e «costanza». Un esempio molto semplice metterà in luce l'errore. Se occorre mantenere la temperatura di una stanza a un livello stabile o costante col termostato, ciò significa che la temperatura non deve né salire né scendere sotto un certo livello; la faccenda cambierebbe però completamente se la temperatura dovesse essere tenuta al livello minimo; in realtà il principio omeostatico della stabilità contraddice il principio del Nirvana, della riduzione totale o relativa dell'energia.

Sembrano esservi pochi dubbi che il fondamentale assioma freudiano della riduzione della tensione, padre sia del principio di piacere sia dell'istinto di morte, derivi la sua esistenza dalle caratteristiche speculative del materialismo meccanicistico tedesco. Certo Freud non ricavò questo concetto dall'esperienza clinica. Il profondo attaccamento alle teorie fisiologiche dei suoi maestri imbrigliò sia lui sia gli psicoanalisti successivi con il famoso «assioma», che incanalò l'osservazione clinica e la formulazione teorica conseguente nella cornice angusta della riduzione della tensione: la qual cosa contrasta con tutta una messe di dati che dimostrano come l'uomo, a ogni età, cerchi eccitazione, stimolazione, rapporti di amore e di amicizia, e sia ansioso di intensificare la propria relazione col mondo. In breve, l'uomo sembra motivato in eguale misura dal principio dell'aumento della tensione e da quello della riduzione della tensione. Pur rendendosi conto della validità limitata del principio della riduzione della tensione, molti psicoanalisti non cambiarono fondamentalmente posizione, cercando di barcamenarsi fra uno strano miscuglio di concetti metapsicologici freudiani e la logica dei loro dati clinici.

Per risolvere l'enigma dell'auto-inganno di Freud sulla validità del concetto dell'istinto di morte, occorre forse un ulteriore elemento. Chi abbia letto con attenzione l'opera freudiana, avrà notato con quale prudenza ed esitazione egli tratti le sue nuove costruzioni teoriche, allorché le espone per la prima volta. Non avanza alcuna pretesa circa la loro validità, e talvolta ne disprezza addirittura il valore. Ma più il tempo passava, più le ipotesi si trasformavano in teorie sulle quali ne venivano edificate delle nuove. Freud il teorico era ben consapevole della dubbia validità di molte delle sue costruzioni. Ma perché dimenticò questi dubbi originari? Ê difficile rispondere: una possibile soluzione sarebbe individuabile nel suo ruolo di leader del movimento psicoanalitico.37 I discepoli che avevano osato criticare aspetti fondamentali delle sue teorie lo abbandonarono, o furono costretti a togliersi di torno in un modo o nell'altro. Quelli che rimasero erano per lo più uomini terre à terre dal punto di vista delle capacità teoriche, e avrebbero avuto difficoltà a seguire svolte teoriche fondamentali del maestro. Avevano bisogno di un dogma in cui credere e intorno al quale organizzarsi.38 Perciò Freud lo scienziato divenne, in una certa misura, prigioniero di Freud il leader del movimento; o, per dirla in altre parole, Freud il maestro divenne prigioniero dei suoi discepoli fedeli, ma scarsamente creativi.

Note

1 Per l'evoluzione della teoria freudiana dell'aggressione, cfr. anche la panoramica di J. Strachey nella introduzione redazionale all'edizione inglese de II disagio della civiltà. (Freud, 1930.)

2 In questa dichiarazione viene espresso il generale assioma freudiano della riduzione della tensione come legge fondamentale del funzionamento nervoso. Cfr. la discussione dettagliata in merito, alla fine di questa Appendice.

3 Nel successivo sviluppo di questo concetto, Freud tende maggiormente a parlare di un istinto di vita (Eros) e di un istinto di morte.

4 Addentrarsi nei particolari del tentativo freudiano di identificare Eros e sessualità richiederebbe un intero capitolo, e probabilmente interesserebbe soltanto gli studiosi specializzati nella teoria freudiana.

5 Qui Freud si riferisce alla II sezione del suo primo scritto sulla nevrosi d'angoscia. (Freud, 1895.)

6 In questa formulazione il conflitto umano fondamentale sembra essere fra egoismo e altruismo. Nella teoria freudiana delI'Es e dell'Io (principio di piacere e principio di realtà), entrambe le componenti della polarità sono egoistiche: soddisfazione delle proprie esigenze libidiche e soddisfazione della propria esigenza di auto-conservazione.

7 In realtà, Freud oscillò fra questo punto di vista e quello secondo cui l'Es era la sede, o il «serbatoio», della libido. J. Strachey, che ha curato la Standard Edition, l'edizione inglese delle opere di Freud, ha descritto con molti particolari la storia di queste oscillazioni riscontrabili nell'intera opera freudiana. Vedi Appendice B a L'Io e l'Es. (Freud, 1923.)

8 Freud qui mette insieme tre tendenze molto diverse. L'istinto di distruggere è fondamentalmente diverso dalla volontà di potenza; nel primo caso voglio distruggere l'oggetto, nel secondo voglio conservarlo e controllarlo, e tutti e due sono completamente diversi dalla pulsione di supremazia, il cui obiettivo è creare e produrre, il che è in realtà l'esatto opposto della volontà di distruggere.

9 Freud arrivò a questa conclusione sulla base del seguente argomento: «Ce ne può indicare la traccia una di quelle che ho chiamato le pretensioni ideali della società incivilita, che dice: "Ama il prossimo tuo come te stesso". È una pretesa nota in tutto il mondo, certamente più antica del Cristianesimo, che la ostenta come la sua più grandiosa dichiarazione, eppure altrettanto certamente non è molto antica; in tempi storici era ancora estranea al genere umano. Proponiamoci di adottare verso di essa un atteggiamento ingenuo, come se ne sentissimo parlare per la prima volta. Impossibile in tal caso reprimere un senso di sorpresa e di disappunto. Perché dovremmo far ciò? Che vantaggio ce ne deriva? Ma soprattutto, come arrivarci? Come ne saremo capaci? Il mio amore è una cosa preziosa, che non ho diritto di gettar via sconsideratamente. Mi impone degli obblighi, e devo esser pronto a fare dei sacrifici per adempierli. Se amo qualcuno, in qualche modo egli se lo deve meritare. (Trascuro i vantaggi che egli mi può arrecare, e anche il suo eventuale significato come mio oggetto sessuale; relazioni di questi due tipi non hanno a che vedere col precetto di amare il prossimo.) Egli lo merita se mi assomiglia in certi aspetti importanti, tanto che io possa in lui amare me stesso; lo merita se è tanto più perfetto di me da poter io amare in lui l'ideale di me stesso; devo amarlo se è figlio del mio amico, poiché il dolore del mio amico se gli accadesse qualcosa sarebbe anche il mio dolore, un dolore che dovrei condividere. Ma se per me è un estraneo, e non può attrarmi per alcun suo merito personale o per alcun significato da lui già acquisito nella mia vita emotiva, mi sarà difficile amarlo. E se ci riuscissi, sarei ingiusto, perché il mio amore è stimato da tutti i miei un segno di preferenza; sarebbe un'ingiustizia verso di loro mettere un estraneo alla pari con loro. Ma se debbo amarlo, con quell'amore universale, semplicemente perché anche lui è un abitante di questa terra, come un insetto, un verme, una biscia, allora temo che gli toccherà una porzione d'amore ben piccola, e mi sarà impossibile dargli tanto, quanto secondo il giudizio della ragione, sono autorizzato a serbare per me stesso» (S. Freud, 1930.) Ê interessante osservare come Freud avesse una concezione dell'amore che rientrava totalmente nello schema di riferimento dell'etica borghese, che rispecchiava cioè specificamente il carattere sociale delle classi medie del diciannovesimo secolo. Il primo interrogativo che si pone è: «Che vantaggio ce ne deriva?», è cioè improntato al principio del profitto. La premessa successiva è che l'amore debba essere «meritato» (il principio patriarcale in contrasto col principio matriarcale dell'amore incondizionato e non-meritato) e, per di più, il principio narcisistico che gli altri «meritano» l'amore nella misura in cui ci somigliano sotto importanti aspetti; persino l'amore per il figlio di un amico è spiegato in termini egoistici, perché se questi, e indirettamente l'amico, dovesse venir danneggiato, la sua pena sarebbe la mia pena. Alla fine dei conti, l'amore è concepito come una certa entità quantitativamente fissata, quindi l'amore fraterno per tutti gli uomini lascerebbe uno spazio molto ristretto per l'amore individuale.

10 Cfr. anche Freud (1908 a).

11 Peter Ammacher (Seattle, 1962) ha spiegato come la formazione teorica di Freud dipenda dal pensiero dei suoi maestri. Così Robert R. Holt riassume la tesi principale di quest'opera, che condivide: «Molte fra le svolte più sconcertanti e apparentemente arbitrarie della teoria psicoanalitica, comprendenti asserzioni false nella misura in cui possono essere verificate, sono o presupposti biologici mascherati, oppure derivati di questi ultimi, che Freud apprese dai suoi maestri alla facoltà di medicina. Divenuti parte fondamentale del suo equipaggiamento intellettuale, incontestati come l'assunto del determinismo universale, probabilmente egli non ne riconobbe sempre la natura biologica ,e perciò rimasero come ingredienti necessari anche quando cercò di passare da un modello organicistico a uno astratto, psicologico». (R. Holt, Madison 1965.)

12 Cfr. J. Pratt (1958).

13 La terminologia freudiana non è sempre coerente. Talvolta si parla di istinti di vita e di morte, talvolta di un istinto di vita e di morte (singolare). L'istinto (o gli istinti) di morte viene (vengono) anche definito (i) distruttivo (i). La parola thanatos (parallela a Eros), come equivalente dell'istinto di morte, non fu usata da Freud, ma introdotta nella discussione da P. Federn.

14 Cfr. per esempio S. Freud (1930).

15 L'uso dell'espressione principio del «Nirvana» è controproducente, perché crea equivoci intorno al Nirvana buddista. Il Nirvana non è, infatti, uno stato di inerzia provocato dalla natura (che, secondo il Buddismo, ha la tendenza opposta), ma dallo sforzo spirituale dell'uomo, che trova la salvezza e il completamento della sua esistenza quando riesce a superare ogni avidità e ogni egoismo ed è pregno di compassione per tutti gli esseri senzienti. Nello stato di Nirvana, il Budda conobbe la gioia suprema.

16 Freud trascura il fatto che l'istinto distruttivo mira alla distruzione dell'oggetto, mentre il sadismo vuole conservare l'oggetto per controllarlo, umiliarlo o ferirlo. Cfr. la discussione sul sadismo nel capitolo XI.

17 In seguito cercherò di dimostrare che esiste veramente una possibile connessione fra la teoria della libido e la teoria dell'istinto di morte attraverso l'anello di congiunzione della teoria della libido anale.

18 In una nota a piè di pagina Freud cita un'idea analoga tratta dalle Brihadàramyaka Upanishad.

19 A differenza di John Stuart Mill, J. J. Bachofen, Karl Marx, Friedrich Engels e alcuni altri.

20 Questo processo avviene in molti grandi pensatori creativi. Spinoza ne è un esempio notevole. Per capire, ad esempio, se Spinoza fosse teista o no, bisogna verificare le discrepanze fra il suo pensiero conscio (in termini teistici), la nuova visione (non-teistica) e il compromesso risultante, una definizione di Dio che è, in realtà, una negazione di Dio. Questo metodo di analisi degli scritti di un autore è psicoanalitico per alcuni importanti aspetti. Si legge fra le righe del testo scritto, come uno psicoanalista legge fra le righe delle libere associazioni o dei sogni del paziente. Il punto di partenza è rappresentato dalle contraddizioni esistenti nelle formulazioni teoriche di un grande pensatore. Poiché egli stesso avrebbe notato e probabilmente risolte queste contraddizioni se fosse stata semplicemente questione di capacità teoriche, dobbiamo presumere che le contraddizioni immanenti sono provocate dal conflitto fra due strutture: quella vecchia, che occupa ancora quasi tutto il territorio conscio, e una radicalmente nuova, che non riesce a esprimersi completamente nel pensiero conscio, e rimane, quindi, parzialmente inconscia. La contraddizione immanente può essere trattata come un sintomo o un sogno, come un compromesso fra una struttura più antica di pensiero conscio radicato affettivamente, e la nuova struttura di una visione teorica che non può esprimersi completamente, perché ostacolata dalle vecchie idee e dai vecchi sentimenti. Anche se è un genio, l'autore potrà essere totalmente inconsapevole dell'esistenza o della natura di queste contraddizioni, mentre un estraneo - non coinvolto nelle stesse premesse - potrà individuarle molto facilmente. Forse Kant si riferiva proprio a questo, quando osservò: «Talvolta capiamo l'autore meglio di quanto l'autore capisca se stesso».

21 Ernst Simmel aveva suggerito precisamente questa soluzione. (E. Simmel, 1944.)

22 L'affinità tra analità e necrofilia viene discussa nel capitolo XII. In quel contesto spiego che il tipico sogno necrofilo è costellato di simboli come feci, cadaveri - interi o smembrati - tombe, rovine, ecc., riportando alcuni esempi.

23 Cfr. per esempio La morale sessuale «civile» e il nervosismo moderno, dove Freud scrisse: «Potremmo ritenere la nostra civiltà responsabile della minaccia della nevrastenia». (S. Freud, 1908 a.)

24 Secondo Herbert Marcuse, Freud avrebbe affermato che la totale felicità richiede l'espressione totale di tutti gli istinti sessuali (che in senso freudiano significherebbe soprattutto le componenti pregenitali). (H. Marcuse, Boston 1955; trad, italiana: Torino 1967.) Che Freud abbia torto o ragione, Marcuse trascura l'essenza del pensiero freudiano, che si esprimeva in tragiche alternative. Perciò che l'uomo debba porsi come obiettivo la soddisfazione illimitata di tutte le componenti dell'istinto sessuale, ha ben poco di freudiano. Invece Freud - che parteggiava per la civiltà contro la barbarie - preferisce la rimozione al suo contrario. Inoltre parlò sempre dell'influenza repressiva della civiltà sugli istinti, e l'idea che questo capiù soltanto nel capitalismo, e non sia indispensabile nel socialismo, è completamente contraria al suo pensiero. A questo proposito Marcuse dimostra una insufficiente conoscenza dei particolari della teoria freudiana.

25 II concetto freudiano di coscienza essenzialmente punitiva è certo molto ristretto, e si muove nella tradizione di certe idee religiose; appartiene a una coscienza «autoritaria», e non «umanistica». (Cfr. E. Fromm, New York 1947; trad, italiana: Roma 1971.)

26 In generale Freud non usò il termine «sublimazione» in connessione con l'istinto di morte, mentre a mio avviso, il concetto affrontato nel paragrafo seguente corrisponde a quella che Freud definisce sublimazione in relazione alla libido. Ma il concetto di «sublimazione» era discutibile anche quando Freud lo applicava agli istinti sessuali, e soprattutto pregenitali. Nel quadro della vecchia teoria, era ben noto l'esempio del chirurgo che usa l'energia sublimata del suo sadismo. Ma è vero? Dopo tutto, il chirurgo non si limita a tagliare; aggiusta anche, ed è più probabile che i migliori chirurghi non siano motivati da sadismo sublimato, ma da molti altri fattori, come la volontà di acquisire abilità manuale, il desiderio di risanare con un'azione immediata, la capacità di prendere rapide decisioni, ecc.

27 Cfr. Freud (1930), e le fonti citate nell'introduzione alla Standard Edition.

28 Mi è stato di grande aiuto il riassunto delle opinioni di Freud sulla «rimozione organica» tracciato dal curatore della Standard Edition, James Strachey, nella Introduzione a II disagio della civiltà. (Freud, 1930.) Ciò vale anche per tutte le altre introduzioni, che consentono al lettore, anche se già conosce bene l'opera di Freud, di individuare più rapidamente la citazione che cerca, e inoltre di rintracciare citazioni particolari che ha dimenticato. È inutile dire che costituiscono inoltre una guida estremamente utile per lo studioso meno familiarizzato con l'opera di Freud.

29 L'asserzione di Freud è smentita soprattutto dal fatto che l'uomo preistorico era certo meno aggressivo di quello civilizzato.

30 Voglio sottolineare nuovamente il cambiamento di Freud per quanto riguarda il rapporto fra istinto e civiltà. Secondo la teoria della libido, la civiltà provoca la rimozione delle tensioni sessuali, e può causare nevrosi. Nella nuova teoria la civiltà porta ad arginare l'aggressività, provocando malattie somatiche.

31 Le analogie fra i concetti di Freud e quelli di Empedocle sono forse meno reali di quel che potrebbe sembrare a prima vista. Per Empedocle l'Amore è attrazione fra dissimili, e l'Odio è attrazione fra simili. Per fare un serio paragone occorrerebbe esaminare l'intero sistema di Empedocle. (Cfr. W.K.C. Guthrie, New York 1965)

32 Per una discussione dettagliata del significato di «Q» cfr. J. Strachey, Standard Edition, vol. 3, Appendice C.

33 Cfr. le note esplicative di J. Strachey al voi. 3 della Standard Edition. Strachey sottolinea il fatto che il concetto di energia psichica non si trova in alcun punto del Progetto, mentre è di uso comune in L'interpretazione dei sogni. Per di più Strachey richiama l'attenzione sul fatto che tracce del vecchio background neurologico si ritrovano negli scritti di Freud anche parecchio tempo dopo che egli aveva accettato la distinzione fra il concetto di energia «psichica» e quello di energia fisica; persino nel 1915, nello scritto su L'inconscio, Freud parla di energia «nervosa», e non di energia psichica. Strachey sostiene che, in realtà, «molte delle caratteristiche più rilevanti di "Q" sopravvissero in forma transmografata fino alla fine dell'opera freudiana» (vol. 1, pag. 345). Freud stesso giunse alla conclusione che non conosciamo la risposta a quell'interrogativo che è Q. Scrisse in Al di là del principio del piacere: «L'indefinitezza di tutte le nostre discussioni su quel che definiamo metapsicologia dipende, naturalmente, dal fatto che non conosciamo nulla circa la natura del processo di eccitamento che ha luogo negli elementi dei sistemi psichici, e che non ci sentiamo quindi giustificati a pronunciare un'ipotesi sull'argomento. Di conseguenza operiamo continuamente con un grande fattore sconosciuto, che siamo costretti a trascinare in ciascuna formula nuova». (S. Freud, 1920.)

34 Nella sua eccellente discussione sull'argomento, J. Bowlby afferma che, in origine, Freud considerava primario il principio di inerzia e secondario quello di costanza. Leggendo i brani corrispondenti sono giunto a una conclusione diversa, che sembra collimare con l'interpretazione di J. Strachey. (Cfr. J. Bowlby, Londra 1969.)

35 Freud dichiara in L'Io e l'Es: «Se la vita è dominata dal principio di costanza quale lo concepiva Fechner, ciò significa che la vita costituisce un avvio verso la morte...». (S. Freud, 1923.) Ma questo «avvio verso la morte» non esiste in realtà nella dichiarazione di Fechner; è la particolare versione freudiana, allargata, del principio di Fechner.

36 E. Jones (New York 1957; trad, italiana: Milano 1962). Cfr. la letteratura citata da Jones, soprattutto S. Bernfield e S. Feitelberg (1930). Cfr. anche K. H. Pribram (New York 1962).

37 Cfr. E. Fromm (New York 1959; trad, italiana: Milano 1962). 11 Ciò è dimostrato dalle reazioni di quasi tutti i freudiani alla teoria dell'istinto di morte. Non potendo aderire a questa nuova, profonda speculazione, trovarono una via d'uscita formulando le idee freudiane sull'aggressione secondo la vecchia teoria dell'istinto.

[…]

Parte terza
Le varietà di aggressione e distruttività e le rispettive condizioni (pp. 237-374)
Aggressione benigna

Osservazioni preliminari

Le prove presentate nel capitolo precedente hanno portato alla conclusione che l'aggressività difensiva è «connaturata» al cervello umano e animale, e adempie la funzione di difesa contro minacce a interessi vitali.

Se l'aggressione umana fosse più o meno allo stesso livello di quella di altri mammiferi - particolarmente dei nostri parenti più vicini, gli scimpanzé - la società umana sarebbe abbastanza pacifica e non-violenta. Ma non è così. La storia umana è tutta intessuta di una distruttività e crudeltà immense, e l'aggressione umana, a quanto pare, supera di gran lunga quella degli antenati animali, dell'uomo. Infine, a differenza di quasi tutti gli animali, l'uomo è un vero «killer».

Come possiamo spiegare questa «iper-aggressione»? Ha la stessa origine dell'aggressione animale, oppure l'uomo possiede un potenziale di distruttività specificamente umano?

In favore della prima ipotesi si potrebbe sottolineare che anche gli animali rivelano una distruttività estrema e maligna quando viene turbato l'equilibrio ambientale e sociale, fenomeno questo che si verifica, però, soltanto in via eccezionale, per esempio in condizioni di affollamento. Si potrebbe concludere che l'uomo è molto più distruttivo perché certe condizioni da lui create, come l'affollamento o altre costellazioni producenti-aggressione, sono diventate normali, e non eccezionali, nella sua storia. Di conseguenza, l'iper-aggressione umana non è originata da un maggiore potenziale aggressivo, ma dal fatto che le condizioni pro-

ducenti-aggressione sono molto più frequenti per gli umani che non per gli animali nel loro habitat naturale.1

Questa argomentazione è valida, in un certo senso almeno. E’ anche importante, perché sollecita un'analisi critica della condizione umana nella storia : per gran parte della sua storia, l'uomo è vissuto in uno zoo e non «in libertà», cioè in condizioni tali da favorirne la crescita e il benessere. In realtà, la maggior parte dei dati sulla «natura» umana sono fondamentalmente dello stesso ordine dei dati originali raccolti da Zuckerman sui babbuini di Monkey Hill, nello zoo di Londra. (S. Zuckerman, Londra 1932.)

Resta però il fatto che spesso l'uomo agisce con crudeltà e distruttività anche in situazioni estranee all'affollamento, traendone una intensa soddisfazione; all'improvviso la sete di sangue può impadronirsi delle masse umane. È possibile che, per la loro particolare struttura caratteriale, certi gruppi o individui aspettino ardentemente - o creino - situazioni tali da consentire l'espressione della distruttività.

Gli animali, invece, non godono a infliggere pene e sofferenze ai loro simili, e non uccidono «per pura voluttà». Certe volte può sembrare che un animale mostri un comportamento sadico: per esempio nel caso del gatto che gioca con il topo; ma presumere che il gatto goda della sofferenza del topo è una interpretazione antropomorfica; per il gatto qualsiasi oggetto che si muova rapidamente, topo o gomitolo di lana, diventa giocattolo. Prendiamo un altro esempio: Lorenz descrive un episodio riguardante due colombe rinchiuse insieme in una gabbia troppo stretta. La più forte stava spennando l'altra viva, quando intervenne Lorenz e le separò. Ma ancora una volta quella che potrebbe sembrare una manifestazione di crudeltà illimitata è in realtà una reazione alla mancanza di spazio e ricade, quindi, sotto la categoria dell'aggressione difensiva.

Completamente diverso è il desiderio di distruzione fine a se stesso. A quanto pare, soltanto l'uomo ha il gusto di distruggere la vita senza alcun motivo o obiettivo. In termini più generali, soltanto l'uomo sembra essere distruttivo senza aver necessità di difendersi o di raggiungere un determinato scopo.

Nel corso del capitolo svilupperò questa tesi: l'eredità animale o l'istinto distruttivo non rappresentano una spiegazione della distruttività e della crudeltà umane, che invece devono essere inquadrate sulla base di quei fattori che contraddistinguono l'uomo dai suoi antenati animali. Il problema consiste nel verificare in che modo e in quale misura sono le condizioni specifiche dell'esistenza umana a determinare la qualità e l'intensità della voluttà umana di uccidere e torturare.2

Anche quando ha lo stesso carattere difensivo dell'aggressività animale, quella umana è molto più frequente, per motivi intrinseci alla condizione umana. Questo capitolo tratterà prima dell'aggressione difensiva, poi di quella che è una manifestazione esclusiva dell'uomo.

Se decidiamo di intendere per «aggressione» tutti gli atti che causano, o hanno lo scopo di causare, danni a un'altra persona, animale o oggetto inanimato, la distinzione fondamentale fra tutti i tipi di impulsi collocati in questa categoria è fra aggressione benigna, biologicamente adattiva, al servizio-della-vita e aggressione biologicamente non-adattiva e maligna.

Trattando gli aspetti neurofisiologici dell'aggressione, abbiamo già accennato a questa distinzione. Per riassumere brevemente: l'aggressione biologicamente adattiva è una reazione a minacce contro interessi vitali; è programmata filogeneticamente, comune a uomini e animali, non è spontanea e non si accresce autonomamente, ma è reattiva e difensiva; mira a eliminare la minaccia, distruggendola o cancellandone la fonte.

L'aggressione biologicamente non-adattiva, maligna - e cioè la distruttività e la crudeltà - non è una difesa contro minacce; non è programmata filogeneticamente; è caratteristica esclusiva dell'uomo; è biologicamente dannosa perché smembra il tessuto sociale; le sue manifestazioni principali - omicidio e crudeltà - sono fonti di piacere fini a se stesse; è dannosa non solo per la persona attaccata ma anche per l'aggressore. Sebbene non sia un istinto, l'aggressione maligna è un potenziale umano che affonda le sue radici nelle stesse condizioni dell'esistenza umana.

La distinzione fra aggressione biologicamente adattiva e non-adattiva dovrebbe aiutare a eliminare una certa confusione che regna nel dibattito complessivo sull'aggressione umana. Coloro che, per spiegare la frequenza e l'intensità dell'aggressione urnana, tirano in campo un tratto innato della nostra natura, costringono spesso i loro avversari, che ancora non hanno rinunciato alla speranza in un mondo pacifico, a minimizzare il grado di distruttività e di crudeltà umane. Così gli avvocati della speranza sono stati spesso indotti a manifestare una opinione difensiva e super-ottimistica. Con la distinzione fra aggressione difensiva e maligna tutto ciò è inutile: la parte maligna dell'aggressione umana non è innata, e quindi può essere sradicata, pur ammettendo che l'aggressione maligna è un potenziale umano, e non soltanto uno schema acquisito di comportamento, che sparisce rapidamente non appena vengono introdotti nuovi schemi.

Nel corso della terza parte del volume esaminerò la natura e le condizioni dell'aggressione benigna e maligna, occupandomi molto più estesamente della seconda. Prima di cominciare, voglio ricordare al lettore che, contrariamente a quanto avviene nella teoria comportamentistica, soggetto di questa analisi dell'aggressione in tutte le sue manifestazioni sono gli impulsi aggressivi, che sfocino o no in un comportamento aggressivo.

Pseudo-aggressione

Per pseudo-aggressione alludo a quegli atti aggressivi che possono provocare danni, ma non vengono compiuti con questo intento.

Aggressione accidentale

L'esempio più ovvio di pseudo-aggressione è dato da quegli atti accidentali, involontari, che danneggiano, per esempio, un'altra persona, ma senza averne l'intento. Esempio classico è il colpo di pistola che accidentalmente uccide o ferisce un passante. La semplicistica definizione legale di atti accidentali è stata in una certa misura contestata dalla psicoanalisi, che ha introdotto il concetto di motivazione inconscia, così che si può sollevare il problema se una certa cosa, in apparenza casuale, non sia stata voluta inconsciamente dall'aggressore. Questa considerazione farebbe diminuire il numero dei casi che ricadono sotto la categoria dell'aggressione non-volontaria; d'altra parte presumere che ogni aggressione accidentale sia dovuta a motivazioni inconsce sarebbe altrettanto semplicistico e dogmatico.

Aggressione sportiva

L'aggressione sportiva ha come scopo l'esercizio di una certa capacità. Non mira a provocare danno o distruzione, non è motivata dall'odio. Se la scherma, la spada, il tiro all'arco si svilupparono dall'esigenza di uccidere un nemico in difesa o in attacco, la loro funzione originaria è andata quasi completamente perduta, e sono diventati un'arte. Un'arte praticata, per esempio, nel duello di spade del Buddismo Zen, che richiede grande abilità, controllo completo del corpo, concentrazione completa, le stesse qualità necessarie per un'arte in apparenza completamente diversa: la cerimonia del tè. Un maestro Zen di spada non nasconde il desiderio di uccidere o distruggere, non è animato dall'odio. Fa i movimenti adatti e, se l'avversario resta ucciso, è perché «si trovava nel posto sbagliato».3

Uno psicoanalista classico potrebbe argomentare che il duellante è motivato inconsciamente dall'odio e dal desiderio di distruggere l'avversario, e sarebbe nel suo pieno diritto, ma mostrerebbe di non capire gran che dello spirito del Buddismo Zen.

Un tempo, dunque, arco e freccia erano armi di attacco e di difesa con lo scopo di uccidere, ma oggi il tiro all'arco è un puro esercizio di abilità, come è dimostrato dal libriccino istruttivo di E. Herrigel, Zen in the Art of Archery (New York 1953). Troviamo lo stesso fenomeno nella cultura occidentale: scherma e fioretto sono diventati uno sport. Pur senza coinvolgere gli aspetti spirituali dell'arte Zen, rappresentano un tipo di lotta cui è e-straneo lo scopo di danneggiare. Analogamente, fra le tribu primitive troviamo frequenti tipi di lotta che sembrano avere lo scopo prevalente di mettere in mostra una certa abilità e, solo in misura di gran lunga inferiore, esprimono distruttività.

Aggressione auto-affermatrice

Il caso più importante di pseudo-aggressione è senz'altro quello più o meno equivalente all'auto-affermazione. È aggressione nel senso letterale della sua radice: aggredi, da ad gradi (gradus significa «passo» e ad, «verso») che significa «muoversi (andare) verso», così come regressione deriva da regredì, «muoversi indietro».

Essere aggressivo, nel significato originale di «aggredire», può essere definito in questi termini : muoversi in avanti verso un obiettivo senza inutili esitazioni, paure o dubbi.

Il concetto di aggressione auto-affermatrice sembra trovare conferma nelle osservazioni raccolte circa il nesso esistente fra l'ormone maschile e l'aggressione. Diversi esperimenti hanno dimostrato che gli ormoni maschili tendono a generare comportamento aggressivo. Per spiegarne il motivo, dobbiamo ricordare che una delle differenze fondamentali fra maschio e femmina consiste nella rispettiva funzione durante l'atto sessuale. Le condizioni anatomiche e fisiologiche della funzione sessuale maschile richiedono che il maschio sia capace di penetrare l'imene della vergine, di non lasciarsi scoraggiare dalla eventuale paura, esitazione o anche resistenza di questa; negli animali, il maschio deve tener ferma la femmina durante la monta. Poiché la capacità maschile di funzionare sessualmçnte è una necessità fondamentale per la sopravvivenza della specie, ci si potrebbe aspettare che la natura avesse equipaggiato il maschio con qualche particolare potenziale aggressivo. Questo sembrerebbe dimostrato da una serie di dati.

Sono stati compiuti diversi esperimenti per mettere in luce la relazione esistente fra l'aggressione e la castrazione del maschio o gli effetti della somministrazione di ormoni maschili in un maschio castrato. I più importanti risalgono agli anni Quaranta.4 Beeman ne ha descritto uno tipico. Dimostrò che quando topi maschi adulti (con venticinque giorni di vita) venivano castrati, qualche tempo dopo l'operazione non lottavano più come nel periodo precedente la castrazione, e adottavano un comportamento pacifico. Però, se agli stessi animali venissero somministrati degli ormoni maschili, comincerebbero ad azzuffarsi di nuovo, per smettere non appena venisse interrotta la somministrazione. Beeman dimostrò anche, però, che se non venivano lasciati a riposo dopo l'operazione, ma venivano condizionati a una routine giornaliera di zuffe, i topi non smettevano di lottare. (E. A. Beeman, 1947.) Questo significa che l'ormone maschile è una stimolazione al comportamento di lotta, ma non una condizione essenziale di esso.

G. Clark e H. G. Bird (1946) hanno compiuto esperimenti analoghi con scimpanzé. Ne risultò che l'ormone maschile faceva salire il livello dell'aggressività (dominanza), mentre quello femminile l'abbassava. Le ricerche di Beeman ed altri furono confermate da esperimenti successivi, per esempio da quelli riferiti da E. B. Sigg. Sigg è giunto alla seguente conclusione: «Si può affermare che l'abbassamento del comportamento aggressivo nei topi isolati si basa probabilmente su uno squilibrio multi-ormonale che abbassa la soglia allo stimolo-che-fa-scatenare-l'aggressione. Gli ormoni gonadali maschili hanno una funzione determinante in questa reazione, mentre altri cambiamenti endocrini (adreno-corticali, adreno-midollari e tiroidei) possono essere conseguenti o valere da contributo». (S. Garattini e E. B. Sigg, a cura di, Amsterdam 1969.)

Fra gli altri scritti dello stesso volume sul problema della relazione fra ormoni sessuali e aggressione, voglio menzionarne un altro, quello di K. M. J. Lagerspetz. Negli esperimenti che descrive, egli tende a dimostrare che furono totalmente inibite monta e copulazione in maschi condizionati a un comportamento altamente aggressivo, mentre il comportamento sessuale non fu inibito in maschi condizionati a essere non-aggressivi. L'autore conclude : «Da questi risultati emerge che questi due tipi di comportamento sono alternative che possono essere inibite e rinforzate selettivamente; ciò non convalida la tesi che il comportamento sessuale e quello aggressivo derivino da una eccitazione comune che viene poi canalizzata da stimoli ambientali». (K. M. J. Lagerspetz, Amsterdam 1969.) Questa conclusione contraddice l'assunto secondo cui gli impulsi aggressivi contribuiscono agli impulsi sessuali maschili. Valutare questa apparente contraddizione va al di là della mia competenza specifica. Avanzerò, comunque, una proposta ipotetica un po' più avanti nel testo.

Un'altra possibile base per l'assunto di una connessione fra virilità e aggressione è fornita dalle scoperte e dalle congetture sulla natura del cromosoma Y. La femmina ha due cromosomi sessuali (XX); la coppia di cromosomi maschili consiste di una X e di una Y (XY). Ma nel processo di divisione delle cellule possono esserci sviluppi abnormi; il più importante, dal punto di vista dell'aggressione, è il maschio che ha un cromosoma X e due Y (XYY). (Vi sono altre costellazioni con un ulteriore cromosoma sessuale, ma non ci interessano in questa sede.) Gli individui con il corredo XYY sembrano mostrare certe anormalità fisiche. Generalmente sono piuttosto tardi, hanno un'altezza superiore alla media e una incidenza relativamente alta di sindromi epilettiche ed epilettiformi. Possono anche mostrare una eccezionale aggressività, ed è questa la caratteristica che più ci interessa. A questa conclusione si giunse dapprima studiando i malati di mente (violenti e pericolosi) internati in uno speciale istituto a Edinburgo. (P. A. Jacobs, ed altri, 1965.) Su centonovantasette maschi, sette avevano un corredo XYY (3,5 per 1.000), probabilmente una percentuale notevolmente più elevata di quella rilevata nella popolazione normale.5 La pubblicazione di quest'opera è stata seguita da una dozzina di altri studi, i cui risultati tendono a confermarla e a dilatarla6, senza però consentire nessuna conclusione definitiva; le deduzioni che se ne possono ricavare dovranno essere verificate con ricerche compiute su un campionario più vasto e con metodi più perfezionati.7

Generalmente, nella letteratura, non è stata operata alcuna distinzione fra l'aggressione maschile e quel che comunemente si intende per aggressione: cioè un comportamento d'attacco che ha lo scopo di danneggiare un'altra persona. Ma se questo valesse anche per la natura dell'aggressione maschile, sarebbe molto sconcertante da un punto di vista biologico. Che senso avrebbe un atteggiamento maschile nocivo, ostile verso la femmina? Distruggerebbe il vincolo elementare della relazione maschio-femmina e, quel che più conta da un punto di vista biologico, tenderebbe a danneggiare la femmina, che ha la responsabilità di generare e di allevare i piccoli.8 Se è vero che, in determinate costellazioni, specialmente quelle della dominanza patriarcale e dello sfruttamento femminile, si sviluppa un profondo antagonismo fra i sessi, non si potrebbe spiegare perché questo antagonismo dovrebbe essere desiderabile da un punto di vista biologico, e perché dovrebbe essersi sviluppato in seguito al processo evolutivo. D'altra parte, come ho osservato prima, il maschio ha la necessità biologica di farsi avanti, di superare ostacoli. In realtà, non si tratta di comportamento ostile o d'attacco, ma di aggressione auto-affermatrice. Non esiste alcuna prova che ci permetta di concludere che le donne siano meno distruttive o crudeli degli uomini, la qual cosa riconferma che fra distruttività-crudeltà e aggressione maschile esiste una differenza fondamentale.

Questo potrebbe spiegare alcune delle difficoltà implicite nell'esperimento di Lagerspetz, citato prima: i topi con un alto grado di comportamento combattivo non mostravano alcun interesse per la copulazione. (K. M. J. Lagerspetz, Amsterdam 1969.) Se l'aggressione, secondo il significato corrente della parola, fosse parte della sessualità maschile, o anche soltanto la stimolasse, dovremmo aspettare il risultato opposto. Per trovare facilmente una soluzione alla evidente contraddizione fra gli esperimenti di Lagerspetz e quelli di altri autori, basta differenziare l'aggressione ostile da quella auto-affermatrice. Presumibilmente i topi in lotta non ricevono la stimolazione sessuale, proprio perché sono ostili, pronti ad aggredire. D'altra parte, la somministrazione di ormoni maschili nel corso degli altri esperimenti non ha generato ostilità, ma la tendenza a «muoversi in avanti» e quindi a ridurre le inibizioni del normale comportamento di lotta.

La tesi di Lagerspetz trova conferma nell'osservazione del normale comportamento umano. La gente furibonda e ostile ha scarso appetito sessuale ed è poco ricettiva agli stimoli sessuali. Naturalmente sto parlando di tendenze ostili, d'ira, d'attacco e non di sadismo, che, in realtà, è compatibile e spesso mescolato a impulsi sessuali. In breve, l’ira, e cioè l'aggressione fondamentalmente difensiva, indebolisce l'interesse sessuale; gli impulsi sadici e masochistici, sebbene non generati dal comportamento sessuale, sono compatibili con esso, oppure lo stimolano.

L'aggressione auto-affermatrice non si limita al comportamento sessuale, essendo una fondamentale qualità necessaria in diverse situazioni della vita, come nel comportamento di un chirurgo, di un alpinista e in quasi tutti gli sport; è anche necessaria al cacciatore. Un venditore di successo ha bisogno di questo tipo di aggressione, e infatti si parla dell'«aggressività del venditore». Per avere successo in tutte queste situazioni, è necessario che la persona coinvolta sia in grado di auto-affermarsi senza impedimenti; e cioè di perseguire i suoi scopi con determinazione, senza lasciarsi scoraggiare dagli ostacoli. Naturalmente questa qualità è necessaria anche quando si attacca il nemico. Un generale che manca di aggressività in questo senso sarà un ufficiale mal riuscito, esitante; nella stessa situazione, il soldato semplice, batterà facilmente in ritirata. Ma bisogna differenziare fra l'aggressione intesa a danneggiare e l'aggressione auto-affer- matrice che facilita il raggiungimento di uno scopo, creativo o distruttivo.

Per quanto riguarda gli esperimenti con gli animali, in cui la somministrazione di ormoni maschili rinnova o accresce la capacità di lotta, bisogna distinguere attentamente fra due possibili interpretazioni: (1) che gli ormoni generino ira e aggressione; (2) che accrescano l'auto-affermazione dell'animale nel perseguire i suoi obiettivi ostili già esistenti, integrati da altre fonti. Riconsiderando gli esperimenti sull'influenza degli ormoni maschili rispetto all'aggressione, la mia impressione è che entrambe le interpretazioni siano possibili, ma. che per motivi biologici la seconda sembri più plausibile. Ulteriori esempi su questa differenza specifica offriranno probabilmente prove convincenti per l'una o per l'altra delle due ipotesi.

La connessione fra auto-affermazione, aggressione, ormoni maschili e - magari - cromosomi Y suggerisce la possibilità che l'uomo, più della donna, sia equipaggiato di aggressione auto-affermatrice, e quindi riesca meglio come generale, chirurgo, cacciatore, mentre la donna, essendo più protettiva e premurosa, funzionerebbe meglio come medico e insegnante. Ma naturalmente non si può trarre alcuna conclusione dal comportamento delle donne moderne, che è in gran parte la conseguenza dell'ordine patriarcale esistente. Per di più, l'intera questione avrebbe un significato puramente statistico, e non individuale. Molti uomini mancano di aggressività auto-affermatrice, mentre parecchie donne eccellono nei compiti per cui essa è indispensabile. Ovviamente, fra virilità e aggressività auto-affermatrice non esiste una relazione semplice, ma una relazione estremamente complessa, dei cui particolari non conosciamo quasi niente.

Questo non rappresenta certo una sorpresa per lo studioso di genetica, perché egli sa che una disposizione genetica può essere tradotta in un certo tipo di comportamento, ma può essere intesa soltanto in base alla sua interconnessione con altre disposizioni genetiche e con la situazione complessiva in cui una certa persona nasce e deve vivere. Bisogna anche tener conto del fatto che l'aggressione auto-affermatrice è una qualità necessaria per la sopravvivenza, e non solo per l'esecuzione delle particolari attività menzionate sopra; quindi si può ragionevolmente dedurre, sotto il profilo biologico, che ne siano dotate tutte le persone umane, e non solo gli uomini. Ma finché non avremo raccolto parecchi altri dati empirici sull'influenza degli ormoni e dei cromosomi maschili, dovremo limitarci a congetture su questi interrogativi: se cioè l'aggressione specificamente maschile influenzi soltanto il comportamento sessuale, oppure se, d'altra parte, il fenomeno della bisessualità intrinseca a uomini e donne renda sufficientemente giustizia all'aggressione auto-affermatrice femminile.

Comunque un fatto importante è stato dimostrato clinicamente; la persona con un'aggressione liberamente auto-affermatrice tende, in genere, a essere meno ostile in senso difensivo della persona la cui auto-affermazione è difettosa. Questo vale sia per l'aggressione difensiva sia per quella maligna come il sadismo. Non è difficile intuirne le ragioni. Per quanto riguarda la prima, l'aggressione difensiva è una reazione a una minaccia. La persona che manifesta liberamente la propria aggressione auto-affermatrice avverte meno facilmente le minacce e, di conseguenza, si trova meno facilmente nella condizione di do.ver reagire con l'aggressione. Il sadico è tale perché soffre di un'impotenza interiore, dell'incapacità di commuovere l'altro, di avere una risposta da lui, di farsi amare. A questa impotenza cerca compensazione attraverso la passione di esercitare il potere sul prossimo. Poiché l'aggressione auto-affermatrice accresce la capacità di raggiungere i propri obiettivi, diminuisce enormemente l'esigenza di controllo sadico.9

Come osservazione finale sull'aggressione auto-affermatrice, vorrei rilevare che il suo grado di sviluppo in una certa persona è di grande importanza per tutta la sua struttura caratteriale e per certe forme di sintomi nevrotici. La persona timida o inibita, come quella afflitta da tendenze ossessive coatte, hanno difficoltà a manifestare questo tipo di aggressione. La terapia, per prima cosa, deve aiutarle a prendere coscienza di questo ostacolo, poi a capire come si sia sviluppato e, ciò che è più importante di tutto, a capire quali altri fattori nel loro sistema caratteriale e nel loro ambiente lo sostengano e lo carichino di energia.

Forse il fattore più importante nell'indebolimento dell'aggressione auto-affermatrice è l'atmosfera autoritaria esistente nella famiglia e nella società, dove auto-affermazione equivale a disubbidienza, attacco, peccato. Per tutti i tipi di autorità irrazionale e sfruttatrice, il fatto che qualcuno persegua interessi propri, reali, è il peccato dei peccati, perché rappresenta una minaccia al potere costituito; l'individuo-suddito viene indottrinato in modo da credere che i propri obiettivi coincidano con quelli dell'autorità, e che l'obbedienza offra le chances ottimali per autorealizzarsi.

Aggressione difensiva

Differenza fra gli animali e l'uomo

L'aggressione difensiva è biologicamente adattiva per le ragioni già menzionate nella discussione sulle basi neurofisiologiche dell'aggressione. Riassumiamo brevemente: il cervello degli animali è programmato filogeneticamente per mobilitare impulsi di attacco o di fuga quando sono minacciati interessi vitali, come il nutrimento, lo spazio, i piccoli, l'accesso alle femmine. Lo scopo fondamentale è eliminare il pericolo; questo avviene, per lo più, con la fuga o, se questa è impossibile, combattendo o assumendo efficaci posizioni di minaccia. Lo scopo dell'aggressione difensiva non è il piacere di distruggere, ma la conservazione della vita. Una volta che lo scopo è stato raggiunto, sparisce l'aggressione con i suoi equivalenti emozionali.

Anche l'uomo è programmato filogeneticamente per reagire con l'attacco o la fuga se i suoi interessi vitali sono minacciati. Anche se questa tendenza innata opera più rigidamente nell'uomo che negli animali inferiori, non mancano le prove che l'uomo tende a essere motivato dalla propria tendenza, predisposta filogeneticamente, all'aggressione difensiva, quando sono minacciate la sua vita, la sua salute, la sua libertà o proprietà (in quelle società in cui la proprietà privata esiste e ha molta importanza). Certo tale reazione può essere superata con le convinzioni morali e religiose e con l'addestramento, ma è in pratica diffusa fra la maggioranza degli individui e dei gruppi. Infatti l'aggressione difensiva spiega, forse, la maggior parte degli impulsi aggressivi umani.

Si potrebbe dire che l'equipaggiamento neurale per l'aggressione difensiva è identico negli animali e nell'uomo; ma ciò è esatto solo in senso limitato, soprattutto perché queste aree-che-integrano-l'aggressione sono parte dell 'intero cervello, e perché il cervello umano, col suo ampio neocortex e le sue connessioni neurali assai più numerose, è diverso da quello animale.

Ma anche se la base neurofisiologica dell'aggressione difensiva non è identica a quella dell'animale, è abbastanza simile da consentire l'affermazione che questo stesso equipaggiamento neurofisiologico porta a una incidenza di aggressione difensiva di gran lunga superiore nell'uomo che nell'animale. La ragione di questo fenomeno risiede nelle condizioni specifiche dell'esistenza umana, che sono, in linea di massima, le seguenti:

1. L'unica minaccia percepita dall'animale è il «pericolo chiaro e presente». Certo, il suo equipaggiamento istintivo e le sue memorie, acquisite individualmente ed ereditate geneticamente, gli comunicano, rispetto all'uomo, una consapevolezza spesso più precisa dei pericoli e delle minacce.

Essendo dotato della capacità di prevedere e immaginare, l'uomo reagisce non solo ai pericoli e alle minacce presenti, o ai ricordi di pericolo e di minacce, ma anche a quelli che la sua immaginazione gli consente di vedere nel futuro. Potrebbe concludere, per esempio, che, essendo la sua tribu più ricca di una confinante molto ben addestrata a combattere, quest'ultima, prima o poi, potrà scatenare un attacco. Oppure potrà dedurre che un vicino da lui danneggiato forse si vendicherà al momento propizio. In campo politico il calcolo delle minacce future costituisce una delle preoccupazioni centrali di politici e generali.

Quando un gruppo o un individuo avverte una minaccia, anche se non immediata, viene mobilitato il meccanismo di aggressione difensiva; di conseguenza la capacità umana di prevedere le minacce future accresce la frequenza delle reazioni aggressive.

2. L'uomo è capace non solo di prevedere i pericoli veri del futuro, ma anche di farsi persuadere dai suoi leaders, dopo un adeguato lavaggio del cervello, dell'esistenza di pericoli irreali. Quasi tutte le guerre moderne, per esempio, sono state scatenate dopo una propaganda sistematica di questo genere; i leaders convincevano la popolazione che correva il pericolo di essere attaccata o distrutta, provocando così reazioni di odio contro le presunte nazioni nemiche, anche se spesso non esisteva l'ombra di una minaccia. Soprattutto da quando si sono formati i grandi eserciti di cittadini al posto degli eserciti, relativamente piccoli, di soldati di professione, a partire dalla Rivoluzione Francese, non è poi così facile per un leader raccontare al popolo che deve uccidere e farsi uccidere perché l'industria ha bisogno di materie prime e di manodopera meno costosa, oppure di nuovi mercati. Se questi obiettivi venissero dichiarati, e quindi giustificati, solo una minoranza sarebbe disposta a combattere. Ma se invece un governo riesce a persuadere la popolazione di essere minacciata, viene mobilitata la normale reazione biologica. Per di più queste predizioni di minacce dall'esterno in genere funzionano già da sole, perché lo stato aggressore, preparandosi alla guerra, costringe lo stato che sta per essere attaccato a fare altrettanto, fornendo così la «prova» della presunta minaccia.

Soltanto negli esseri umani si può scatenare l'aggressione difensiva con il lavaggio del cervello. Per persuadere la gente di essere minacciata, occorre, per prima cosa, lo strumento del linguaggio, senza del quale gran parte della suggestione andrebbe perduta. Inoltre è necessaria una struttura sociale che fornisca una base sufficiente al lavaggio del cervello. È difficile immaginare, per esempio, che questo tipo di suggestione faccia effetto sui Mbutu, i cacciatori pigmei africani che vivono tranquillamente nella foresta, senza autorità permanenti. Nella loro società nessun uomo ha tanto potere da rendere credibile l'incredibile. Ma in una società in cui alcuni personaggi sono investiti di grande autorità, come stregoni e leaders politici e religiosi, esiste la base di questa suggestione. Tutto sommato, il potere di suggestione esercitato da una classe dirigente è proporzionale al potere del gruppo sui governati e/o alla capacità dei capi di usare un elaborato sistema ideologico per ridurre la facoltà di pensiero critico e indipendente.

Esiste una terza condizione, specificamente umana, dell'esistenza, che contribuisce ad accrescere ulteriormente l'aggressività difensiva umana rispetto a quella animale. Come gli animali, l'uomo si difende contro minacce ai propri interessi vitali. Ma la sua gamma di interessi vitali è molto più vasta di quella degli animali. L'uomo non deve sopravvivere solo fisicamente, ma anche psichicamente. Ha bisogno di conservare un certo equilibrio psichico per non perdere la capacità di funzionare; per l'uomo ogni elemento necessario alla conservazione del suo equilibrio psichico ha la stessa importanza vitale di quel che serve al suo equilibrio fisico. Per prima cosa, l'uomo ha un interesse vitale a conservare il proprio schema di orientamento. Da esso dipendono la sua capacità di agire e, in ultima analisi, il suo senso di identità. Se altri mettono in dubbio il suo schema di orientamento con le loro idee, reagirà a tali idee come a una minaccia vitale. Potrà razionalizzare questa reazione in diversi modi. Dirà, che le nuove idee sono intrinsecamente «immorali», «incivili», «pazze» o qualsiasi altro aggettivo possa scegliere per esprimere la sua ripugnanza, ma questo antagonismo in realtà si forma perché «lui» si sente minacciato.

Oltre allo schema di orientamento, l'uomo ha bisogno di oggetti di devozione, che diventano una necessità fondamentale per il suo equilibrio emozionale. Qualunque cosa siano - valori, ideali, antenati, padre, madre, terra, paese, classe, religione e centinaia di altri fenomeni - egli li sente sacri. Anche le usanze possono diventare sacre, perché simboleggiano i valori esistenti.10 L'individuo - o il gruppo - reagisce a un attacco contro il «sacro» con la stessa rabbia e la stessa aggressività scatenate da un attacco contro la vita.

Quel che è stato detto sulle reazioni alle minacce che colpiscono interessi vitali può trovare un'espressione diversa e più generalizzata: la paura tende a mobilitare l'aggressione o la tendenza alla fuga. L'ultima soluzione è più frequente quando la persona ha ancora una possibilità di squagliarsela salvando la «faccia», almeno in una certa misura, ma se si trova in un vicolo cieco, senza possibilità di evasione, è più probabile la reazione aggressiva. Non bisognerà, però, sottovalutare questo fattore: la reazione di fuga dipende dalla interazione di due fattori: il primo è l'entità della minaccia realistica, il secondo è il grado di forza fisica e psichica e la fiducia in sé della persona minacciata. A una estremità del continuo vi sono gli eventi che spaventerebbero praticamente chiunque; all'altra un tale senso di disperazione e impotenza, che quasi tutto intimorisce la persona ansiosa. Di conseguenza la paura è condizionata in eguale misura dalle minacce reali e da un ambiente interiore che la genera, persino con scarsissime stimolazioni esterne.

Come la sofferenza, la paura è una sensazione di estremo disagio, e chi ne è afflitto farebbe praticamente qualsiasi cosa per liberarsene. Ci sono molti modi per allontanare paura e ansietà, come l'uso delle droghe, l'eccitazione sessuale, la compagnia degli altri. Ma diventare aggressivi è senz'altro uno dei metodi più efficaci. Quando una persona riesce a emergere dal suo stato passivo di terrore e comincia ad attaccare, la natura tormentosa della paura sparisce.11

Aggressione e libertà

Fra tutte le minacce agli interessi vitali dell'uomo, quella alla libertà è di straordinaria importanza, sia sotto il profilo sociale sia sotto quello individuale. Contrariamente all'opinione comune, secondo la quale il desiderio di libertà è il prodotto della cultura e più specificamente dell'apprendimento-condizionamento, è ampiamente dimostrabile che il desiderio di libertà è una reazione biologica dell'organismo umano.

Un fenomeno ben preciso conferma questa valutazione: per tutta la storia classi sociali e nazioni hanno combattuto i loro oppressori se c'era una qualsiasi possibilità di vittoria, e spesso anche se non c'era. In realtà, la storia dell'umanità è una storia di lotta per la libertà, una storia di rivoluzioni, a cominciare dalla guerra di liberazione degli Ebrei contro gli Egiziani, dalle sollevazioni nazionali contro l'Impero Romano, dalje ribellioni dei contadini tedeschi nel sedicesimo secolo, fino alle rivoluzioni a- mericana, francese, tedesca, russa, cinese, algerina e vietnamita.12

Troppo spesso, però, i leaders hanno usato strumentalmente lo slogan della battaglia per la libertà, quando in realtà non avevano altro scopo che mettere in catene il proprio popolo. Non c'è promessa che eserciti un richiamo pili potente sul cuore dell'uomo, al punto che persino quei leaders che vogliono sopprimere la libertà, hanno la necessità di prometterla.

La libertà è la condizione per la crescita totale di una persona, per la sua salute mentale e per il suo benessere; l'assenza di libertà mutila l'uomo, lo rende sofferente: ecco un ulteriore motivo per dedurre l'esistenza di un impulso intrinseco dell'uomo a combattere per essa. Libertà non significa assenza di costrizione, dato che ogni crescita avviene all'interno di una struttura, e ogni struttura richiede costrizione. (H. von Foerster, New York 1970.) Quel che conta è se la costrizione funziona primariamente a favore di un'altra persona o istituzione, oppure se è autonoma, e cioè risulta dalle necessità di crescita intrinseche alla struttura dell'individuo.

La libertà è una condizione biologicamente vitale perché l'organismo umano non sia ostacolato nel suo sviluppo13; quando essa è minacciata, insorge l'aggressione difensiva, come per qualsiasi altra minaccia agli interessi vitali. Come ci si può stupire, dunque, se aggressione e violenza continuano a fiorire in un mondo che è in gran parte privato della libertà, soprattutto nei cosìddetti paesi sottosviluppati? Coloro che detengono il potere - cioè i bianchi - sarebbero forse meno sorpresi e indignati se non si fossero abituati a considerare non-persone gli uomini con un diverso colore della pelle - gialli, neri e marroni - non aspettandosi così reazioni umane da parte loro.14

Ma c'è un'ulteriore spiegazione di questa cecità. Con tutta la loro potenza, persino i bianchi, costretti dal loro stesso sistema, hanno rinunciato alla libertà, sebbene in modo meno radicale e sfacciato. Questo è forse un ulteriore motivo per odiare ancor più coloro che, oggi, combattono per essa, perché ricordano loro la resa.

Il fatto che l'aggressione genuinamente rivoluzionaria, come tutta l'aggressione generata dall'impulso di difendere la propria vita, dignità o libertà, sia biologicamente razionale e faccia parte del normale funzionamento umano, non deve ingannarci e farci dimenticare che la distruzione della vita resta sempre distruzione, anche se è biologicamente giustificata. Credere che sia o no umanamente giustificata, dipende dai propri principi religiosi, morali o politici. Ma, quali che siano i nostri principi sotto questo aspetto, è importante essere consapevoli del fatto che l'aggressione puramente difensiva può facilmente mescolarsi con la distruttività (non-difensiva) e col desiderio sadico di rovesciare la situazione controllando gli altri, invece di esserne controllati. Se e quando si verifica questo fenomeno, l'aggressione rivoluzionaria ne risulta contaminata e tende a rinnovare le condizioni che cercava di abolire.

Aggressione e narcisismo15

Oltre ai fattori già discussi, una delle fonti più importanti di aggressione difensiva è rappresentata dalle ferite del narcisismo.

Il concetto di narcisismo è stato formulato da Freud nell'ambito della sua teoria della libido. Poiché il paziente schizofrenico sembra non avere alcuna relazione «libidica» con gli oggetti (nella realtà e nella fantasia), Freud si pose il quesito: «Cosa ne è stato della libido che, nella schizofrenia, è stata ritirata dagli oggetti esterni?». La risposta fu: «La libido ritirata dal mondo esterno è stata ridiretta verso l'Io, dando così origine a un atteggiamento che può essere denominato narcisismo». Inoltre, secondo Freud, lo stato originale dell'uomo nella prima infanzia è il narcisismo («narcisismo primario»), per l'assenza di legami col mondo esterno; durante uno sviluppo normale il bambino aumenta le proprie relazioni libidiche con l'esterno sia come orizzonte sia come intensità, ma in circostanze particolari (fra cui la pazzia è la più radicale) la libido viene ritirata dagli oggetti e ridiretta verso l'Io («narcisismo secondario»); comunque, persino in un caso di sviluppo normale, l'essere umano resta, in una certa misura, narcisista per tutta la vita. (S. Freud, 1914.)

Nonostante questa dichiarazione, il concetto di narcisismo non ha rivestito il ruolo che si merita nelle ricerche cliniche degli psicoanalisti; è stato applicato soprattutto alla prima infanzia e alle psicosi,16 ma la sua ampia portata risiede proprio nel ruolo che riveste per la personalità normale o, per così dire, «nevrotica». Per capire perfettamente questo ruolo, è indispensabile liberare il narcisismo dallo schema di riferimento riduttivo della teoria della libido. Perciò si può descrivere il narcisismo come uno stato di esperienza in cui la persona percepisce come realtà totale soltanto il suo corpo, i suoi bisogni, i suoi sentimenti, i suoi pensieri, la sua proprietà, qualsiasi cosa e qualsiasi persona gli appartengano, mentre tutto il resto - persone e cose, che non fanno parte della persona o non sono oggetto dei suoi bisogni - non interessa, non è completamente reale, è percepito solo attraverso una conoscenza intellettuale, è affettivamente privo di peso e di colore. Nella misura in cui è narcisista, un individuo ha un doppio standard di percezione. Soltanto lui e il suo mondo hanno un senso, mentre tutto il resto è più o meno vuoto o spento; proprio per questo doppio standard, la persona narcisistica mostra grosse falle nella valutazione critica, ed è incapace di essere oggettiva.17

Spesso il narcisista raggiunge un senso di sicurezza nella convinzione, interamente soggettiva, della sua perfezione, della sua superiorità sugli altri, delle sue qualità eccezionali, e non attraverso il rapporto che ha con gli altri o attraverso un suo lavoro o risultati reali. Ha bisogno di aggrapparsi all'immagine narcisistica di sé, poiché su di essa si basano la sua auto-stima e il suo senso di identità. Se il suo narcisismo è minacciato, egli è minacciato in un'area di importanza vitale. Se gli altri lo feriscono disprezzandolo, criticandolo, smascherandolo quando dice qualcosa di sbagliato, sconfiggendolo in un gioco o in parecchie altre occasioni, la persona in questione generalmente reagisce con rabbia o ira intense, anche se non lo dà a vedere e magari non ne è nemmeno consapevole. L'intensità di questa reazione aggressiva si rispecchia per esempio nell'incapacità di perdonare chi abbia ferito il suo narcisismo, e spesso in un desiderio di vendetta che sarebbe meno intenso se fossero stati attaccati il suo corpo o la sua proprietà.

In genere non si è consapevoli del proprio narcisismo, ma solo di quelle manifestazioni che non lo rivelano apertamente. Così, per esempio, il narcisista proverà un'ammirazione sproporzionata per i genitori o per i figli, e non avrà difficoltà a manifestare i suoi sentimenti, dato che questo comportamento è in genere valutato positivamente come pietà filiale, affetto parentale, o lealtà; mentre se dovesse esprimere una valutazione sul proprio conto, affermando per esempio: «Sono la persona più meravigliosa del mondo», «Sono meglio di chiunque altro», ecc., sarebbe sospettato di essere non solo eccezionalmente vanitoso, ma anche magari non del tutto sano di mente. Se però una persona ha raggiunto un certo successo nel campo dell'arte, della scienza, dello sport, degli affari, della politica, il suo atteggiamento narcisistico appare non solo realistico e razionale, ma viene anche costantemente alimentato dall'ammirazione altrui: in questo caso potrà dare libero sfogo al proprio narcisismo, perché è stato sanzionato e confermato socialmente.18 Nella moderna società occidentale esiste una strana interconnessione fra il narcisismo delle celebrità e le esigenze del pubblico che vuole essere in contatto con la gente famosa, perché la vita della persona media è vuota e noiosa. I mass media vivono proprio di questo, vendere la gloria, e così tutti sono soddisfatti: l'esecutore narcisista, il pubblico, il mercante di pubblicità.

Un alto grado di narcisismo è molto frequente fra i leaders politici; si potrebbe considerarlo una malattia - o una risorsa - professionale, soprattutto per quelli che devono il loro potere all'influenza che esercitano sulle masse. Se il leader è convinto dei suoi doni straordinari e della sua missione, riuscirà più facilmente a convincere il grande pubblico, attratto da persone apparentemente tanto sicure di sé. Ma il leader narcisistico non usa il suo carisma narcisistico soltanto come strumento di successo politico; il successo e gli applausi sono indispensabili per il suo equilibrio mentale. L'idea di essere eccezionale, infallibile si basa essenzialmente sulla sua mania narcisistica di grandezza, non sui risultati raggiunti come essere umano.19 Eppure non può fare a meno della gonfiatura narcisistica, perché il suo nucleo umano - convinzione, coscienza, amore e fede - non è molto sviluppato. Spesso le persone estremamente narcisistiche sono quasi costrette a diventare famose, perché altrimenti sarebbero depresse e malate. Ma occorre molto talento - e le circostanze propizie - per influenzare gli altri al punto che il loro plauso convalidi tali sogni narcisistici. Anche se si affermano, poi, si sentono spinti a ricercare ulteriori successi, poiché, per loro, l'insuccesso implica il pericolo del crollo. Il successo, la popolarità sono, a quanto pare, la loro auto-terapia contro la depressione e la follia. Combattendo per raggiungere i loro obiettivi, in realtà combattono per la propria salute mentale.

Nel narcisismo di gruppo, dove l'oggetto non è l'individuo ma il gruppo cui appartiene, l'individuo può essere pienamente consapevole del proprio narcisismo ed esprimerlo senza restrizioni. Affermare che la «mia patria», (o la mia religione, o la mia nazione) sono le più meravigliose, colte, potenti, pacifiche, ecc., non solo non suona pazzesco, ma passa per espressione di patriottismo, fede, lealtà, oltre che per valutazione realistica e razionale, essendo condivisa da parecchi membri dello stesso gruppo. Grazie a questo consenso, la fantasia si trasforma in realtà: per la maggioranza, infatti, la realtà è costituita dal consenso generale, e non è fondata sulla verifica critica, sulla ragione.20

Il narcisismo di gruppo ha funzioni importanti. In primo luogo, incentiva la solidarietà e la coesione della comunità, facilita la manipolazione, proprio facendo leva sui pregiudizi narcisistici. In secondo luogo, è un elemento estremamente importante poiché soddisfa i membri del gruppo, e particolarmente quelli che hanno ben poche altre ragioni di sentirsi orgogliosi e validi. Anche se si è il membro più misero, povero, meno rispettato del gruppo, si trova compensazione nel «sentirsi parte del gruppo più meraviglioso del mondo. Appartenendo al gruppo, io che in realtà sono un verme, divento un gigante». Di conseguenza il grado di narcisismo di gruppo è commisurato alla mancanza di soddisfazione reale nella vita. Le classi sociali che si godono di più la vita sono meno fanatiche (il fanatismo è una qualità caratteristica del narcisismo di gruppo) rispetto a quelle che, come le classi medio-inferiori, soffrono di penuria in tutte le sfere materiali e culturali, e conducono una esistenza di noia senza tregua.

Allo stesso tempo, dal punto di vista del bilancio sociale, incoraggiare il narcisismo di gruppo è una soluzione molto a buon mercato: non costa praticamente niente in confronto alle spese necessarie per migliorare il livello di vita. Alla società basta pagare degli ideologi perché formulino gli slogan adatti a generare il narcisismo sociale; a dire il vero, parecchi funzionari sociali, come gli insegnanti, i giornalisti, i ministri del culto, i professori di università prestano la loro collaborazione senza onorario, almeno in denaro. Gli basta sentirsi orgogliosi e soddisfatti di aver servito una causa così degna, e di ricavarne maggiore prestigio e promozioni sociali.

I «narcisisti di gruppo» sono suscettibili quanto quelli individuali, e reagiscono con rabbia a ogni ferita, reale o immaginaria, inflitta al loro gruppo. Se mai le loro reazioni sono ancora più intense, e certo più consapevoli. A meno che non sia malato di mente, un individuo può se non altro avere qualche dubbio sulla sua personale immagine narcisistica. Il membro del gruppo invece no, poiché il suo narcisismo è condiviso dalla maggioranza. In caso di conflitto fra gruppi che sfidano il reciproco narcisismo collettivo, può crearsi un'intensa ostilità in ciascuno di loro. L'immagine narcisistica del proprio gruppo viene esaltata al massimo, e viene svalutata in eguale misura quella dell'altro. Mentre il proprio gruppo diventa paladino della dignità umana, della decenza, della moralità e del diritto, all'altro vengono affibbiati attributi diabolici: diventa traditore, spietato, crudele, fondamentalmente disumano. Alla violazione di uno dei simboli del narcisismo di gruppo - come la bandiera, o la persona dell'imperatore, del presidente, o di un ambasciatore - il popolo reagisce con tale furia e aggressività, da essere persino disposto a seguire i suoi leaders in una politica di guerra.

II narcisismo di gruppo è una delle fonti più importanti dell'aggressione umana e perciò, come tutte le altre forme di aggressione difensiva, è la reazione a un attacco contro interessi vitali. Si differenzia dalle altre forme di aggressione difensiva nel senso che il narcisismo intenso è di per sé un fenomeno semipatologico. Il narcisismo di gruppo certo ha un ruolo importantissimo; basta passare in rassegna le cause e la funzione dei sanguinosi, crudeli massacri fra Indù e Musulmani all'epoca della divisione dell'India, o recentemente fra i musulmani del Bengala e i loro leaders pakistani, e tali episodi non ci sorprendono se teniamo presente il fatto che si tratta praticamente delle popolazioni più povere e miserabili del mondo. Ma il narcisismo non è l'unica causa di questi fenomeni, di cui studieremo in seguito gli altri aspetti.

Aggressione e resistenza

Un'altra fonte importante di aggressione difensiva è l'aggressione come reazione a qualsiasi tentativo di far prendere coscienza di tensioni e fantasie represse. Questo tipo di reazione, uno degli aspetti di quel che Freud definì «resistenza», è stato esplorato sistematicamente col metodo psicoanalitico. Freud scopri che, se l'analista sfiorava materiale rimosso, il paziente opponeva «resistenza» all'approccio terapeutico. Non per rifiuto cosciente o per disonestà o riservatezza, ma per difendersi dalla scoperta di materiale inconscio, senza essere consapevole né dell'esistenza di questo materiale né della propria resistenza. Diverse possono essere le ragioni che inducono una persona a reprimere certi impulsi, magari per tutta la vita. Può darsi che abbia paura di essere punito, di non essere amato, o di essere umiliato qualora i suoi impulsi repressi vengano rivelati agli altri (o a se stesso, per quanto riguarda rispetto e amore di sé).

La terapia psicoanalitica ha messo in luce le varie reazioni che possono essere generate dalla resistenza. Il paziente può scivolare via dall'argomento che gli scotta e parlare di qualche altra cosa; sentirsi stanco e insonnolito; inventare un pretesto per evitare l'intervista; oppure può arrabbiarsi moltissimo con l'analista e trovare qualche motivo per interrompere l'analisi. Ecco un breve esempio: uno scrittore che stavo analizzando, molto orgoglioso della propria mancanza di opportunismo, mi spiegò, durante una sessione, che aveva cambiato un manoscritto perché era convinto che così sarebbe riuscito meglio a trasmettere il suo messaggio. Convinto di aver preso la decisione migliore, in seguito, con sua grande sorpresa, si era sentito un po' depresso e gli era venuto il mal di testa. Suggerii che forse, cambiando la versione, era stato motivato dalla speranza di guadagnare più popolarità, fama e quattrini; e che il suo cattivo umore e il suo mal di testa dovevano avere qualcosa a che fare con quell'atto di auto-tradimento. Avevo appena finito di parlare che lui saltò in piedi gridandomi con rabbia intensa che ero un sadico, che

me la godevo a rovinargli il piacere da lui pregustato, che invidiavo il suo futuro successo, che ero ignorante e non sapevo niente del suo settore di lavoro e molte altre invettive del genere. (Bisognerà sottolineare che il paziente era normalmente una persona estremamente cortese e che, prima e dopo questa esplosione, mi trattò sempre con rispetto.) Non avrebbe potuto far di meglio per confermare la mia interpretazione. Accennando alla sua motivazione inconscia, avevo minacciato la sua immagine di sé, il suo senso di identità. Ed egli reagì a questa minaccia con intensa aggressione, come se coinvolgesse il suo corpo o le sue proprietà. In tal caso l'aggressione ha un unico scopo: distruggere il testimone che possiede la prova.

Nella terapia psicoanalitica si riscontra regolarmente che, quando si arriva a sfiorare il materiale rimosso, la resistenza si scatena. Ma per osservare questo fenomeno non è assolutamente indispensabile limitarsi alla situazione psicoanalitica. Gli esempi abbondano anche nella vita quotidiana. Chi non ha visto una madre reagire con rabbia quando qualcuno le dice che vuol tenersi vicini i figli perché vuole possederli e controllarli, e non perché li ama tanto? Oppure quando un padre si sente dire che la preoccupazione per la verginità della figlia è motivata dal suo interesse sessuale per lei? Oppure un certo tipo di patriota quando gli si rinfacciano gli interessi finanziari mascherati dietro le sue convinzioni politiche? O un certo tipo di rivoluzionario quando gli si ricordano i personali impulsi distruttivi nascosti dietro la sua ideologia? In realtà, contestare le motivazioni di qualcuno significa violare uno dei tabu formali più generalmente rispettati, molto necessario, fra l'altro, nella misura in cui la cortesia formale ha proprio la funzione di ridurre al minimo le esplosioni aggressive.

Lo stesso fenomeno si è verificato nel corso della storia. Coloro che hanno detto la verità su un particolare regime, sono stati esiliati, rinchiusi in prigione o uccisi per aver scatenato la furia di chi deteneva il potere. Certo, la spiegazione ovvia sarebbe che erano dannosi alle rispettive classi dirigenti, che la loro uccisione sembrò il modo migliore di proteggere lo status quo. Questo è abbastanza vero, ma non spiega il fatto che chi- dice-la-verità è odiato profondamente, anche se non costituisce una vera e propria minaccia all'ordine costituito. A mio parere, la ragione è che, dicendo la verità, si mobilita la resistenza di coloro che la reprimono. Per questi, la verità è pericolosa non solo perché può compromettere il loro potere, ma perché scuote il loro intero sistema conscio di orientamento, privandoli delle loro razionalizzazioni, e potrebbe persino costringerli ad agire diversamente. Solo chi ha vissuto il processo di prendere coscienza di importanti impulsi, rimossi in precedenza, conosce il senso di sconvolgimento, tipo terremoto, e la confusione che ne derivano. Non tutti sono disposti ad arrischiarsi in questa avventura, soprattutto chi, almeno per il momento, trae profitto dalla propria cecità.

Aggressione conformista

L'aggressione conformista comprende vari atti aggressivi compiuti non perché l'aggressore è mosso dal desiderio di distruggere, ma perché così gli viene ordinato, ed egli ritiene suo dovere ubbidire. In tutte le società strutturate gerarchicamente l'obbedienza è forse il tratto più profondamente inculcato. Obbedienza equivale a virtù, disubbidienza a peccato. Essere disubbidiente è il crimine supremo, dal quale hanno origine tutti gli altri. Sempre per obbedienza Abramo era disposto a uccidere suo figlio. Creonte uccise Antigone perché aveva disubbidito alle leggi dello stato. Soprattutto gli eserciti coltivano l'obbedienza, perché la loro stessa essenza si basa sull'accettazione assoluta, meccanica, di ordini che precludono ogni contestazione. Il soldato che ammazza e mutila, il pilota di bombardiere che distrugge in un solo momento migliaia di vite, non sono necessariamente mossi da un impulso distruttivo o crudele, ma dal principio dell'obbedienza incondizionata.

L'aggressione conformista è sufficientemente diffusa da meritare seria attenzione. Dal comportamento dei ragazzi di una banda fino a quello dei soldati di un esercito, molti atti distruttivi vengono compiuti soltanto allo scopo di non sembrare «fifoni», e per tenere fede agli ordini. Queste motivazioni, e non la distruttività umana, sono alla radice di tale tipo di comportamento aggressivo, che viene spesso interpretato erroneamente come se esprimesse la potenza di impulsi aggressivi innati. L'aggressione conformista potrebbe anche essere classificata come pseudo-aggressione; è preferibile evitare quest'ultima definizione, perché l'obbedienza, come conseguenza del bisogno di conformarsi, mobiliterà in diversi casi degli impulsi aggressivi che altrimenti potrebbero non manifestarsi. Per di più, l'impulso di non obbedire o di non conformarsi costituisce per molti una minaccia interiore, contro la quale si difendono compiendo l'atto aggressivo richiesto.

Aggressione strumentale

Un altro tipo biologicamente adattivo di aggressione è quella strumentale, che ha cioè lo scopo di ottenere qualcosa di necessario o di desiderabile. Il suo obiettivo non è la distruzione in quanto tale; questa serve soltanto come strumento per raggiungere il vero scopo. In questo senso è analoga all'aggressione difensiva, da cui peraltro si distingue per altri aspetti importanti. A differenza di questa, non sembra avere una base neuronale programmata filogeneticamente, analoga a quella che programma l'aggressione difensiva; fra i mammiferi, solo i predatori, la cui aggressione è strumentale alla conquista di cibo, sono provvisti di uno schema neuronale innato che li costringe ad attaccare la preda. Il comportamento degli Ominidi e dell'Homo durante la caccia si basava sull'apprendimento e sull'esperienza, e non sembra che sia stato programmato filogeneticamente.

L'ambiguità delle parole «necessario» e «desiderabile» costituisce la maggior difficoltà nell'inquadramento dell'aggressione strumentale.

«Necessario» è facilmente definibile come esigenza fisiologica incontestabile: per esempio evitare di morire di fame. Se un uomo ruba o rapina perché lui e la sua famiglia non hanno nemmeno il minimo indispensabile di nutrimento, l'aggressione è chiaramente un atto motivato dalla necessità fisiologica. Lo stesso vale per la tribù primitiva sull'orlo della carestia, che ne attacca un'altra in condizioni migliori. Ma questi esempi lampanti di necessità sono relativamente infrequenti al giorno d'oggi. Assai più frequenti sono i casi più complessi. I leaders di una nazione si rendono conto che, a lungo andare, la loro situazione economica sarà seriamente compromessa, a meno che non riescano a conquistare dei territori che forniscano le materie prime di cui hanno bisogno, o a meno che non sconfiggano una nazione concorrente. Anche se spesso queste ragioni sono semplicemente una copertura ideologica per il desiderio di accrescere il potere o per l'ambizione personale dei leaders, ci sono guerre che rispondono effettivamente alla necessità storica, se non altro in senso lato, relativo.

Ma cosa è desiderabile? In senso stretto si potrebbe rispondere: Desiderabile è ciò che è necessario. In questo caso, il termini «desiderabile» si basa sulla situazione oggettiva. Più frequentemente, però, per desiderabile si intende ciò che è desiderato. Se usiamo il termine in questo senso, il problema dell'aggressione strumentale assume un altro aspetto, che in realtà è il più importante nella motivazione dell'aggressione. La verità è che la gente non desidera soltanto quel che le è indispensabile per sopravvivere, soltanto quel che costituisce la base materiale di una vita soddisfacente; nella nostra cultura - come in analoghi periodi storici - la maggior parte della gente è avida-, avida di avere sempre più cibo, bevande, sesso, proprietà, potere, fama. L'avidità può essere rivolta verso l'uno o verso l'altro oggetto, ma tutta questa gente ha in comune la caratteristica di essere insaziabile, e quindi mai soddisfatta. L'avidità è una delle più forti passioni non-istintive dell'uomo, un sintomo evidente di disfunzione psichica, di vuoto interiore, di mancanza di un centro interiore. È una manifestazione patologica dell'incapacità di svilupparsi completamente, e uno dei peccati fondamentali nell'etica buddista, ebraica, cristiana.

Qualche esempio illustrerà il carattere patologico dell'avidità: è noto che l'ingordigia di cibo, una fra le forme dell'avidità, è frequentemente provocata da stati depressivi; o che il comprare coatto è un tentativo di fuggire a uno stato di depressione. L'atto di mangiare o di comperare rappresenta simbolicamente il tentativo di riempire il vuoto interiore e, quindi, di superare momentaneamente il senso di depressione. L'avidità è una passione, cioè è caricata d'energia, e spinge senza tregua la persona verso il raggiungimento dei suoi obiettivi.

Nella nostra cultura l'avidità è fortemente rinforzata da tutte quelle misure che tendono a trasformarci in consumatori. Naturalmente, se ha abbastanza denaro per comperarsi tutto quel che desidera, la persona avida non ha bisogno di essere aggressiva. Ma in caso contrario, dovrà lanciarsi all'attacco per soddisfare i suoi desideri. L'esempio più lampante è il drogato con la sua inesorabile avidità di droga (che in questo caso, però, è sempre più rinforzata da fonti fisiologiche). Tutti quelli che non hanno il denaro per comperarsela rubano, rapinano, e addirittura uccidono per procurarsela. Per quanto distruttivo sia il loro comportamento, l'aggressione è sempre strumentale e non fine a se stessa. Su scala storica l'avidità è una delle cause più frequenti d'aggressione e probabilmente, nel motivare l'aggressione strumentale, è altrettanto forte del desiderio di ottenere quel che è oggettivamente necessario.

La comprensione dell'avidità è oscurata dall'identificazione con l'investimento egocentrico, che è invece la normale espressione di una pulsione data biologicamente, quella dell'auto-con- servazione, che mira a ottenere quel che è necessario per la preservazione della vita o di un tenore di vita tradizionale, consolidato dalle usanze. Come hanno dimostrato Max Weber, Tawney, von Brentano, Sombart e altri, nel Medioevo l'uomo, contadino o artigiano, era motivato dal desiderio di preservare il suo tenore di vita tradizionale. I contadini rivoluzionari del sedicesimo secolo non combattevano per avere quel che avevano gli artigiani delle città, né gli artigiani ambivano alla ricchezza di un barone feudale o di un ricco mercante. Persino nel diciottesimo secolo troviamo delle leggi che proibivano a un mercante di sottrarre clienti a un concorrente rendendo più attraente la sua bottega oppure lodando le sue merci a svantaggio di quelle di un collega. Soltanto col pieno sviluppo del capitalismo - oppure molto tempo addietro, in società analoghe, come quella dell'Impero Romano - l'avidità divenne una motivazione chiave per un numero sempre crescente di cittadini. Comunque, forse per un fondo perdurante di tradizione religiosa, praticamente nessuno confessa apertamente questa motivazione. Il dilemma fu risolto razionalizzando l'avidità come investimento egocentrico. Ne risultò l'equazione: l'egocentrismo è una tensione data biologicamente e ancorata alla natura umana; egocentrismo uguale ad avidità; ergo: l'avidità è radicata nella natura umana, e non è affatto una passione umana condizionata dal carattere. Q.E.D.

Sulle cause della guerra

Il caso più importante di aggressione strumentale è la guerra. Ormai è diventato di moda credere che la guerra sia scatenata dal potere dell'istinto distruttivo umano. Questa è stata la spiegazione fornita da istintivisti e psicoanalisti.21 Per esempio, un importante esponente della ortodossia psicoanalitica, E. Glover, argomenta contro M. Ginsberg che «l'enigma della guerra è sepolto... nelle profondità dell'inconscio», paragonando la guerra a «una forma svantaggiosa di adattamento istintuale». (E. Glover e M. Ginsberg, 1934.)22

Lo stesso Freud espresse una posizione molto più realistica dei suoi seguaci. Nella sua famosa lettera ad Albert Einstein, Perché la guerra? (S. Freud, 1933) individuò le cause della guerra non nella distruttività umana, ma nei conflitti realistici fra gruppi, costantemente risolti con la violenza, per l'assenza di una legge internazionale esecutoria che consentisse, come nella legge civile, di risolverli pacificamente. Attribuì soltanto un ruolo ausiliario al fattore della distruttività umana, per cui la gente è più disposta a combattere una volta che i vari governi abbiano imboccato quella strada.

Per chiunque abbia qualche vaga nozione di storia la tesi dell'innata distruttività umana quale causa primaria della guerra è semplicemente assurda. I Babilonesi, i Greci23, fino agli statisti del nostro tempo hanno pianificato le loro guerre per ragioni che ritenevano molto realistiche, soppesando accuratamente i pro e i contro, anche se, naturalmente, i loro calcoli furono spesso errati. Le motivazioni erano infinite: acquisire terra da coltivare, ricchezze, schiavi, materie prime, mercati, espansione e difesa. Talvolta ad accendere la scintilla fu la vendetta o, in una piccola tribù, la passione di distruggere, ma si tratta di casi atipici. La tesi secondo cui la guerra è provocata dall'aggressività umana non è soltanto non-realistica, è soprattutto dannosa. Distoglie l'attenzione dalle cause reali, indebolendo così l'opposizione contro di esse.

Questa presunta tendenza innata alla guerra non è solo sconfessata dalla storia documentata, ma anche, elemento questo e- stremamente importante, dalla storia delle guerre primitive. Già nel contesto dell'aggressione fra i popoli primitivi, abbiamo dimostrato che questi - e particolarmente i cacciatori e i raccoglitori di cibo - erano i meno bellicosì, e che le loro lotte erano caratterizzate da una assenza relativa di distruttività e di efferatezza. Abbiamo visto inoltre che, con lo sviluppo della civiltà, le guerre sono diventate sempre più frequenti e sanguinose. Dunque, se la guerra fosse provocata da impulsi distruttivi innati, si sarebbe verificato il contrario. Le tendenze umanitarie emerse nei secoli diciottesimo, diciannovesimo e ventesimo apportarono in guerra riduzioni della distruttività e della crudeltà, codificate - e rispettate fino alla prima guerra mondiale compresa - in vari trattati internazionali. In questa prospettiva progressista, sembrò che l'uomo civile fosse meno aggressivo del suo antenato primitivo; le guerre continuavano a scoppiare perché gli istinti aggressivi, pertinaci, si rifiutavano di piegarsi all'influenza benefica della civiltà. Ma quel che avvenne in realtà fu che la distruttività dell'uomo civile fu proiettata sulla natura umana, e quindi la storia fu confusa con la biologia.

Se cercassi di tracciare anche soltanto una breve analisi delle cause della guerra, dilaterei notevolmente la struttura di questo libro; mi dovrò perciò limitare ad addurre un solo esempio: la prima guerra mondiale.24

La prima guerra mondiale fu motivata dagli interessi economici e dalle ambizioni dei leaders politici, militari e industriali di entrambe le parti; non esplose perché le varie nazioni coinvolte avevano bisogno di scaricare la rispettiva aggressione «arginata». Poiché queste motivazioni sono largamente conosciute, è inutile ricostruirle nei particolari. In linea di massima si può dire che gli obiettivi principali della guerra 1914-1918 furono prevalentemente quelli della Germania: conquistare l'egemonia economica nell'Europa centrale e occidentale e acquisire territori all'Est. (Furono, poi, anche quelli di Hitler, la cui politica estera fu essenzialmente la continuazione di quella del governobimperiale.) Analoghi erano gli obiettivi e le motivazioni degli Alleati Occidentali. La Francia voleva l'Alsazia-Lorena; la Russia i Dardanelli; l'Inghilterra parte delle colonie tedesche; l'Italia almeno una piccola parte del bottino. Se non fosse stato per tutte queste mire, alcune delle quali stipulate in trattati segreti, la pace sarebbe stata conclusa anni prima, risparmiando così le vite di parecchi milioni di persone in entrambi gli schieramenti.

Durante la prima guerra mondiale, entrambe le parti in lotta dovettero appellarsi a un senso di auto-difesa e di libertà. I Tedeschi sostenevano di essere accerchiati e minacciati e, per di più, di combattere contro lo zar per la propria libertà; i loro nemici affermavano di essere minacciati dal militarismo aggressivo degli Junker tedeschi, e di combattere il Kaiser per preservare la propria libertà. Concluderne che questa guerra sia stata originata dal desiderio di Francesi, Tedeschi, Inglesi e Russi di scaricare la rispettiva aggressività è falso, e serve soltanto a distogliere l'attenzione dalle persone e dalle classi e condizioni sociali cui risale la responsabilità di uno dei più grandi massacri della storia.

Per quanto riguarda l'entusiasmo suscitato da questa guerra, bisognerà distinguere fra quello iniziale e le motivazioni che spinsero le rispettive popolazioni a continuare la lotta. All'interno dei Tedeschi, bisognerà distinguere due gruppi. Il piccolo gruppo dei nazionalisti - una piccola minoranza nella popolazione complessiva - strepitava per una guerra di conquista già parecchi anni prima del 1914: era formato prevalentemente da professori di liceo, da alcuni professori di università, da giornalisti e uomini politici, con l'appoggio di alcuni grossi personaggi della Marina tedesca e di alcuni settori dell'industria pesante. Si potrebbe descrivere la loro motivazione psichica come un misto di narcisismo di gruppo, di aggressione strumentale, del desiderio di far carriera e di acquisire potere all'interno di questo movimento nazionalistico e attraverso di esso. La grande maggióranza della popolazione si mostrò entusiasta soltanto poco prima e poco dopo lo scoppio della guerra. Anche a questo proposito emergono differenze e reazioni significative fra le varie classi sociali; per esempio, gli intellettuali e gli studenti erano più entusiasti dei lavoratori. (Un dato interessante che illumina la questione è il fatto che il capo del governo tedesco, il cancelliere del Reich von Bethman-Hollweg, come dimostrano i documenti del Ministero degli Esteri tedesco pubblicati dopo la guerra, era consapevole che sarebbe stato impossibile vincere il consenso del Partito Socialdemocratico, il più forte all'interno del Reichstag, a meno che non riuscisse prima a dichiarare guerra alla Russia, dando così ai lavoratori la sensazione di combattere contro l'autocrazia e per la libertà.) L'intera popolazione fu sottoposta al martellamento propagandistico del governo e della stampa che, pochi giorni prima e dopo l'inizio della guerra, usarono tutto il loro potere suggestivo per convincerli che la Germania sarebbe stata umiliata e aggredita, mobilitando così impulsi di aggressione difensiva. La popolazione nel suo complesso, però, non era motivata da forti impulsi di aggressione strumentale, per esempio dal desiderio di conquistare territorio straniero, come è dimostrato dal fatto che, persino all'inizio della guerra, la propaganda governativa negò ogni obiettivo di conquista, e più tardi, quando i generali controllarono la politica estera, gli obiettivi di conquista furono descritti come strumenti necessari per la futura sicurezza del Reich tedesco; comunque, nel giro di pochi mesi l'entusiasmo iniziale spari, per non tornare mai più.

È il caso di sottolineare che, quando Hitler fece scattare l'aggressione contro la Polonia, innescando così la seconda guerra mondiale, l'entusiasmo popolare per la guerra era praticamente eguale a zero. Nonostante gli anni di pesante indottrinamento militaristico, la popolazione dimostrò molto chiaramente che non era ansiosa di combattere. (Hitler fu costretto a inscenare un attacco a una stazione radio della Slesia da parte di presunti soldati polacchi - in realtà, nazisti mascherati - per risvegliare il senso di difesa contro l'aggressione.)

Ma anche se la popolazione tedesca non voleva questa guerra (persino i generali erano riluttanti), prese le armi senza opporre resistenza, e combatté coraggiosamente fino alla fine.

Ecco dove si pone il problema psicologico, non nella causalità della guerra, ma nell'interrogativo : quali fattori psicologici l'hanno resa possibile, pur non provocandola?

Per rispondere a questa domanda, bisognerà esaminare parecchi fattori rilevanti. Una volta scatenata la prima guerra mondiale (e, con qualche modifica, la seconda) i soldati tedeschi (o francesi, inglesi, russi) continuarono a lottare perché erano convinti che la sconfitta avrebbe fatto sprofondare l'intera nazione. A livello individuale erano motivati dalla sensazione di combattere per salvarsi la pelle. Ma nemmeno questo basterebbe per giustificare il consenso a continuare. Certo, sapevano che, se fossero fuggiti, sarebbero stati fucilati, ma queste motivazioni non impedirono ammutinamenti su vasta scala in tutti gli eserciti; in Russia e in Germania sfociarono nelle rivoluzioni del 1917 e del 1918. Nel 1917, in Francia, non c'era praticamente un corpo dell'esercito i cui soldati non si fossero ammutinati, e fu soltanto per l'abilità dei generali francesi nell'impedire che un'unità militare sapesse cosa accadeva nelle altre che questi ammutinamenti furono repressi, con un miscuglio di esecuzioni di massa e qualche miglioramento nelle condizioni di vita quotidiana dei soldati.

Un altro fattore importante nel determinare la guerra è il senso di rispetto profondamente radicato e il timore per l'autorità. Al soldato si era tradizionalmente cercato di inculcare il concetto che ubbidire ai suoi capi fosse un obbligo religioso e morale, che egli doveva adempiere a costo della vita. Ci vollero ben tre o quattro anni di orrori nelle trincee, e la consapevolezza crescente di essere usati dai capi per obiettivi bellici che niente avevano a che fare con la difesa, per spezzare questo atteggiamento di obbedienza, almeno in una parte considerevole dell'esercito e della popolazione.

Ma vi sono altre motivazioni emozionali, più sottili, che rendono possibile la guerra, pur non avendo niente a che fare con l'aggressione. La guerra è eccitante persino se implica il rischio di perdere la vita e grandi sofferenze fisiche. Considerando che la vita della persona media è noiosa, tutta routine e senza avventure, l'atteggiamento di chi è pronto ad andare in guerra deve essere inteso anche come il desiderio di mettere fine al noioso tran-tran della vita quotidiana, di lanciarsi nell'avventura, l'unica avventura, in realtà, che la persona media può aspettarsi in tutta la sua vita.25

In una certa misura, la guerra rovescia tutti i valori. Incoraggia l'espressione di impulsi umani profondamente radicati, come l'altruismo e la solidarietà, impulsi che vengono mutilati dal principio dell'egocentrismo e della competizione indotti nell'uomo moderno dalla vita normale in tempo di pace. Le differenze di classe, anche se non scompaiono, si riducono notevolmente. In guerra l'uomo è nuovamente uomo, ha la possibilità di distinguersi, a prescindere dai privilegi sociali conferitigli dal suo status di cittadino. Per dirla in forma molto accentuata, la guerra è una ribellione indiretta contro l'ingiustizia, l'ineguaglianza e la noia che dominano la vita sociale in tempo di pace, e non bisogna sottovalutare il fatto che, se un soldato combatte il nemico per la sua pelle, non deve combattere contro i membri del suo gruppo per avere cibo, cure mediche, riparo, vestiario, che gli vengono forniti da una specie di sistema perversamente socializzato. Il fatto che la guerra abbia queste caratteristiche positive è un triste commento alla nostra civiltà. Se la vita civile offrisse quegli elementi di avventura, solidarietà, eguaglianza, idealismo, che si possono trovare in guerra, potrebbe essere molto difficile far combattere la gente. Il problema del governo consiste nello strumentalizzare questa ribellione, imbrigliandola al servizio dell'obiettivo della guerra; simultaneamente, per impedire che diventi una minaccia al potere costituito, si impone una rigida disciplina e lo spirito di obbedienza ai leaders, rappresentati come uomini altruisti, saggi, coraggiosi, che proteggono il loro popolo dalla distruzione.26

Per concludere, le grandi guerre dei tempi moderni e quasi tutte quelle fra gli stati dell'antichità non furono provocate dall'aggressione arginata, ma dall'aggressione strumentale delle élites militari e politiche, come appare dai dati sulla diversa incidenza della guerra a partire dalle culture più primitive fino a quelle più sviluppate. Più una civiltà è primitiva, più rare sono le guerre. (Q. Wright, Chicago 1965.)27 La stessa tendenza è confermata dal fatto che la frequenza e l'intensità delle guerre si è accresciuta con lo sviluppo della civiltà tecnologica; è massima fra gli stati potenti con un governo forte, e minima fra l'uomo primitivo non sottoposto a leaders permanenti.

[…]

Facendone risalire le cause all'aggressione innata, certi autori hanno semplicemente considerato la guerra moderna un fenomeno normale, provocato necessariamente dalla natura «distruttiva» dell'uomo. Hanno tentato di confermare questa tesi con i dati raccolti sugli animali e sui nostri antenati preistorici, distorcendoli per farli servire allo scopo. La loro posizione è nata dalla convinzione irremovibile che la civiltà moderna sia superiore alle culture pre-tecniche. La logica era: se l'uomo civile è afflitto da tante guerre e da tanta distruttività, ben peggio doveva essere ridotto l'uomo primitivo, così arretrato nello sviluppo verso il «progresso». Poiché non si può attribuire la distruttività alla nostra civiltà, bisogna giustificarla come risultato dei nostri istinti. Ma i fatti parlano diversamente.

Le condizioni per la riduzione dell'aggressione difensiva

Poiché l'aggressione difensiva è una reazione predisposta filogeneticamente a minacce rivolte contro interessi vitali, non è possibile cambiarne la base biologica, sebbene questa possa essere controllata e modificata- come gli impulsi radicati in altri meccanismi istintivi. Comunque, per ridurre l'aggressione difensiva, la condizione principale consiste nel diminuire quei fattori realistici che la mobilitano. Naturalmente va al di là della struttura di questo libro tracciare un programma di cambiamenti sociali rivolti a questo scopo.28 Mi limiterò perciò ad alcune osservazioni.

La condizione principale, naturalmente, è che né gli individui né i gruppi siano minacciati da altri. Questo dipende dall'esistenza di basi materiali tali da fornire una vita dignitosa a tutti gli uomini, rendendo impossibile e indesiderabile il predominio di un gruppo su un altro. Tale condizione sarebbe realizzabile in un futuro prevedibile attraverso un sistema di produzione, proprietà e consumo diverso da quello attuale; dire che questo stato potrebbe essere conseguito, non significa naturalmente affermare che sarà facilmente conseguibile. In realtà è un compito di una difficoltà così sconvolgente che, anche soltanto per questo motivo, varie persone ben intenzionate preferiscono non farne nulla, e sperano di evitare la catastrofe cantando ritualisticamente le lodi del progresso.

Instaurare un sistema che garantisca il rifornimento degli elementi indispensabili per la sopravvivenza di tutti comporterebbe la scomparsa delle classi dominanti. L'uomo dovrà smetterla di vivere in questa specie di «zoo» : gli dovrà essere restituita la sua totale libertà e tutte le forme di controllo e sfruttamento dovranno scomparire. La presunta incapacità umana di vivere senza leaders che esercitino il controllo, è smentita da tutte quelle società che funzionano benissimo senza gerarchie. Tale cambiamento implicherebbe, naturalmente, trasformazioni politiche e sociali radicali, che modificherebbero tutte le relazioni umane, compresa la struttura della famiglia, dell'educazione, della religione, dei rapporti fra individui nel lavoro e nel tempo libero.

Nella misura in cui l'aggressione difensiva non è una reazione a minacce reali, ma a presunte minacce prodotte dalla suggestione e dal lavaggio del cervello sulle masse, questi stessi fondamentali cambiamenti sociali dissolverebbero la base per il ricorso a tale tipo di forza psichica. Poiché la suggestionabilità si basa sull'impotenza dell'individuo e sul timore-rispetto verso i leaders, i cambiamenti sociali e politici già indicati ne provocherebbero la scomparsa e, corrispondentemente, determinerebbero lo sviluppo di un pensiero critico indipendente.

Infine, per ridurre il narcisismo di gruppo, bisognerebbe eliminare la miseria, la monotonia, la noia, l'impotenza che esistono in ampi settori della popolazione. Per questo non basta semplicemente migliorare le condizioni materiali, ma sono indispensabili drastici cambiamenti nell'organizzazione sociale, che trasformino l'orientamento verso controllo-proprietà-potere in un orientamento-verso-la vita; da avere e accumulare a essere e condividere. Ciò richiederà il massimo grado di partecipazione attiva e di responsabilità da parte di ciascuna persona nel suo ruolo di operaio o impiegato in qualsiasi tipo di impresa, e nel suo ruolo di cittadino. Bisognerà escogitare forme completamente nuove di decentralizzazione, e nuove strutture politiche e sociali che porranno fine alla società dell'anomia, alla società di massa formata da milioni di atomi.

Nessuna di queste condizioni è indipendente da tutte le altre. Sono parte di un sistema e, di conseguenza, l'aggressione reattiva potrà essere ridotta al minimo soltanto se l'intero sistema, così come è esistito durante gli ultimi seimila anni di storia, può essere sostituito da uno fondamentalmente diverso. Se questo accadrà, le visioni, giudicate utopiche, di Budda, dei profeti, di Gesù e degli utopisti del Rinascimento, saranno riconosciute come soluzioni realistiche e razionali, che servono al fondamentale programma biologico dell'uomo: la conservazione e la crescita sia dell'individuo sia della specie umana.

Note

1 Questa opinione è stata espressa da C. e W. M.S. Russell (1968a).

2 L. von Bertalanffy ha assunto una posizione che, in linea di principio, è analoga a quella presentata qui. Scrive: «Non vi sono dubbi sulla presenza, nella psiche umana, di tendenze aggressive e distruttive che sono della natura delle pulsioni biologiche. Comunque, i fenomeni più perniciosi dell'aggressione, che trascendono auto-conservazione e auto-distruzione, si basano su un tratto caratteristico dell'uomo al di là del livello biologico, cioè sulla sua capacità di creare universi simbolici di pensiero, linguaggio, comportamento» (L. von Bertalanffy, New York 1956).

3 Comunicazione personale del defunto dott. D. T. Suzuki.

4 Cfr. F. A. Beach (1945).

5 Queste cifre sono comunque discutibili, dato che le valutazioni della percentuale di XYY fra la popolazione generale variano fra 0,5-3,5 per 1.000.

6 Cfr. M. F. A. Montagu (1968) e J. Nielsen (1968), soprattutto la letteratura qui citata.

7 L'ultima rassegna sul problema è arrivata alla conclusione che il nesso fra aggressione e cromosomi XYY è ancora indimostrato. L'autore scrive: «Fra i partecipanti alla Conferenza l'opinione prevalente era che le aberrazioni comportamentali ipotizzate o documentate fino ad ora non indicano un rapporto diretto di causa ed effetto rispetto al corredo cromosomico XYY. Perciò sarebbe attualmente impossibile affermare che il corredo XYY è associato definitivamente e invariabilmente ad anormalità comportamentali... Per di più, nonostante l'ampia pubblicità fatta a questo riguardo, no" è stato appurato che gli individui con un'anomalia XYY siano più aggressivi di criminali dello stesso livello con normali costituzioni cromosomiche. Sotto questo aspetto, sembra che, a causa di speculazioni incaute e premature, le persone XYY siano state ingiustamente stigmatizzate e giudicate assai più aggressive e violente rispetto agli altri criminali». (S. A. Shah, Washington D.C. 1970.)

8 La copulazione fra animali dà talvolta l'impressione di una selvaggia aggressione da parte del maschio; osservatori ben addestrati hanno dimostrato che la realtà non corrisponde alle apparenze e che, almeno fra i mammiferi, il maschio non provoca alcun danno alla femmina.

9 Cfr. la discussione sul sadismo nel capitolo XI.

10 E’ caratteristico di questo fenomeno che la parola greca ethos - che significa, letteralmente, comportamento - abbia assunto il significato di «etico», così come «norma» (che era originariamente il termine usato per definire lo strumento di un falegname) fosse usata nella duplice accezione di quel che è «normale» e quel che è «normativo». " Sono grato al prof. Juan de Dios Hernandez per i suoi stimolanti suggerimenti sul livello neurofisiologico, che ometto qui perché richiederebbe una complessa discussione tecnica.

11 Le rivoluzioni avvenute nel corso della storia non devono oscurare il fatto che anche bambini e ragazzi fanno rivoluzioni, ma, essendo inermi, devono usare metodi particolari, quelli cioè della guerriglia. Per combattere la soppressione della loro libertà, adottano vari sistemi individuali, come un cocciuto negativismo, il rifiuto di mangiare e dell'educazione alla pulizia, l'enuresi, fino ai metodi più drastici di ritiro autistico e di debilità pseudo-mentale. Gli adulti si comportano come qualsiasi élite che veda minacciato il proprio potere. Ricorrono alla forza fisica, spesso con l'aggiunta del ricatto, pur di proteggere la loro posizione. Di conseguenza, la maggior parte dei bambini si arrende, preferendo la sottomissione a un tormento costante. Non c'è pietà in questa guerra, le cui perdite affollano i nostri ospedali psichiatrici, finché la vittoria non sia conquistata. Comunque, è il caso di sottolineare che tutti gli esseri umani - i bambini dei potenti come quelli degli inermi - condividono questa esperienza di essere stati impotenti e di aver combattuto per la propria libertà. Per questo si può presumere che ogni essere umano - a prescindere dal suo equi

paggiamento biologico - abbia acquisito nella sua infanzia un potenziale rivoluzionario che, sebbene assopito per molto tempo, potrebbe essere mobilitato in circostanze particolari.

12 Non solo per l'uomo. L'effetto deteriorante della vita nello zoo sugli animali è già stato descritto, e sembra smentire le opinioni contrarie persino di una grande autorità come Hediger. (H. Hediger, Basilea 1942.)

14 II colore della pelle ha questo effetto soltanto se combinato con una situazione di impotenza. Da quando hanno acquisito potere all'inizio del secolo, i Giapponesi sono diventate persone; per gli stessi motivi l'immagine dei Cinesi è cambiata soltanto qualche anno fa. Il possesso di una tecnologia avanzata è diventato il criterio per determinare chi è umano oppure no.

15 Per una discussione più particolareggiata sul narcisismo, vedi E. Fromm (New York 1964, trad, italiana: Roma 1965).

16 Negli ultimi anni molti analisti hanno messo in discussione il concetto del narcisismo primario nell'infanzia, presumendo l'esistenza di relazioni oggettuali in un periodo ben precedente rispetto a quello individuato da Freud. Anche il concetto freudiano della natura totalmente narcisistica delle psicosì è stato abbandonato dalla maggioranza degli psicoanalisti.

17 Qui di seguito mi occuperò soltanto del narcisismo che si manifesta nella mania di grandezza. Esiste un'altra forma di narcisismo che, sebbene sembri essere l'opposto, è soltanto un'altra manifestazione dello stesso fenomeno: mi riferisco al narcisismo negativo, in cui una persona è costantemente e ansiosamente preoccupata per la sua salute, fino all'ipocondria. Questa manifestazione non ha alcuna importanza nel nostro contesto. Bisognerebbe rilevare, però, che spesso le due manifestazioni si mescolano; basti pensare alle ansie ipocondriache di Himmler per la sua salute.

18 II problema del narcisismo e della creatività è molto complesso, e richiederebbe una discussione molto più estesa di quella che è possibile fare qui.

19 Questo non significa che sia semplicemente un bluff; accade abbastanza frequentemente, ma non sempre. Woodrow Wilson, Franklin D. Roosevelt, Winston Churchill, per esempio, erano molto narcisisti, eppure raggiunsero importanti risultati politici, non tali, comunque, da giustificare il loro senso di sicurezza, la presunzione di essere sempre nel giusto, che spesso sfociava in arroganza; nello stesso tempo il loro narcisismo era limitato rispetto a quello di un uomo come Hitler. Questo spiega perché Churchill non subì pesanti conseguenze mentali quando perse le elezioni del 1948, e presumo che Io stesso sarebbe stato per Roosevelt qualora avesse conosciuto la sconfitta, anche se non bisogna trascurare il fatto che, persino dopo la sconfitta politica, avrebbero entrambi conservato un gran numero di ammiratori. Il caso di Wilson potrebbe essere abbastanza diverso; varrebbe la pena di indagare se la sua sconfitta politica non avesse creato seri problemi psichici che interagirono con la sua malattia fisica. Su Hitler e Stalin sembrano non esservi dubbi. Hitler preferi morire piuttosto che affrontare la sconfitta. Nel corso delle prime settimane dopo l'attacco tedesco nel 1941, Stalin mostrò segni di crisi psichica, e sembra probabile che abbia sofferto di tendenze paranoiche negli ultimi anni della sua vita, quando si era creato tanti nemici, che probabilmente intuiva di non essere più l'amato padre dei suoi sudditi.

20 Certe volte, per creare la realtà, basta anche soltanto il consenso di un piccolo gruppo, nei casi più estremi persino il consenso di due (Jolie à deux).

21 Vedi A. Strachey (Londra 1957); vedi anche E. F. M. Durbin e J. Bowlby (New York 1939); al contrario, essi argomentano con grande abilità che la collaborazione pacifica è una tendenza altrettanto fondamentale e naturale della lotta nelle relazioni umane; eppure considerano la guerra essenzialmente un problema psicologico.

22 All'epoca in cui questa parte del manoscritto era in fase di revisione, le relazioni provenienti dal XXVII Congresso dell'Associazione Internazionale di Psicoanalisi, tenuto a Vienna nel 1971, sembravano indicare un cambiamento di atteggiamento sulla questione della guerra. Il prof. A. Mitscherlich ha dichiarato che «tutte le nostre teorie verranno spazzate via dalla storia» a meno che non si applichi la psicoanalisi ai problemi sociali, e inoltre: «Temo che nessuno ci prenderà molto seriamente se continuiamo a raccontare che le guerre esplodono perché i padri odiano i figli e vogliono ucciderli, che la guerra è figlicidio. Dobbiamo invece proporci di trovare una teoria che spieghi il comportamento di gruppo, una teoria che faccia risalire questo comportamento ai conflitti sociali che mettono in moto le pulsioni individuali». A dire il vero, già dall'inizio degli anni Trenta gli psicoanalisti avevano cercato di lavorare in questa direzione, col risultato di essere espulsi dall'Associazione psicoanalitica internazionale con un pretesto o con l'altro. Il permesso ufficiale per questo nuovo «sforzo» fu dato da Anna Freud alla fine del Congresso, con la prudente aggiunta: «Per formulare una teoria dell'aggressione dobbiamo aspettare di sapere molto di più, attraverso i nostri studi clinici, su quel che veramente costituisce l'aggressività». (Entrambe le citazioni sono tratte dalla edizione parigina deWHerald Tribune, 29-31 luglio 1971.)

23 Per un esempio molto significativo vedi la descrizione fatta da Tucidide della guerra del Peloponneso.

24 La letteratura sugli aspetti militari, politici ed economici della guerra 1914-1918 è talmente ampia che persino una bibliografia abbreviata riempirebbe parecchie pagine. A mio avviso le due opere più profonde e illuminanti sulle cause della prima guerra mondiale sono quelle di due illustri storici: G. W. F. Hallgarten (Monaco 1963) e F. Fischer (Düsseldorf 1961, trad, italiana: Torino 1965).

25 Non bisogna però sopravvalutare questo fattore. L'esempio di paesi come la Svizzera, le nazioni scandinave, il Belgio e l'Olanda dimostra che

il fattore dello spirito d'avventura non può indurre una popolazione a volere la guerra, a meno che il paese non sia attaccato e i governi non abbiano dei motivi per avviare una guerra.

26 Caratteristico di questo dilemma è che, nei trattati internazionali sul trattamento dei prigionieri di guerra, tutte le potenze si sono trovate d'accordo sulla clausola che proibisce a un governo di esercitare propaganda sui «suoi» prigionieri di guerra contro il rispettivo governo. In breve, si è accettato il principio che ciascun governo ha il diritto di uccidere i soldati del nemico, ma non di renderli sleali.

27 Cfr. «La guerra primitiva» nel capitolo Vili.

28 Ho discusso alcuni di questi problemi in The Sane Society, New York 1955 (trad, italiana: Psicoanalisi della società contemporanea, Milano 1964) e in The Revolution of Hope, New York 1968 a (trad, italiana: La rivoluzione della speranza, Milano 1969).

L'aggressione maligna: premesse
Osservazioni preliminari

L'aggressione biologicamente adattiva serve alla vita; in linea di principio, s'intende sotto l'aspetto biologico e neurofìsiologico, anche se abbiamo bisogno di molte altre informazioni in proposito. È una pulsione che l'uomo condivide con altri animali, sebbene vi siano certe differenze che sono state discusse in precedenza.

La caratteristica dell'uomo è che può essere trascinato dall'impulso di uccidere e di torturare, provando voluttà; è l'unico animale che può uccidere e distruggere membri della propria specie senza alcun vantaggio razionale, né biologico né economico. L'obiettivo delle pagine successive consiste nell'esplorare la natura di questa distruttività biologicamente non-adattiva, maligna.

L'aggressione maligna, ricordiamolo bene, è specificamente umana e non deriva dall'istinto animale. Non contribuisce alla sopravvivenza fisiologica dell'uomo, ma è un elemento importante del suo funzionamento mentale. È una di quelle passioni potenti e dominanti in certi individui e culture, e non in altri. Cercherò di dimostrare che la distruttività è una delle possibili risposte a esigenze psichiche radicate nell'esistenza umana, e che essa ha origine, come abbiamo detto prima, dall'interazione di varie condizioni sociali con i bisogni esistenziali dell'uomo. Da questa ipotesi scaturisce la necessità di costruire una base teorica sulla quale tentare di esaminare i seguenti interrogativi: quali sono le condizioni specifiche dell'esistenza umana? Che cos'è la natura o l'essenza umana?

Sebbene il pensiero moderno, soprattutto la psicologia, non sia molto aperto a questi problemi, generalmente incasellati nel regno della filosofia e di altre «speculazioni» puramente «soggettive», spero di dimostrare nella discussione che seguirà che esistono, invece, veri e propri spazi per un esame empirico.

La natura umana

Per la maggior parte dei pensatori, a cominciare dai filosofi greci, era autoevidente l'esistenza di qualcosa chiamato natura umana, qualcosa che costituisce l'essenza dell'uomo. Nessuno dubitava, insomma, che esiste qualche cosa in virtù della quale l'uomo è uomo, anche se varie erano le opinioni sugli elementi che la determinano. Perciò l'uomo fu definito essere razionale, animale sociale, animale in grado di fabbricare utensili (Homo faber), o animale che crea simboli.

Più recentemente si è cominciato a contestare questa opinione tradizionale. L'accentuazione crescente dell'approccio storico all'uomo è stata una delle componenti di tale cambiamento. L'esame della storia dell'umanità ha dato origine all'ipotesi che l'uomo della nostra epoca è talmente diverso da quello degli stadi precedenti, jche è sembrato non-realistico presumere che gli uomini di tutte le ere avessero in comune qualcosa che possa essere definito come «natura umana». Particolarmente negli Stati Uniti, l'approccio storico è stato corroborato dalle ricerche effettuate nel settore dell'antropologia culturale. Studiando i popoli primitivi, si è scoperta una tale varietà di usanze, valori, sentimenti e pensieri, che molti antropologi arrivarono a formulare questo concetto: quando l'uomo nasce, è come una pagina bianca sulla quale ciascuna cultura scrive il suo testo. Un altro fattore che ha contribuito alla tendenza di negare il presupposto di una natura umana fissa è stato l'abuso di questo concetto, usato spesso come paravento dietro al quale si commettono gli atti più inumani. Proprio in nome della natura umana, per fare un esempio, Aristotele e la maggior parte dei pensatori fino al diciottesimo secolo hanno difeso la schiavitù.1 Oppure, per dimostrare la razionalità e la necessità della forma di società capitalistica, gli studiosi hanno cercato di far credere che la tendenza ad accumulare, la competitività, l'egoismo siano tratti umani innati. A livello popolare, si parla cinicamente della «natura umana» per accettare l'inevitabilità di comportamenti umani indesiderabili come l'avidità, l'omicidio, l'inganno, la menzogna.

Probabilmente un altro motivo dello scetticismo sul concetto di natura umana risiede nell'influenza del pensiero evoluzionistico. Una volta che si arrivò a inquadrare l'uomo nel processo dell'evoluzione, sembrò insostenibile l'idea di una sostanza contenuta nella sua essenza. Eppure io credo che sia precisamente da un punto di vista evolutivo che ci possono pervenire nuovi suggerimenti sul problema della natura umana. In questa direzione hanno dato nuovi contributi autori come Karl Marx, R. M. Bucke,2 Teilhard de Chardin, T. Dobzhansky; anche in questo capitolo propongo un approccio analogo.

Il presupposto dell'esistenza di una natura umana è sostenuto prevalentemente dalla possibilità di definire l'essenza dell 'Homo sapiens in termini morfologici, anatomici, fisiologici e neurologici. In realtà, per dare una definizione esatta e generalmente accettata della specie uomo, ci riferiamo alla posizione del suo corpo, alla formazione del cervello, ai denti, alla dieta e a molti altri fattori coi quali la differenziamo chiaramente dai primati non-umani più sviluppati. Ne dobbiamo per forza concludere, a meno che non vogliamo regredire e considerare mente e corpo come due regni separati, che si debba poter definire la specie umana sia mentalmente sia fisicamente.

Lo stesso Darwin si rendeva perfettamente conto che l'uomo in quanto tale non era caratterizzato soltanto da tratti fisici specifici, ma da specifici attributi psichici, di cui cita i più importanti ne L'origine dell'uomo (abbreviati e parafrasati da G. G. Simpson) :

«Rispetto alla sua intelligenza superiore, il comportamento umano è più flessibile, meno riflesso o istintivo.

Con gli altri animali relativamente avanzati, l'uomo condivide fattori complessi come curiosità, imitazione, attenzione, memoria, immaginazione, ma li possiede in grado superiore e li applica con modalità più intricate.

Indubbiamente più degli altri animali, l'uomo ragiona e migliora la natura adattiva del proprio comportamento in modi razionali.

Regolarmente l'uomo usa e fabbrica utensili in grande varietà.

L'uomo è consapevole di sé; riflette sul suo passato, sul suo futuro, sulla vita, sulla morte, ecc.

L'uomo è in grado di compiere astrazioni mentali, e sviluppa un simbolismo conseguente; il linguaggio è il risultato più essenziale e complessamente sviluppato di queste capacità.

Certi uomini hanno il senso del bello.

Quasi tutti gli uomini hanno un senso religioso, comprendendo in questa espressione il timore, la superstizione, la fede nell'animistico, nel sovrannaturale e nello spirituale.

Gli uomini normali hanno un senso morale; in senso lato l'uomo è un animale morale.

L'uomo è un animale culturale e sociale che ha sviluppato culture e società uniche per caratteristiche e complessità.» (G. G. Simpson, New Haven 1949.)

Esaminando i tratti psichici elencati da Darwin, emergono diversi elementi. Egli cita tutta una serie di articoli disparati, certi esclusivamente umani, come la coscienza di sé, la capacità di creare simboli e cultura, il senso estetico, morale, religioso. Ma questa lista di caratteristiche specificamente umane ha un grave difetto : è puramente descrittiva ed enumerativa, non-sistematica. Darwin non fa alcun tentativo di esaminare le loro condizioni comuni.

Esclude dalla sua lista passioni ed emozioni specificamente umane come tenerezza, amore, odio, crudeltà, narcisismo, sadismo, masochismo, ecc., e tratta le altre come istinti. Per lui, tutti gli uomini e gli animali,

«specialmente i primati, hanno in comune alcuni istinti. Hanno tutti gli stessi sensi, intuizioni, sensazioni - simili passioni, affetti, emozioni anche fra le più complesse, come la gelosia, il sospetto, l'emulazione, la gratitudine e la magnanimità; sono ingannatori e vendicativi; hanno qualche volta il senso del ridicolo e perfino quello dell'umorismo; provano meraviglia e curiosità; possiedono le stesse capacità di imitazione, attenzione, ponderazione, scelta, memoria, immaginazione, associazione di idee e ragionamento, anche se a livelli molto differenti.» (C. Darwin, Londra 1946.)

È chiaro che non troveremo nella teoria darwiniana alcun sostegno al nostro tentativo di inquadrare le più importanti passioni umane come specifiche dell'uomo e non ereditate dai nostri antenati animali.

Il progresso del pensiero fra gli studiosi dell'evoluzione dall'epoca di Darwin si riflette nelle teorie proposte da uno dei più eminenti ricercatori contemporanei, G. G. Simpson. L'uomo - egli insiste - ha attributi essenziali che lo contraddistinguono dagli animali. «È importante riconoscere» scrive «che l'uomo è un animale, ma è ancora più importante riconoscere che l'essenza della sua natura unica risiede precisamente in quelle caratteristiche che egli non condivide con nessun altro animale. Il suo posto nella natura e la sua suprema importanza non sono definiti dalla sua animalità, ma dalla sua umanità». (G. G. Simpson, New Haven I949.)

Per Simpson le caratteristiche basilari dell’Homo sapiens sono i fattori correlati di intelligenza, flessibilità, individualizzazione, socializzazione. Anche se la sua risposta non è del tutto soddisfacente, il tentativo di vedere una correlazione reciproca dei tratti essenziali dell'uomo, radicati in un fattore fondamentale, e il suo riconoscimento della trasformazione del quantitativo in qualitativo, costituiscono un importante progresso rispetto a Darwin. (G. G. Simpson, New York 1944, 1953.)

Dal fronte della psicologia, Abraham Maslow ha compiuto uno dei tentativi più famosi di descrivere le esigenze specifiche dell'uomo, componendo una lista di «bisogni fondamentali», fisiologici ed estetici: esigenza di sicurezza, di inserimento, di amore, di stima, di auto-realizzazione, di conoscenza e comprensione. (A. Maslow, New York 1954.) Una enumerazione poco sistematica, e poi, purtroppo, Maslow non ha tentato di analizzare l'origine comune di tali esigenze nella natura dell'uomo.

Il tentativo di definire la natura umana nei termini delle condizioni specifiche - biologiche e mentali - della specie, ci porta in primo luogo ad alcune considerazioni riguardanti la nascita dell'uomo.

Sembrerebbe semplice determinare quando un individuo umano viene ad esistere, ma in realtà le cose non stanno così. La risposta potrebbe essere: all'epoca del concepimento, quando il feto ha assunto una precisa forma umana, all'atto della nascita, alla fine dell'allattamento; si potrebbe persino dire che certi uomini non sono mai veramente nati, nemmeno quando muoiono. Ma preferiamo rifiutarci di fissare un giorno o un'ora per «la nascita» di un individuo, e parlare invece di un processo nel corso del quale una persona viene ad esistere.

Se ci domandiamo quando nacque l'uomo come specie, la risposta è molto più difficile. Sappiamo ancor meno del processo evolutivo, che copre un arco di milioni di anni; le nostre conoscenze si basano sulle scoperte casuali di scheletri e utensili la cui importanza è ancora molto discussa.

Anche se le nostre conoscenze sono insufficienti, vi sono alcuni dati che, pur avendo bisogno di essere modificati nei particolari, ci danno un quadro generale di quel processo che possiamo definire la nascita dell'uomo. Potremmo far risalire il concepimento dell'uomo all'inizio della vita unicellulare, circa un miliardo e mezzo di anni fa, oppure all'inizio dell'esistenza dei mammiferi primitivi, circa duecento milioni di anni fa; potremmo dire che lo sviluppo umano comincia con gli antenati ominidi che vissero forse circa quattordici milioni di anni fa, magari anche prima. Potremmo datare la sua nascita alla comparsa del primo uomo, Homo erectus, di cui sono stati trovati in Asia vari esemplari, che coprono un arco di tempo esteso da un milione a circa cinquecentomila anni fa (Uomo di Pechino); oppure potremmo farla risalire soltanto a circa quarantamila anni fa, quando emerse l'uomo moderno (Homo sapiens sapiens) che era identico all'uomo di oggi in tutti gli aspetti biologici essenziali.3 In realtà, se esaminiamo lo sviluppo dell'uomo secondo il parametro del tempo storico, potremmo dire che, in senso stretto, l'uomo è nato soltanto qualche minuto fa. Oppure potremmo addirittura pensare che è ancora immerso nel processo della nascita, che il cordone ombelicale non è stato ancora reciso, che sono insorte complicazioni tali da far temere che l'uomo non possa mai venire alla luce oppure nasca morto.

La maggior parte degli studiosi dell'evoluzione umana fa risalire la nascita dell'uomo a un evento particolare: la fabbricazione di utensili, secondo la definizione, data da Benjamin Franklin, dell'uomo come Homo faber, l'uomo costruttore. Tale definizione è stata criticata duramente da Marx, che la giudicò «caratteristica degli Yankee»." Fra gli scrittori moderni, Mumford ha espresso la critica più convincente su questo orientamento. (L. Mumford, Milano 1969.)

Per arrivare a un concetto della natura umana, bisognerà inquadrare tutto il processo evolutivo, e non limitarsi alla considerazione di aspetti isolati come la creazione di utensili, atteggiamento, questo, che porta chiaramente il marchio dell'ossessione produttiva contemporanea. Dobbiamo arrivare a capire la natura umana sulla base della fusione delle due fondamentali condizioni biologiche che caratterizzano la comparsa dell'uomo. Una di esse fu che gli istinti determinarono sempre meno il comportamento.5 Pur tenendo conto delle varie opinioni controverse sulla natura degli istinti, è generalmente accettata la tesi che più alto è lo stadio evolutivo raggiunto da un animale, più bassa è l'incidenza di schemi di comportamento stereotipi rigorosamente determinati e filogeneticamente programmati nel cervello.

Il processo della funzione decrescente degli istinti nel determinare il comportamento può essere raffigurato come un continuo, all'estremità zero del quale troviamo le forme inferiori dell'evoluzione animale con il più alto grado di determinazione istintiva; questa cala man mano che procede l'evoluzione animale, raggiungendo un certo livello con i mammiferi; decresce ulteriormente nello sviluppo che porta ai primati, e anche qui troviamo un grosso divario fra scimmie e scimmie antropomorfe, come hanno dimostrato Yerkes e Yerkes nella loro ricerca classica. (R. M. e A. V. Yerkes, New Haven 1929.) Nella specie Homo la determinazione istintiva raggiunge il grado massimo di diminuzione.

L'altra tendenza che emerge nell'evoluzione animale è la crescita del cervello, particolarmente del neocortex. Anche in questo caso l'evoluzione può essere raffigurata come un continuo: a un'estremità, gli animali inferiori, con la struttura nervosa più primitiva e un numero relativamente piccolo di neuroni; all'altra, l'uomo con una struttura cerebrale più grossa e più complessa, soprattutto un neocortex che è il triplo di quello dei suoi antenati ominidi, e un numero di connessioni interneuronali veramente fantastico.6

Considerando questi dati, l'uomo può essere definito come il primate che emerse in quella fase dell'evoluzione in cui la determinazione istintiva scese al minimo e lo sviluppo del cervello raggiunse il massimo. Questa combinazione di determinazione i- stintiva minima e di massimo sviluppo cerebrale non si era mai verificata prima nell'evoluzione animale, e costituisce, biologicamente parlando, un fenomeno completamente nuovo.

Quando l'uomo emerge, il suo comportamento è scarsamente guidato dal suo equipaggiamento istintivo. A prescindere da alcune reazioni elementari, come quelle al pericolo o agli stimoli sessuali, non esiste alcun programma ereditato che gli dica cosa fare in tutti quei casi in cui la sua vita può dipendere dalla giusta decisione. Sembrerebbe perciò che, biologicamente, l'uomo sia il più fragile e inerme di tutti gli animali.

Lo sviluppo straordinario del suo cervello controbilancia questo deficit istintivo?

In una certa misura, sì. L'intelletto guida l'uomo a fare le scelte giuste. Ma sappiamo anche quanto sia debole e poco fidato questo strumento, che si lascia facilmente influenzare e vincere dalle passioni e dai desideri umani. Il cervello umano non solo è insufficiente come sostituto di un apparato istintuale indebolito, ma complica spaventosamente l'impresa di vivere. Con ciò non mi riferisco all'intelligenza strumentale, all'uso del pensiero come strumento per la manipolazione degli oggetti allo scopo di soddisfare le proprie esigenze; dopo tutto, questa è una caratteristica che l'uomo ha in comune con gli animali, soprattutto con i primati. Mi riferisco invece a quell'aspetto in cui il pensiero umano ha acquisito una qualità completamente nuova, la coscienza di sé. L'uomo è l'unico animale che non solo conosca gli oggetti, ma sappia di sapere. L'uomo è l'unico animale che, oltre all'intelligenza strumentale, abbia la ragione, la capacità di usare il suo pensiero per capire oggettivamente, cioè per conoscere la natura delle cose come sono di per sé, e non solo come strumenti per la propria soddisfazione. Dotato della ragione e dell'autocoscienza, l'uomo è consapevole di se stesso come essere distinto dalla natura e dagli altri; è consapevole della propria impotenza, della propria ignoranza; è consapevole della propria fine: la morte.

Coscienza di sé, ragione, immaginazione hanno frantumato l'«armonia» che caratterizza l'esistenza animale. La loro comparsa ha trasformato l'uomo in un'anomalia, in un capriccio dell'universo. Egli è parte della natura, soggetto alle sue leggi fisiche e incapace di cambiarle, eppure la trascende. E’ separato pur essendone parte; è senza casa, pur essendo incatenato alla casa che condivide con tutte le creature. Scagliato nel mondo, in un certo luogo e in una certa epoca del tutto casuali, altrettanto per caso e contro la sua volontà è costretto ad uscirne. Essendo consapevole di se stesso, si rende conto della sua impotenza, dei limiti della sua esistenza. La dicotomia della sua esistenza non lo abbandona mai: non può liberarsi della sua mente, nemmeno se volesse; non può liberarsi del suo corpo finché è in vita, e il suo corpo gli fa desiderare di vivere.

Non può vivere la sua vita ripetendo gli schemi della sua specie; deve vivere «in prima persona». È l'unico animale che non sia a suo agio nella natura, che possa sentirsi scacciato dal paradiso, l'unico animale per cui l'esistenza è un problema ineluttabile da risolvere. Non può ritornare allo stato pre-umano di armonia con la natura, e non sa dove arriverà continuando il suo cammino. La contraddizione esistenziale umana sfocia in uno stato di squilibrio costante. Questo squilibrio distingue l'uomo dagli animali, che invece vivono in armonia con la natura. Ciò non significa, naturalmente, che quelli abbiano una vita pacifica e felice, bensì che hanno una loro specifica nicchia ecologica cui il processo evolutivo ha adattato le loro qualità fisiche e mentali. Lo squilibrio esistenziale, e quindi inevitabile, dell'uomo può essere relativamente stabilizzato una volta che egli abbia scoperto, con l'aiuto della sua cultura, un modo più o meno adeguato di affrontare i suoi problemi esistenziali. Questa relativa stabilità, però, non cancella la dicotomia, che semplicemente si assopisce, per tornare a manifestarsi non appena si modificano le condizioni.

Certo, nel processo di auto-creazione umana questa stabilità relativa è soggetta a continui sconvolgimenti. Nel corso della propria storia, l'uomo cambia il suo ambiente e, nel corso di questo processo, cambia se stesso. Aumentano le sue conoscenze, ma anche la consapevolezza della sua ignoranza: si sente individuo, e non soltanto membro della tribu, e così si accresce la sensazione di isolamento, di separazione. Crea unità sociali più ampie e più efficienti, guidate da leaders potenti, e diventa timoroso e sottomesso. Raggiunge un certo grado di libertà, e si spaventa di questa stessa libertà. Si accresce la sua capacità di produzione materiale, ma, nel corso di questo processo, diventa avido, egoista, schiavo delle cose che ha creato.

Ogni nuovo stato di squilibrio costringe l'uomo a cercare un nuovo equilibrio. In realtà, quella che è stata spesso considerata la sua pulsione innata al progresso non è che il tentativo di trovare un equilibrio nuovo e, se possibile, migliore.

Le nuove forme di equilibrio non costituiscono assolutamente un avanzamento in linea retta. Molto spesso, nella storia, le nuove conquiste hanno provocato sviluppi regressivi. Non di rado, quando è costretto a trovare una nuova soluzione, l'uomo finisce in un vicolo cieco dal quale deve uscire, e quel che è notevole è che, finora, nella storia, vi sia sempre riuscito.

Da queste considerazioni emerge un'ipotesi sul modo di definire l'essenza o la natura dell'uomo. A mio avviso, la natura umana non può essere definita in termini di qualità specifiche come amore, odio, ragione, bene o male, ma soltanto secondo le contraddizioni fondamentali che caratterizzano l'esistenza umana, affondando le loro radici nella dicotomia biologica fra debolezza istintuale e consapevolezza di sé. Il conflitto esistenziale produce certe esigenze psichiche comuni ad ogni uomo, costretto a superare l'orrore dell'isolamento, dell'impotenza, dello smarrimento, a trovare nuove strade per entrare in contatto col mondo, che gli permettano di sentirsi a casa. Ho definito esistenziali queste esigenze psichiche poiché sono radicate nelle condizioni stesse dell'esistenza umana, condivise da tutti; la loro soddisfazione è necessaria perché l'uomo resti sano di mente, così come la soddisfazione dei bisogni organici è necessaria perché resti in vita. Ma ciascuna di queste esigenze può essere soddisfatta in modo diverso, variabile a seconda della sua condizione sociale. Questi diversi modi di soddisfare le esigenze esistenziali si manifestano in passioni, come amore, tenerezza, tensione di giustizia, indipendenza, verità, odio, sadismo, masochismo, distruttività, narcisismo. Le chiamo passioni «radicate-nel-carattere», o semplicemente «umane», perché sono integrate nel carattere umano.

Mentre il concetto di carattere verrà discusso estesamente in seguito, basterà dire per il momento che il carattere è il sistema relativamente permanente di tutte le tensioni non-istintuali attraverso le quali l'uomo si pone in rapporto col mondo umano e naturale. Per carattere si può intendere il sostituto umano dei mancanti istinti animali; la seconda natura dell'uomo. Quel che tutti gli uomini hanno in comune sono le pulsioni organiche (che però possono essere notevolmente modificate dall'esperienza) e le esigenze esistenziali. Quel che invece non hanno in comune sono i tipi di passione dominanti nei rispettivi caratteri, passioni radicate-nel-carattere. La differenza che si manifesta nei caratteri deriva in larga misura dalle diverse condizioni sociali (sebbene anche le disposizioni date geneticamente influenzino la formazione del carattere); per questa ragione le passioni-radicate-nel-carat- tere possono essere definite una categoria storica, mentre gli istinti sono una categoria naturale. Eppure le prime non sono unicamente una categoria storica, nella misura in cui l'influenza sociale può operare soltanto attraverso le condizioni biologicamente date dell'esistenza umana.7

Ora siamo pronti a discutere le esigenze esistenziali umane e la varietà di passioni-radicate-nel-carattere che via via costituiscono risposte diverse a queste esigenze esistenziali. Ma prima di cominciare la discussione, guardiamoci indietro e solleviamo una questione di metodo. Ho suggerito una «ricostruzione» della mente umana come poteva essere all'inizio della preistoria. L'obiezione ovvia a questo metodo è che si tratta di una ricostruzione teorica del'a quale non esiste alcuna prova, o almeno così sembrerebbe. Comunque, non mancano del tutto le prove per formulare qualche abbozzo di ipotesi, che potrà essere smantellata o confermata da ulteriori scoperte.

Tali prove risiedono essenzialmente in quei ritrovamenti da cui emerge che, forse già mezzo milione di anni fa, l'uomo (Uomo di Pechino) aveva culti e rituali, la qual cosa dimostra che egli non si preoccupava soltanto di soddisfare le proprie esigenze materiali. La storia della religione e dell'arte preistoriche (che per quei tempi non possono essere disgiunte) è la fonte principale per studiare la mente dell'uomo primitivo.. Ovviamente, in questo contesto non posso avventurarmi in un territorio immenso e ancora controverso. Quel che voglio sottolineare è che i dati ora disponibili, come quelli ancora da scoprire per quanto riguarda le religioni e i rituali primitivi, non riveleranno mai la natura della mente umana preistorica se non possediamo la chiave per decifrarli. Questa chiave, io credo, è la nostra stessa mente. Non i nostri pensieri consci, ma quelle categorie di pensiero e di sentimento che, pur essendo sepolte nel nostro inconscio, costituiscono un nucleo d'esperienza presente in tutti gli uomini e in tutte le culture; in breve, quel che vorrei chiamare 1'«esperienza umana primaria», radicata di per sé nella situazione esistenziale dell'uomo. Per questo motivo essa è comune a tutti gli uomini e non ha bisogno di essere spiegata come eredità razziale.

Resta da vedere, naturalmente, se possiamo trovare questa chiave; se possiamo trascendere il nostro normale schema mentale e trasferirci nella mente dell'«uomo originario». Il dramma, la poesia, l'arte, il mito vi sono riusciti, ma non la psicologia, a eccezione della psicoarialisi. Le varie scuole psicoanalitiche hanno percorso strade diverse. L'uomo originario di Freud era la ricostruzione storica del membro di una banda maschile organizzata patriarcalmente, governata e sfruttata da un padre-tiranno che scatena la ribellione dei figli maschi, e la cui interiorizzazione è la base per la formazione del Super-Io e di una nuova organizzazione sociale. Freud si proponeva di aiutare il paziente a scoprire il proprio inconscio facendogli condividere l'esperienza dei suoi più antichi progenitori.

Anche se questo modello di uomo originario era fittizio e se il corrispondente «complesso di Edipo» non rappresentava il livello più profondo dell'esperienza umana, l'ipotesi di Freud apriva una possibilità completamente nuova: che tutti gli uomini di ciascun periodo e cultura avessero condiviso con i loro antenati un'esperienza fondamentale. Perciò Freud aggiunse un ulteriore argomento storico alla convinzione umanistica che tutti gli uomini hanno un comune nucleo di umanità.

C. G. Jung fece lo stesso tentativo in un modo diverso da quello di Freud, e, sotto diversi aspetti, più sofisticato. Interessandosi particolarmente alla varietà di miti, rituali, religioni, usò brillantemente e ingegnosamente il mito come chiave per capire l'inconscio, costruendo così un ponte fra mitologia e psicologia, più estesamente e sistematicamente di ogni suo predecessore.

Quel che voglio proporre io è non solo di usare il passato per capire il presente, il nostro inconscio, ma anche di usare l'inconscio come chiave per capire la preistoria. Ciò richiede la pratica della conoscenza di sé in senso psicoanalitico: rimuovere gran parte della nostra resistenza a prendere consapevolezza del nostro inconscio, facilitando così la penetrazione della nostra mente cosciente nelle profondità del nostro nucleo.

Se ne saremo capaci, riusciremo a capire chi vive nella nostra stessa cultura, ma anche individui di culture completamente diverse, e persino i pazzi. Potremo anche intuire quel che l'uomo originario deve avere sperimentato, quali esigenze esistenziali aveva, e come gli uomini (compresi noi stessi) possono rispondere a queste esigenze.

Quando vediamo l'arte primitiva, fino all'arte rupestre di trentamila anni fa, o l'arte di culture radicalmente diverse, come quella africana o greca o quella medievale, per noi è scontato che riusciremo a capirle, sebbene siano completamente diverse dalla nostra. Sogniamo simboli e miti simili a quelli concepiù migliaia di anni fa, a occhi aperti, da uomini come noi. Prescindendo dalle enormi differenze nella percezione conscia, non sono forse il linguaggio comune di tutta l'umanità? (E. Fromm, New York 1951.)

Considerando che il pensiero contemporaneo nel campo dell'evoluzione umana è orientato così unilateralmente lungo le linee dello sviluppo fisico dell'uomo e della sua cultura materiale, di cui scheletri e utensili sono le principali testimonianze, non è sorprendente che pochissimi ricercatori si interessino alla mente dell'uomo primitivo. Eppure la prospettiva che ho appena presentata è condivisa da parecchi studiosi eminenti, con un indirizzo filosofico complessivo diverso da quello della maggioranza; mi riferisco specificamente alle posizioni, particolarmente vicine alla mia, del paleontologo F. M. Bergounioux e dello zoologo e genetista T. Dobzhansky.

Bergounioux scrive:

«Anche se l'uomo può essere legittimamente considerato un primate, di cui possiede tutte le caratteristiche anatomiche e fisiologiche, egli forma da solo un gruppo biologico la cui originalità è incontestabile... L'uomo si senti brutalmente strappato dal suo ambiente e isolato in mezzo a un mondo di cui non conosceva i parametri e le leggi; perciò si sentì costretto a imparare, attraverso uno sforzo durissimo, costante, e pagando con i propri sbagli, tutto quel che gli era necessario per sopravvivere. Gli animali intorno a lui andavano e venivano, ripetendo infaticabilmente le stesse azioni: caccia, raccolta del cibo, ricerca dell'acqua, marciare all'attacco o fuggire per difendersi da innumerevoli nemici; per loro, i periodi di riposo e di attività si succedevano con un ritmo immutato, fissato dalle esigenze di nutrirsi e di dormire, di riprodursi o di proteggere. Staccandosi dal suo ambiente, l'uomo si sentì solo, abbandonato, ignaro di tutto, tranne che della propria ignoranza... Perciò il suo primo sentimento fu l'ansietà esistenziale, che può averlo addirittura portato ai confini della disperazione.» (F. M. Bergounioux, Chicago 1964.)

Dobzhansky ha espresso un'opinione molto simile:

«La coscienza di se e la capacità di previsione, tuttavia, portarono i tremendi doni della libertà e della responsabilità. L'uomo si sente libero di dar esecuzione a certi suoi progetti e di lasciarne altri in disparte; prova la gioia di essere padrone, anziché schiavo, del mondo e di se stesso; ma la gioia è temperata dal senso di responsabilità; sa che deve render conto dei suoi atti: ha acquistato la conoscenza del bene e del male. Questo è un carico terribilmente pesante da portare; nessun altro animale deve far fronte a niente di simile. Vi è un tragico conflitto nell'anima dell'uomo; e, fra le imperfezioni della natura umana, questa è molto più grave dei travagli del parto.» (T. Dobzhansky, New Haven 1962.)

Le esigenze esistenziali dell'uomo e le varie passioni-radicate-nel-carattere

Uno schema di orientamento e di devozione

Per la sua capacità di essere cosciente di sé, per la sua ragione e immaginazione - nuove qualità che vanno al di là della capacità di pensiero strumentale persino dell'animale più intelligente - l'uomo ha bisogno di un quadro del mondo e del posto che occupa all'interno di esso, strutturato e dotato di una coesione interna. L'uomo ha bisogno di una carta geografica del suo mondo naturale e sociale, senza la quale sarebbe confuso e incapace di un'azione avveduta e coerente; senza la quale non avrebbe alcuno strumento per orientarsi e per trovarsi un punto fisso che gli permetta di organizzare tutte le impressioni che lo investono. Che egli creda nella stregoneria o nella magia come spiegazione finale di tutti gli eventi, o nello spirito degli antenati come guida alla sua vita e al suo destino, o nel dio onnipotente che lo premierà o punirà, o nel potere della scienza di risolvere tutti i problemi umani, per quanto riguarda la sua esigenza di uno schema di orientamento, non fa alcuna differenza. Il suo mondo ha un senso per lui e, attraverso il consenso di coloro che lo circondano, si sente sicuro delle proprie idee. Anche se sbagliata, la carta geografica adempie la sua funzione psicologica. Ma la carta non fu mai completamente sbagliata, e nemmeno è stata mai completamente giusta. Come approssimazione alla spiegazione dei fenomeni è sempre stata sufficientemente valida da lavorare al servizio della vita. Il quadro teorico può corrispondere alla verità, solo nella misura in cui la pratica di vivere è liberata dalle sue contraddizioni e dalla sua irrazionalità.

Quel che conta, è che non esiste praticamente una cultura priva di un simile schema di orientamento. E nemmeno un individuo. Spesso l'individuo negherà di avere un quadro complessivo, e crederà di reagire ai vari fenomeni e incidenti della vita caso per caso, secondo il suo criterio. Ma sarà facile dimostrare che prende per scontata la sua filosofia, riducendola a livello di buon senso, senza rendersi conto che tutti i suoi concetti si basano su uno Schema di riferimento comunemente accettato. Quando una simile persona si trova ad affrontare una visione della vita diametralmente opposta, la giudica «pazza», o «irrazionale», o «infantile», considerando se stesso assolutamente logico. L'esigenza di formarsi uno schema di riferimento emerge con particolare chiarezza nei bambini, che, a una certa età, spesso se lo costruiscono da soli, ingegnosamente, usando i pochi dati a loro disposizione.

L'intensità di questa esigenza spiega un fenomeno che ha sconcertato parecchi studiosi dell'uomo, e cioè la facilità con cui la gente cade sotto l'incantesimo di dottrine irrazionali, politiche o religiose o di qualsiasi altra natura, mentre a colui che non ne è influenzato appare evidente che si tratta di costruzioni assurde. La risposta sta in parte nell'influenza suggestiva dei leaders e nella suggestionabilità umana. Ma sembra che la storia non finisca qui. Probabilmente l'uomo non sarebbe così suggestionabile se non fosse per la sua esigenza vitale di uno schema di orienta-mento coesivo. Più un'ideologia pretende di dare la risposta a tutti gli interrogativi, più è attraente; forse è proprio per questo motivo che i sistemi di pensiero irrazionali, oppure decisamente folli, affascinano con tanta facilità la mente dell'uomo.

Ma come guida all'azione una carta orientativa non è sufficiente; l'uomo ha bisogno anche di un obiettivo che gli dica dove andare. L'animale non ha problemi del genere. Il suo istinto gli fornisce sia la carta geografica sia gli obiettivi. Mancando di una determinazione istintiva e avendo un cervello che gli permette di visualizzare diverse possibili direzioni, l'uomo ha bisogno di un oggetto di totale devozione; ha bisogno di un oggetto di devozione come punto focale di tutte le sue tensioni e come base per tutti i suoi valori effettivi, e non soltanto proclamati. Ha bisogno di questo oggetto di devozione per una serie di ragioni: perché integra le sue energie in una sola direzione; lo eleva al di sopra della sua esistenza isolata, con tutti i dubbi e l'insicurezza che la caratterizzano, e dà un senso alla sua vita. Dedicandosi a un obiettivo che va al di là del suo Io isolato, l'uomo trascende se stesso e lascia la prigione dell'egocentrismo assoluto.5

Diversi sono gli oggetti di devozione. L'uomo può dedicarsi a un idolo che gli imponga di ammazzare i suoi figli, oppure a un ideale che gli comandi di proteggere i bambini; può essere votato alla crescita della vita o alla sua distruzione. Può essere dedito allo scopo di ammucchiare una fortuna, di acquisire potere, di distruggere, oppure a quello di amare o di essere produttivo e coraggioso. Può essere votato agli idoli e agli obiettivi più disparati; eppure, se la differenza negli oggetti di devozione è di immensa importanza, l'esigenza di devozione in sé e per sé è un'esigenza primaria, esistenziale, che chiede di essere soddisfatta, non importa come.

Mettere radici

Quando il bambino nasce, abbandona la sicurezza del grembo, la situazione in cui era ancora parte della natura : là dove viveva attraverso il corpo della mamma. Al momento della nascita è ancora attaccato simbioticamente alla madre, e così rimane anche dopo, molto più a lungo degli altri animali. Ma persino quando viene reciso il cordone ombelicale, permane un profondo desiderio di cancellare la separazione, di tornare nel grembo o di trovare una nuova situazione di protezione e sicurezza assolute.10

Ma la strada verso il paradiso è bloccata dalla sua costituzione biologica, e particolarmente da quella neurofisiologica. Egli ha una sola alternativa : persistere nel suo desiderio di regredire, oppure scontarlo attraverso una dipendenza simbolica dalla madre (e dai suoi sostituti simbolici, come terra, natura, dio, la nazione, una burocrazia), o progredire e trovare nuove radici nel mondo attraverso la sua ricerca, sperimentando la fraternità umana, liberandosi dal potere del passato.

Consapevole di questa separazione, l'uomo ha bisogno di trovare nuovi legami con i suoi compagni; ne dipende la sua stessa salute mentale. Senza forti legami affettivi col mondo, soffrirebbe di un profondo isolamento e smarrimento. Ma, per creare rapporti con gli altri, ha vari modi accertabili. Può amarli, la qual cosa richiede indipendenza e produttività, oppure, se il suo senso di libertà non è sviluppato, può stabilire un rapporto simbiotico, diventando parte di loro oppure rendendoli parte di sé. In questa relazione simbiotica tende a controllare gli altri (sadismo), oppure a esserne controllato (masochismo). Se non sa scegliere fra la strada dell'amore e quella della simbiosi, può risolvere il problema limitando il rapporto a se stesso (narcisismo); allora egli diventa il mondo, e ama il mondo, «amando» se stesso. È una soluzione frequente per soddisfare il bisogno di rapporti (generalmente mescolata al sadismo), ma è molto pericolosa; nella sua forma estrema porta ad alcuni tipi di pazzia. Un ultimo tipo maligno di soluzione (spesso mescolato a estremo narcisismo) è il desiderio di distruggere. Se nessuno esiste al di fuori di me, non ho bisogno di temere gli altri, né di mettermi in contatto con loro. Se distruggo il mondo, non potrò esserne schiacciato.

Unità

La frattura esistenziale sarebbe insopportabile se l'uomo non potesse creare un senso di unità con se stesso e con il mondo esterno, naturale e umano. Diversi sono i modi per ripristinare l'unità.

L'uomo può anestetizzare la propria coscienza con stati indotti di trance o di estasi, mediati da mezzi quali droghe, orge sessuali, digiuni, danze e altri rituali che abbondano nei vari culti. Può anche cercare di identificarsi con l'animale, per rigua-dagnare la sua armonia perduta; questa via per ricercare l'unità è l'essenza di molte religioni primitive in cui l'antenato della tribu è un animale totem, o in cui l'uomo si identifica con l'animale comportandosi come'tale (per esempio i berserkers teutonici che si identificavano con l'orso), oppure indossando una maschera di animale. Si può creare unità anche subordinando tutte le energie a una sola passione divorante, come quella di distruggere, di conquistare potere, fama, proprietà.

«Dimenticarsi», nel senso di anestetizzare la propria ragione, è l'obiettivo di tutti questi tentativi di ristabilire l'unità interiore. È un tentativo tragico, nel senso che, o ha un successo solo momentaneo (come nella trance e nell'ebbrezza) oppure, se per-manente (come nelle passioni di odio o di potenza) mutila l'uomo, lo estrania dagli altri, deforma la sua capacità di valutazione, lo rende schiavo delia sua particolare passione come un altro è schiavo della droga.

Una sola strada verso l'unità può aver successo senza mutilare l'uomo. Questo tentativo fu compiuto durante il primo millennio a.C. in tutte le parti del mondo dove era fiorita una civiltà, in Cina, in India, in Egitto, in Palestina, in Grecia. Le grandi religioni che scaturirono dal terreno fertile di queste culture insegnarono che l'uomo può raggiungere l'unità non attraverso il tragico sforzo di cancellare la frattura, eliminando la ragione, ma sviluppando completamente la ragione e l'amore umani. Per quanto grandi siano le differenze fra il Taoismo, il Buddismo, il Giudaismo profetico, il Cristianesimo del Vangelo, queste religioni avevano un obiettivo comune: arrivare all'esperienza dell'unità, non regredendo all'esistenza animale, ma diventando com-pletamente umani: unità nell'intimo dell'uomo, unità fra uomo e natura, unità fra l'uomo e gli altri uomini. Nella breve epoca storica di duemilacinquecento anni l'uomo non sembra aver fatto grandi progressi nel raggiungere l'obiettivo postulato da queste religioni. Una spiegazione può essere la lentezza inevitabile dello sviluppo economico e sociale, oltre al fatto che le religioni furono co-optate da coloro che avevano la funzione sociale di do- linare e manipolare l'uomo. Eppure, per lo sviluppo psichico dell'uomo, questo nuovo concetto di unità fu rivoluzionario quanto lo fu l'invenzione dell'agricoltura e dell'industria per il suo sviluppo economico. E mai questo concetto andò totalmente perduto: fu portato alla luce nelle sette cristiane, fra i mistici di tutte le religioni, nelle idee di Gioacchino da Fiore, fra gli umanisti rinascimentali e, in forma secolare, nella filosofia di Marx.

L'alternativa fra strumenti regressivi e progressivi per raggiungere la salvezza non è soltanto socio-storica. Ciascun individuo ha di fronte la stessa alternativa; il suo margine di libertà nel rifiutare la soluzione regressiva in una società che l'ha scelta è davvero piccolo, tuttavia esiste. Ma per questo sono necessari grandi sforzi, un pensiero lucido e la guida fornita dagli insegnamenti dei grandi umanisti. (La nevrosi può essere meglio intesa come conflitto fra queste due tendenze nell'intimo dell'indi-viduo; una profonda analisi del carattere, se riuscita, porta alla soluzione progressiva.)

Un'altra soluzione al problema della frattura esistenziale umana è caratteristica della nostra società cibernetica: identificarsi con il proprio ruolo sociale; sentirsi piccolo; perdersi, riducendosi a cosa; così la frattura esistenziale viene camuffata perché l'uomo si identifica con la sua organizzazione sociale e dimentica di essere una persona; diventa, per usare il termine di Heidegger, un «uno», una non-persona. È, potremmo dire, in un'«estasi negativa»; dimentica se stesso cessando di essere «lui», cessando di essere una persona e diventando una cosa.

Efficacia

La consapevolezza di essere in un mondo prepotente, estraneo, e il conseguente senso di impotenza potrebbero facilmente sopraffare l'uomo. Se si sentisse interamente passivo, un semplice oggetto, sarebbe privato del senso di avere una volontà, una propria identità. Come compensazione deve acquisire la sensazione di essere capace di fare qualcosa, di avere influenza su qualcuno, di «far presa», o, per usare l'espressione più corretta, di essere «efficace». Oggi usiamo tale parola in riferimento a uno speaker o a un venditore «efficace», o «efficiente», cioè a qualcuno che riesce a ottenere dei risultati. Ma questo è un deterioramento del significato originale del termine (che deriva dal latino ex-facere, fare). Essere efficace è l'equivalente di: far procedere, compiere, realizzare, portare a termine, adempiere; una persona efficace ha la capacità di fare, di produrre, di compiere qualcosa. Essere capace di far qualcosa significa non essere impotenti, ma vivi, funzionanti. Essere in grado di fare significa essere attivi e non soltanto influenzati', essere attivi e non solo passivi. È, in ultima analisi, la prova di esistere. Il principio può essere formulato così : Sono perché agisco efficacemente.

Questa tesi è stata sottolineata da parecchi ricercatori. All'inizio del secolo, K. Groos, il classico interprete del gioco, scrisse che una motivazione essenziale nel gioco del bambino era la «gioia di essere in causa» ; questa era" la spiegazione del piacere che prova il bambino facendo rumore, spostando le cose, giocando nelle pozzanghere. Concludeva: «Esigiamo una conoscenza degli effetti, e del fatto che siamo noi stessi i produttori di questi effetti». (K. Groos, New York 1901.) Un'idea analoga fu espressa cinquant'anni dopo da J. Piaget, osservando l'interesse particolare del bambino per gli oggetti che può manovrare con i propri movimenti. (J. Piaget, Neuchâtel 1937.) R. W. White usò un concetto analogo descrivendo una delle motivazioni fondamentali dell'uomo come «motivazione di competenza», proponendo la parola «effectance» per l'aspetto motivazionale della competenza. (R. W. White, 1959.)

La stessa esigenza si manifesta nel fenomeno che la prima vera frase di alcuni bambini dai quindici fino ai diciotto mesi è una qualsiasi versione di «Io faccio... io faccio», e che spesso «me» viene usato prima di «mio». (D. E. Schechter, 1968.)11 Per la sua situazione biologica, il bambino si trova necessariamente in uno stato di straordinaria impotenza fino all'età di diciotto mesi, e anche dopo dipende, in larga misura, dai favori e dalla buona volontà degli altri. Ma il grado dell'impotenza naturale infantile cambia ogni giorno, mentre in genere gli adulti sono molto più lenti a modificare il loro atteggiamento verso il bambino. Le sue esplosioni, le sue grida, la sua cocciutaggine, i diversi modi in cui il piccolo tenta di combattere gli adulti sono fra le manifestazioni più visibili del suo tentativo di essere «efficace», di muovere, di cambiare, di esprimere la sua volontà. In genere il bambino è vinto dalla forza superiore dell'adulto, c la sconfitta non resta senza conseguenze; a quanto pare, mette in azione la tendenza a superarla, facendo attivamente quel che si è stati costretti a subire passivamente: dominare quando si fu costretti a obbedire; picchiare perché si è stati picchiati; in breve, fare quel che si fu costretti a subire,, o fare quel che fu proibito di fare. I dati psicoanalitici forniscono ampie prove che le tendenze nevrotiche e le stranezze sessuali, come il voyeurismo, la masturbazione ossessiva o un bisogno coatto di rapporto sessuale, sono spesso il risultato di antiche proibizioni. Sembra quasi che questo passaggio coatto dal ruolo passivo a quello attivo sia un tentativo, anche se destinato all'insuccesso, di guarire ferite ancora aperte. Forse qui sta anche la spiegazione del fascino esercitato generalmente dal «peccato», dal gusto di fare la cosa proibita.12 Non solo affascina quello che non era lecito, ma anche quello che non è possibile. A quanto pare, l'uomo è profondamente attratto verso il superamento dei confini personali, sociali e naturali della sua esistenza, così come è spinto a guardare al di là dello schema limitato in cui è costretto a esistere. Questo impulso può essere un fattore molto importante nel condurre a grandi scoperte, come a grandi delitti.

Anche l'adulto sente l'esigenza di rassicurarsi della propria e- sistenza attraverso l'efficienza. Diversi sono i modi per arrivarvi: raccogliendo un'espressione di soddisfazione nel bambino affidato alle nostre cure, un sorriso dalla persona amata, la risposta sessuale dall'amante, l'interesse di un partner nella conversazione; col lavoro, materiale, intellettuale, artistico. Ma si può soddisfare la stessa esigenza anche esercitando potere sugli altri, sperimentando la loro paura - come l'assassino che osserva l'angoscia sulla faccia della sua vittima - conquistando un paese, torturando gente, distruggendo semplicemente tutto quel che è stato costruito. Il bisogno di «essere efficaci» si esprime nelle relazioni interpersonali come nelle relazioni con gli animali, con la natura inanimata, con le idee. Nel rapporto con gli altri l'alternativa fondamentale sta fra il sentire la potenza dell'agire con amore o del provocare paura e sofferenza. Nel rapporto con le cose, l'alternativa è fra costruire e distruggere. Per quanto opposte, queste alternative sono la risposta alla stessa esigenza esistenziale: agire efficacemente.

Studiando la depressione e la noia, troveremo un'ampia documentazione del fatto che sentirsi condannato alla non-efficienza - per esempio alla completa impotenza vitale (di cui l'impotenza sessuale non è che una piccola parte) - è una delle esperienze più penose e quasi intollerabili, e l'uomo farebbe praticamente qualsiasi cosa per superarla, dall'abbandonati alla droga e immergersi nel lavoro alla crudeltà e all'omicidio.

Eccitazione e stimolazione

Il neurologo russo Ivan Sechenov fu il primo a stabilire, in Reflexes of the Brain, che il sistema nervoso ha l'esigenza di essere «esercitato», cioè di sperimentare un minimo di eccitazione. (I. Sechenov, Cambridge 1863.)

R. B. Livingston afferma lo stesso principio:

«Il sistema nervoso è, allo stesso tempo, fonte di attività e di integrazione. Il cervello non è semplicemente reattivo agli stimoli esterni; è di per sé spontaneamente attivo... L'attività delle cellule cerebrali comincia dalla vita embrionale, e probabilmente contribuisce allo sviluppo organizzativo. Lo sviluppo cerebrale avviene con maggiore velocità nel periodo precedente la nascita e per qualche mese successivo a questa. Dopo questo periodo di crescita esuberante, il ritmo di sviluppo cala notevolmente; eppure, persino nell'adulto, non c'è nessun punto oltre il quale cessi lo sviluppo o scompaiano le capacità di riorganizzazione nell'eventualità di malattie o lesioni.»

E poi:

«Il cervello consuma ossigeno a un ritmo paragonabile a quello del muscolo attivo. Il muscolo attivo può sostenere un simile ritmo di consumazione d'ossigeno soltanto per un breve periodo, mentre il sistema nervoso continua così per tutta la vita, sveglio o addormentato, dalla nascita fino alla morte.» (R. B. Livingston, New York 1967.)

Persino nelle colture di tessuti, le cellule nervose continuano a essere vive biologicamente ed elettricamente.

L'esigenza cerebrale di eccitazione costante è chiaramente riconoscibile nel fenomeno del sogno. È stato appurato che noi sogniamo per una buona parte del tempo che passiamo dormendo (circa il 25 per cento); chi sostiene di non sognare, semplicemente non ricorda i propri sogni, e compaiono reazioni semipatologiche se ci si impedisce di sognare. (W. Dement, 1960.) £ il caso di domandarsi perché il cervello, che comprende soltanto il 2 per cento del peso corporeo, sia l'unico organo (oltre il cuore e i polmoni) a rimanere attivo durante il sonno, mentre il resto del corpo è in stato di riposo; o, per esprimersi in termini neurofisiologici, perché il cervello usa il 20 per cento dell'immissione totale d'ossigeno nel corpo giorno e notte? A quanto pare, se ne può concludere che i neuroni «dovrebbero» essere in uno stato di maggiore attività rispetto alle cellule di altre parti del corpo. Quanto alle ragioni di ciò, potremmo ipotizzare che un sufficiente rifornimento di ossigeno al cervello è di tale essenziale importanza per la vita, che al cervello si offre un margine extra di attività ed eccitazione.

L'esigenza infantile di stimolazione è stata messa in luce da parecchi ricercatori. R. Spitz ha descritto gli effetti patologici prodotti dalla mancanza di stimolazione nei bambini piccoli. Gli Harlow e altri hanno dimostrato che, se il piccolo delle scimmie viene precocemente privato del contatto materno, soffre di pesanti danni psichici.13 Elaborando la sua tesi che la stimolazione sociale costituisce una base per lo sviluppo del bambino, anche D. E. Schechter ha studiato questo problema, concludendo che «senza un'adeguata stimolazione sociale (anche percettiva), come avviene ad esempio per i bambini ciechi oppure ricoverati in istituti, si sviluppano deficit nelle relazioni emozionali e sociali, nel linguaggio, nel pensiero astratto, nel controllo interiore». (D. E. Schechter, New York 1973.)

Anche gli studi sperimentali hanno confermato l'esigenza di stimolazione ed eccitazione. E. Tauber e F. Koffler (1966) hanno rilevato nei neonati una reazione di nistagmo ottocinetico al movimento. «Wolff e White (1965) hanno osservato che bambini di tre, quattro giorni seguivano visualmente degli oggetti con movimenti oculari coniugati; Fantz (1958) descrisse fissazioni visuali pili prolungate su schemi visuali più complessi o più semplici durante le prime settimane di vita.» (D. E. Schechter, New York 1973.)14 Schechter aggiunge: «Naturalmente non possiamo conoscere la qualità dell'esperienza percettiva soggettiva, ma soltanto il fatto di una risposta motoria visuale discriminante. Soltanto in termini vaghi possiamo concludere che i neonati "preferiscono" schemi di stimolo complessi». (D. E. Schechter, New York 1973.) Gli esperimenti sulla privazione sensoria portati avanti all'università McGill'5 hanno dimostrato che l'eliminazione della maggior parte degli stimoli esterni, anche se accompagnata dalla soddisfazione di tutti i bisogni fisiologici (a eccezione del sesso) e ricompensata da un compenso- superiore-alla-media, provoca certi disturbi nella percezione: i soggetti mostravano irritabilità, inquietudine, instabilità emozionale a un grado tale che parecchi smisero di partecipare agli esperimenti soltanto dopo qualche ora, nonostante la perdita finanziaria in cui incorrevano.16

Dalle osservazioni della vita quotidiana emerge che l'organismo umano, come quello animale, ha bisogno di un minimo di eccitazione e di stimolazione, come di un minimo di riposo. Vediamo che l'uomo reagisce intensamente all'eccitazione e la ricerca. La lista degli stimoli che la generano è illimitata. La differenza fra persone - e culture - risiede soltanto nella forma assunta dai principali stimoli di eccitazione. Incidenti, omicidi, incendi, guerre, sesso sono fonti di eccitazione, come l'amore e il lavoro creativo. Per gli spettatori dell'epoca, il dramma greco era certamente eccitante quanto gli spettacoli sadici inscenati nel Colosseo romano, ma con una differenza molto importante, che però in genere è stata trascurata. Mi sembra il caso di discuterne brevemente, anche a costo di fare una breve digressione.

Nella letteratura psicologica e neurofisiologica il termine «stimolo» è stato quasi esclusivamente usato per denotare quel che io chiamo uno stimolo «semplice». Se la sua vita è minacciata, l'uomo ha una reazione semplice e immediata, quasi riflessa, perché radicata nella sua organizzazione neurofisiologica. Lo stesso vale per le altre esigenze fisiologiche come la fame e, in una certa misura, il sesso. La persona in causa «reagisce». ma non agisce; con questo voglio dire che non integra attivamente alcuna risposta oltre il minimo di attività necessaria per scappare, attaccare o eccitarsi sessualmente. Si potrebbe anche dire che in questo tipo di risposta il cervello e l'intero apparato fisiologico agiscono per l'uomo.

Tn genere, ci si dimentica che esiste un tipo di stimolo completamente diverso, quello cioè che slimola la persona ad essere attiva. Tale stimolo attivante potrebbe essere un romanzo, una poesia, un'idea, un paesaggio, la musica o la persona amata. Nessuno di questi stimoli produce una risposta semplice; ti invitano, per così dire, a reagire attivamente e con simpatia mettendoti in rapporto con loro; diventando attivamente interessato, vedendo e scoprendo nel tuo «oggetto» (che cessa quindi di essere un semplice «oggetto») aspetti sempre nuovi, acquisendo una maggiore consapevolezza e lucidità. Tu non resti semplicemente un oggetto passivo che subisce lo stimolo, un corpo che deve danzare alla sua melodia; tu esprimi invece le tue facoltà mettendoti in rapporto col mondo; diventi attivo e produttivo. Lo stimolo semplice produce una pulsione, da cui la persona è guidata; lo stimolo attivante produce una tensione, e la persona si tende attivamente verso uno scopo.

La differenza fra questi due tipi di stimoli e di reazioni ha conseguenze molto importanti. Se ripetuti al di là di un certo valore di soglia, gli stimoli semplici, del primo tipo, non vengono più registrati, e perdono il loro effetto stimolante. (Questo deriva dal principio neurofisiologico dell'economia, che elimina la consapevolezza degli stimoli scarsamente importanti proprio per la loro ripetitività.) Una stimolazione continuata richiede che gli stimoli aumentino di intensità, oppure cambino di contenuto; è necessario un certo elemento di novità.

Gli stimoli attivanti hanno un effetto diverso. Non restano «gli stessi» ; per via della risposta produttiva che determinano, sono sempre nuovi, cambiano di continuo: la persona stimolata li porta in vita e li cambia scoprendo in loro aspetti sempre nuo-vi. Fra stimolo e «stimolato» esiste un rapporto reciproco, non la relazione meccanica, a senso unico S-R.

Chiunque, in base alla propria esperienza, potrà facilmente confermare questa differenza. Si può leggere un dramma greco, o una poesia di Goethe, o un romanzo di Kafka, o un sermone di Maestro Eckhart, o un trattato di Paracelso, o frammenti dei filosofi pre-socratici, o gli scritti di Spinoza o di Marx, senza annoiarsi mai; ovviamente questi sono esempi personali, e chiunque può sostituirli con altri più vicini alla sua esperienza; questi stimoli sono sempre vivi; risvegliano il lettore, accrescendo la sua consapevolezza. D'altra parte, un romanzetto da quattro soldi di-venta noioso a una seconda lettura, e fa venir voglia di dormire.

La differenza fra stimoli semplici e stimoli attivanti è fondamentale per il problema dell'apprendimento. Se apprendimento significa penetrare oltre la superficie dei fenomeni fino alle loro radici, cioè alle loro cause - scavando dietro la vernice delle ideologie ingannevoli fino ai fatti nudi, per arrivare a una approssimazione della realtà - è un processo attivo esaltante, una condizione per la crescita umana. (Non mi riferisco soltanto all'apprendimento libresco, ma a tutte le scoperte di eventi naturali o personali compiute da un bambino o dal membro analfabeta di una tribù primitiva.) Se, invece, l'apprendimento è semplicemente acquisizione di informazioni mediata dal condizionamento, si tratta di uno stimolo semplice in cui la persona è influenzata dalla sua esigenza di lodi, di sicurezza, di successo, ecc.

La vita contemporanea nelle società industriali opera quasi completamente con stimoli semplici. Vengono sollecitate pulsioni come desiderio sessuale, avidità, sadismo, distruttività, narcisismo; questi stimoli sono mediati da cinema, televisione, radio, giornali, riviste e dalle esigenze di mercato. Complessivamente la pubblicità si basa sulla stimolazione di desideri prodotti socialmente. Il meccanismo è sempre lo stesso: stimolazione semplice-risposta immediata e passiva. Ecco il motivo per cui gli stimoli devono essere cambiati costantemente, per non perdere efficacia. Un'auto che sembra eccitante oggi diventerà una noia fra un anno o due: perciò dovrà essere cambiata. Un posto che si conosce bene diventa automaticamente noioso, così, per eccitarsi, bisogna per forza visitare posti diversi, il maggior numero possibile in un solo viaggio. All'interno di questa cornice, anche i partners sessuali devono essere cambiati per produrre eccitazione.

Ma a questo punto è necessario sottolineare che lo stimolo non è tutto. La poesia o l'uomo più stimolante falliranno completamente con una persona incapace di reagire perché impaurita, inibita, pigra, passiva. Per avere effetto lo stimolo attivante richiede un individuo «ricettivo»; «ricettivo» non nel senso di colto, ma perché capace di reagire umanamente. D'altra parte la persona che è completamente viva non ha bisogno di nessun particolare stimolo esterno per essere attivata; anzi, è lei a creare i propri stimoli. La differenza emerge chiaramente nei bambini. Fino a una certa età (intorno ai cinque anni) sono così attivi e produttivi da «crearsi» i propri stimoli. Da creare un mondo intero con pezzi di carta, legno, pietre, sedie, qualsiasi cosa trovino. Ma quando, dopo l'età di sei anni, diventano docili, nonspontanei, passivi, vogliono essere stimolati in modo da poter restare passivi e limitarsi a «re-agire». Vogliono giochi elaborati di cui si stancano rapidamente; in breve, si comportano già come i loro genitori, che si stancano di macchine, vestiti, luoghi da visitare, amanti.

C'è un'altra differenza importante fra stimoli semplici e attivanti. La persona guidata dallo stimolo semplice prova un miscuglio di sollievo, eccitazione, soddisfazione; quando è «soddisfatta» (dal latino satis-facere, «fare abbastanza»), ne «ha abbastanza». La stimolazione attivante, al contrario, non ha punto di saturazione; insomma non dà mai alla persona la sensazione di «averne abbastanza», tranne, naturalmente, quando interviene la normale stanchezza fisica.

Credo che si possa formulare una legge, basata su dati neurofisiologici e psicologici, per quanto riguarda la differenza fra i due tipi di stimoli: più uno stimolo è di natura passiva, più frequentemente deve essere cambiato in intensità e/o in genere; più è attivante, più a lungo conserva le sue qualità stimolanti, e inferiore è l'esigenza di cambiarne intensità e contenuto.

Mi sono occupato tanto estesamente della esigenza di stimolazione ed eccitazione dell'organismo, perché è uno dei molti fattori che generano distruttività e crudeltà. È molto più facile eccitarsi per ira, rabbia, crudeltà, o per la passione di distruggere, che per amore e interesse attivo e produttivo. Con il primo tipo di eccitamento l'individuo non ha bisogno di fare uno sforzo; non ha bisogno di avere pazienza e disciplina, di imparare, di concentrarsi, di sopportare la frustrazione, di esercitare il pensiero critico, di superare il proprio narcisismo e la propria avidità. Se la persona non è riuscita a crescere, gli stimoli semplici sono sempre a portata di mano, oppure possono essere prodotti facilmente. Di stimoli come incidenti, incendi, crimini o guerre si può leggere nei giornali, sentir parlare al giornale radio; osservare alla televisione e al cinema. La gente può produrli nella propria mente, inventandosi motivi per odiare, distruggere, controllare gli altri. (La forza di questo desiderio si concretizza nei milioni di dollari guadagnati dai mass media vendendo questo tipo di eccitazione.) In realtà, diverse coppie di coniugi stanno insieme proprio per questo: il matrimonio dà loro l'opportunità di sperimentare odio, liti, sadismo, sottomissione. Stanno insieme non a dispetto delle loro liti, ma proprio per quelle. Il comportamento masochistico, il piacere di soffrire o di sottomettersi, ha una delle sue radici nell'esigenza di eccitazione. Il masochista è afflitto dalla difficoltà di far scattare l'ec-citazione e di reagire prontamente agli stimoli normali; reagisce però se lo stimolo, per così dire, lo sopraffà, quando può abbandonarsi a una eccitazione che gli è imposta.

Noia e depressione croniche

Il problema della stimolazione è strettamente collegato con un fenomeno che ha una parte non indifferente nel provocare aggressione e distruttività: la noia. Da un punto di vista logico sarebbe stato più opportuno discutere della noia nel capitolo precedente, insieme con le altre cause di aggressione, ma sarebbe stato poco pratico, perché la discussione sulla stimolazione è una premessa necessaria per la comprensione della noia.

Rispetto alla stimolazione e alla noia possiamo distinguere fra tre tipi di persona: (I) la persona che è capace di rispondere produttivamente a stimoli attivanti non si annoia; (2) la persona che ha costantemente bisogno di stimoli «puri e semplici» è afflitta da noia cronica, ma siccome ha una compensazione per la sua noia, non ne è consapevole; (3) la persona che fallisce nel tentativo di ottenere eccitazione con ogni tipo di stimolazione normale è molto malata; talvolta è intensamente consapevole del suo stato mentale; talvolta non sa di soffrire. Questo tipo di noia è fondamentalmente diverso dal secondo, in cui la noia è usata in senso comportamentale; cioè la persona si annoia quando la stimolazione è insufficiente, ma è capace di reagire quando esiste una compensazione alla sua noia. Nel terzo caso, invece, non può esservi compensazione. Stiamo parlando della noia in un senso dinamico, caratterologico, che potrebbe essere descritto come uno stato di depressione cronica. Ma la differenza fra noia cronica compensata e non-compensata è solo quantitativa. In entrambi i casi, la persona è carente sotto l'aspetto produttivo; nel primo, può curare il sintomo - anche se non la causa - con stimoli adeguati; nel secondo, persino il sintomo è incurabile.

La differenza è visibile anche nell'uso del termine «annoiato». Se qualcuno dice: «sono depresso», si riferisce in genere a uno stato mentale. Se qualcuno dice: «sono annoiato», in genere vuol dire qualcosa a proposito del mondo esterno, che non gli trasmette stimoli interessanti o divertenti. Ma quando parliamo di un «tipo noioso», ci riferiamo alla persona stessa, al suo carattere. Non intendiamo dire che oggi è noioso perché non ci ha raccontato nessuna storia interessante; quando parliamo di un tipo noioso, intendiamo dire che è noioso come persona. In lui c'è qualcosa di morto, di spento, di non-interessante. Molti sarebbero pronti a riconoscere di essere annoiati; ben pochi ammetterebbero di essere noiosi.

La noia cronica - compensata e non-compensata - costituisce uno dei principali fenomeni psicopatologici della contemporanea società «tecnotronica», sebbene soltanto recentemente ne sia stata parzialmente riconosciuta l'importanza.17

Prima di inoltrarmi nella discussione sulla noia depressiva (in senso dinamico), mi sembrano opportune alcune osservazioni sulla noia in senso comportamentale. Le persone in grado di rispondere produttivamente a «stimoli attivanti» praticamente non si annoiano mai, ma nella società cibernetica costituiscono un'eccezione. La grande maggioranza, se non soffre delle forme più gravi, è certamente afflitta da una forma più lieve di patologia: insufficiente produttività interiore. Si annoia, insomma, a meno che non riesca a darsi stimoli sempre diversi, semplici, non attivanti.

Probabilmente sono diversi i motivi che portano in generale a non considerare patologica la noia cronica, compensata. Forse il principale è che nella società industriale contemporanea quasi tutti sono annoiati, e una patologia condivisa - la «patologia della normalità» - non viene sentita come tale. Per di più la noia «normale» generalmente non è conscia. La maggioranza riesce a trovare una compensazione partecipando a tutta una serie di «attività» che le impediscono di sentirsi consciamente annoiata. Quando la noia minaccia di diventare conscia dopo otto ore al giorno passate a guadagnarsi da vivere, si evita il pericolo con i numerosi mezzi che le impediscono di affiorare: bere, guardare la televisione, fare una cavalcata, frequentare parties, impegnarsi in attività sessuali e, secondo la moda più recente, prendere droghe. Alla fine il desiderio naturale di dormire ha il sopravvento e, se la noia non è mai stata captata dalla coscienza, la giornata si conclude positivamente. Si potrebbe affermare che uno dei principali obiettivi umani, oggi, è proprio «fuggire la noia». Soltanto conoscendo l'intensità delle reazioni provocate da una noia cui non è dato alcun sollievo, si può avere un'idea della potenza degli impulsi che essa scatena.

Di questo problema la classe operaia è molto più consapevole che non le classi medie e superiori, come è ampiamente dimostrato dalle richieste portate avanti dai lavoratori durante i rinnovi contrattuali. Le «tute blu» non conoscono la soddisfazione genuina sperimentata da molte persone di livello sociale superiore, che, attraverso il lavoro, possono, almeno in una certa misura, impegnarsi in pianificazioni creative, esercitare facoltà immaginative, intellettuali e organizzative. Infatti negli ultimi anni, oltre a portare avanti le tradizionali rivendicazioni salariali, le «tute blu» sono andate sempre più lamentandosi della noia penosa che li affligge durante le ore di lavoro. In certi casi l'industria tenta di porre rimedio con quel che è spesso chiamato «job enrichment», arricchimento del lavoro, che consiste nel far fare all'operaio più di una operazione, consentendogli di pianificare e organizzare la sua attività come crede, generalmente responsabilizzandolo. Se da un lato questa risposta sembra an-dare nella direzione giusta, dall'altro si rivela molto limitata qualora si consideri lo spirito complessivo della nostra cultura. Spesso si è ipotizzato che il vero problema non sia tanto quello di rendere il lavoro più interessante, ma di ridurlo, in modo da consentire all'uomo di sviluppare le sue capacità e i suoi interessi nel tempo libero. Chi propone questa idea sembra dimenticare che anche il tempo libero è manipolato dall'industria del consumo, ed è fondamentalmente noioso quanto il lavoro, anche se meno consapevolmente. Il lavoro, lo scambio dell'uomo con la natura, è una parte così fondamentale della esistenza umana, che soltanto quando esso smetterà di essere alienato, potrà essere produttivo anche il tempo libero. Comunque non si tratta soltanto di modificare la natura del lavoro, ma anche di operare un cambiamento complessivo sociale e politico in una ben precisa direzione: subordinare l'economia alle esigenze reali dell'uomo.

Dal quadro finora tracciato dei due tipi di noia non-depressiva sembrerebbe che la differenza investa soltanto la qualità degli stimoli; attivanti o no, entrambi risolvono la noia. Questo quadro, però, è semplicistico; la differenza è molto più profonda, e complica considerevolmente quella che sembrerebbe una formulazione chiara e netta. La noia superata con stimoli attivanti è veramente cancellata o, per meglio dire, non è mai esistita, perché la persona idealmente produttiva non è mai annoiata e non ha difficoltà a trovare gli stimoli adeguati. La persona nonproduttiva, intimamente passiva, invece, rimane annoiata anche quando è temporaneamente alleviata la sua noia conscia, manifesta.

Perché? A quanto pare, la risposta è questa: alleviando superficialmente la noia, la persona nel suo complesso, particolarmente i suoi sentimenti più profondi, la sua immaginazione, la sua ragione, in breve, tutte le sue facoltà e potenzialità psichiche essenziali restano intatti; non emergono alla luce; gli strumenti per-compensare-la-noia sono come un cibo voluminoso con scarso valore nutritivo. A un livello più profondo, la persona continua a sentirsi «vuota» e spenta. Con l'eccitazione temporanea, «brivido», «divertimento», liquori o sesso, «anestetizza» questa sensazione sgradevole, ma resta annoiata inconsciamente.

Un avvocato molto indaffarato, che spesso lavorava dodici ore al giorno e anche più, affermando di essere completamente assorbito dalla sua attività e di non sentirsi mai annoiato, fece questo sogno:

Mi vedo con le catene ai polsi, insieme ad altri detenuti, in Georgia, dove sono stato estradato dalla mia città nell'Est per qualche delitto sconosciuto. Con mio stupore, posso facilmente liberarmi delle catene, ma devo continuare a fare il lavoro prescritto, che consiste nel trascinare sacchi di sabbia da un carro a un altro molto lontano, e poi nel riportare gli stessi sacchi al primo carro. Provo un senso di intensa pena mentale e di depressione, e mi sveglio spaventato, come emergendo da un incubo, sollevato che si tratti soltanto di un sogno.

Mentre durante le prime settimane di lavoro analitico era allegro e sosteneva continuamente di essere soddisfatto della propria vita, rimase sconvolto dal sogno, e cominciò a esprimere idee diverse sul suo lavoro. Senza entrare nei particolari, voglio soltanto sottolineare questo elemento: cominciò a parlare del fatto che la sua attività non aveva senso, che era essenzialmente monotona, che non aveva nessuno scopo tranne quello di far quattrini e che, per lui, non era un motivo sufficiente di vita; e poi, nonostante l'apparente varietà, i problemi che si trovava a risolvere erano fondamentalmente tutti uguali, oppure potevano essere sbrigati con un numero limitato di metodi ripetitivi.

Due settimane dopo ebbe questo sogno: «Mi sono visto seduto alla mia scrivania in ufficio, ma mi sentivo come uno zombie. Sento quel che succede e vedo quel che gli altri fanno, ma ho la sensazione di essere morto, che nulla più mi riguardi».

Le associazioni nate da questo sogno portarono alla luce nuovo materiale sulla sua sensazione di sentirsi non-vivo e depresso. Descrisse un terzo sogno: «L'edificio in cui si trova il mio studio è in fiamme, ma nessuno sa perché sia successo. Mi sento impotente a fare qualcosa».

È inutile dire che quest'ultimo sogno esprime il suo odio profondo per lo studio legale di cui è capo: ne era stato completamente inconsapevole perché era una cosa «assurda».18

H. D. Esler ha dato un altro esempio di noia inconscia, descrivendo le vicende di un suo paziente: uno studente di bell'aspetto, con diverse girl-friends, che aveva grande successo in quest'ambito della sua vita. Anche se ripeteva che la «vita è una gran cosa», certe volte si sentiva abbastanza depresso. Ipnotizzato durante il trattamento, vide «un posto nero, squallido, con molte maschere». Quando gli fu domandato dove fosse quel posto nero, rispose che si trovava dentro di lui. Che tutto era squallido, squallido, squallido; che le maschere rappresentavano i diversi ruoli da lui assunti per prendere in giro la gente, per convincerla che lui stava benissimo. Cominciò a esprimere i suoi sentimenti verso la vita: «È una sensazione di nullità». Quando il terapeuta gli domandò se anche il sesso era squallido, rispose: «Si, ma meno delle altre cose». Dichiarò che «i tre bambini avuti da un matrimonio precedente lo annoiavano, anche se si sentiva più vicino a loro che agli altri esseri umani; che nei suoi nove anni di matrimonio aveva tirato avanti come un automa, tro-vando temporaneo sollievo nel bere». Descrisse suo padre come «un uomo squallido, solo, ambizioso, che non ebbe mai un amico in vita sua». Il terapeuta gli domandò se si sentiva solo con suo figlio; la risposta fu: «Ho tentato insistentemente di entrare in contatto con lui, ma non ci sono riuscito». Aveva voglia di morire? gli fu poi chiesto, e il paziente rispose: «Si, perché no?». Ma rispose si anche quando gli fu chiesto se voleva vivere. Infine ebbe un sogno in cui «c'era il sole, ed era caldo e c'era l'erba». Il terapeuta gli domandò se c'erano delle persone, e lui rispose: «No, non ce n'erano, ma esisteva la possibilità che arrivassero». Quando si risvegliò dalla trance ipnotica, fu molto sorpreso delle cose che aveva detto.19

Mentre la sensazione di noia e di depressione diventava conscia solo sporadicamente, soltanto in stato ipnotico affiorò del tutto. Con i suoi exploits sessuali attivi, sempre diversi, il paziente riusciva a trovare compensazione alla noia, come l'avvocato attraverso il lavoro, ma la compensazione si limitava prevalentemente al livello conscio. Permetteva al paziente di continuare a reprimere la noia, e le cose potevano andare avanti così, finché funzionava la compensazione. Ma la compensazione non cambia il fatto che, a un livello più profondo di realtà interiore, la noia non è rimossa e nemmeno attenuata.

A quanto pare, come compensazione della noia, il consumo offerto dai canali normali della nostra cultura non adempie adeguatamente la sua funzione; perciò si ricercano altri strumenti. L'alcool è uno degli espedienti cui ricorre l'uomo per aiutarsi a dimenticare la noia. Negli ultimi anni un nuovo fenomeno ha messo in luce l'intensità della noia fra i membri delle classi medie. Mi riferisco alla pratica del sesso di gruppo fra gli «swingers». È stato calcolato che esistono negli Stati Uniti da uno a due milioni di individui, prevalentemente delle classi medie, conservatori politicamente e religiosamente, il cui interesse principale nella vita è l'attività sessuale condivisa con varie coppie, purché non si tratti della rispettiva moglie o del rispettivo marito. La condizione principale è che non si sviluppi alcun legame emo-zionale e che si cambi costantemente partner. Secondo la descrizione dei ricercatori che hanno studiato queste persone (G. T. Bartell, New York 1971), esse spiegano che, prima di cominciare col sesso di gruppo, erano talmente annoiate da non trovare sollievo nemmeno in diverse ore di spettacoli televisivi. Il rapporto personale fra moglie e marito era talmente scarnificato che non esisteva più nulla su cui comunicare. Ora la noia è attenuata da stimoli sessuali che variano costantemente, e, a sentir loro, persino il matrimonio è «migliorato», perché adesso, se non altro, hanno un argomento di conversazione, e cioè le rispettive esperienze sessuali con altri uomini e donne. «Swinging» è una versione un po' più elaborata di quel che era un tempo la semplice promiscuità coniugale, un fenomeno, dunque, tutt'altro che inedito. Nuova, forse, è la sistematica esclusione degli affetti, e la ricetta che ne è stata ricavata: il sesso di gruppo come strumento per «salvare un matrimonio stanco».

Un mezzo più drastico per attenuare la noia è l'uso delle psicodroghe, diffuso fra i ragazzi sotto i vent'anni e anche fra i gruppi di età superiore, particolarmente fra le persone socialmente non integrate, prive di un lavoro interessante. Diversi consumatori di droga, soprattutto i giovani che hanno la sincera esigenza di una esperienza esistenziale più profonda e genuina - infatti, molti si distinguono proprio per la loro affermazione della vita, onestà, spirito di avventura, indipendenza - sostengono che la droga li «tira su di giri», allarga il loro orizzonte d'esperienza. Non contesto questa affermazione. Ma l'uso della droga non cambia il carattere, e quindi non elimina le radici permanenti della noia. Non incoraggia un livello superiore di sviluppo che può essere raggiunto soltanto con un lavoro interiore paziente, con uno sforzo intenso, una maggiore comprensione, imparando a concentrarsi e a disciplinarsi. Le droghe non servono a un'«illuminazione immediata».

Violenza e distruttività non sono certo lo sbocco meno pericoloso di una noia non sufficientemente compensata. Più frequentemente, questo sbocco assume la forma passiva di un'attrazione marcata per resoconti di crimini, incidenti fatali e altre scene di spargimenti di sangue e crudeltà, che stampa, radio e televisione somministrano regolarmente. La gente ne è avida perché questi resoconti sono il mezzo più veloce per produrre eccitazione, e quindi per alleviare la noia senza un'attività interiore. Generalmente, quando si discute sugli effetti della descrizione della violenza, si trascura il fatto che la noia è una condizione necessaria perché la violenza susciti interesse. Eppure c'è solo un breve passo fra il godimento passivo della violenza e della crudeltà e i vari modi di produrre attivamente l'eccitazione con un comportamento sadico o distruttivo; la differenza fra il piacere «innocente» di mettere in imbarazzo o di «punzecchiare» qualcuno, e di far parte di una folla scatenata, pronta a «linciare», è solo quantitativa. In ambedue i casi, è la persona annoiata a produrre la fonte di eccitazione, quando non le pervenga già beli 'e confezionata; dunque, spesso organizza un «mini-Colosseo» in cui ricrea i suoi equivalenti su-piccola-scala delle crudeltà su-larga-scala inscenate nell'anfiteatro romano. Questo tipo di individuo non ha interesse per niente, e i suoi contatti sono soltanto superficiali. Ogni persona e cosa lo lasciano indifferente. È affettivamente congelato, non sente gioia, ma nemmeno dispiacere o pena. Non sente niente. Il mondo è grigio, il cielo non è mai azzurro; non ha il gusto di vivere e spesso preferirebbe essere morto. Talvolta è acutamente e penosamente consapevole di questo stato mentale, più spesso, però, non lo è affatto.

Questo tipo di patologia presenta alcuni problemi diagnostici. Per i casi più gravi diversi psichiatri potrebbero formulare la diagnosi di depressione psicotica endogena, che, però, sembrerebbe discutibile, perché mancano alcune caratteristiche della depressione endogena. Queste persone non tendono ad auto-accusarsi, a sentirsi colpevoli, a preoccuparsi del loro fallimento, né hanno la tipica espressione facciale dei pazienti melanconici.20

A prescindere dalla forma più grave di depressione-noia, esiste un quadro clinico, molto più frequente oggi, per il quale la diagnosi più ovvia sarebbe quella di «depressione nevrotica» cronica. (E. Bleuler, Heidelberg 1969.) In questo quadro cli-nico, oggi così frequente, sono inconsce non solo le cause, ma anche la stessa depressione; queste persone spesso non si rendono conto di essere depresse, anche se il loro stato mentale è facilmente dimostrabile. Le espressioni «depressione mascherata» o «depressione sorridente», introdotte recentemente, sembrano caratterizzare efficacemente il quadro. Il problema diagnostico è complicato ulteriormente da quelle caratteristiche del quadro clinico che si prestano a una diagnosi di carattere «schizoide».

Non approfondirò ulteriormente il problema diagnostico perché non sembra contribuire a una migliore comprensione di queste persone. Più avanti illustrerò le difficoltà di una diagnosi corretta. Forse le persone che soffrono di noia cronica non-compensata presentano un miscuglio particolare di elementi depressi e schizofrenici con gradi varianti di malignità. Ma quel che ci interessa per il nostro scopo non è tanto l'etichetta diagnostica, quanto il fatto che fra tali persone troviamo forme estreme di distruttività. Frequentemente non hanno affatto un'aria annoiata o depressa: sanno adattarsi al loro ambiente e spesso sembrano felici; certe sono evidentemente tanto ben adattate da essere lodate come modelli da genitori, insegnanti, preti. Altre, invece, si impongono all'attenzione delle autorità con tutta una gamma di atti delittuosi e vengono giudicate «asociali» o «criminali», anche se non annoiate o depresse. In genere tendono a reprimere la consapevolezza di essere annoiate e preferiscono sembrare perfettamente normali. Se vanno da uno psicoterapeuta, raccontano che hanno difficoltà a scegliersi un lavoro, o a studiare, ma in genere tendono a offrire un quadro il più normale possibile. Solo un osservatore abile e molto attento può individuare la malattia che si nasconde dietro la superficie calma, cinica.

Questa è stata esattamente l'esperienza di H. D. Esler, che ha individuato fra molti adolescenti di una scuola professionale maschile quella che lui definisce «depressione inconscia».J1 Riporterò qui di seguito alcuni esempi per dimostrare che essa è una delle fonti di atti distruttivi che sembrano, in parecchi casi, l'unica forma di sollievo a questa condizione.

Una ragazza internata in un ospedale psichiatrico di stato si tagliò i polsi, dicendo, per spiegare il suo atto, che voleva verificare se avesse sangue nelle vene. Questa ragazza si sentiva non- umaira, incapace di una reazione per chiunque. Credeva di non poter esprimere, e nemmeno sentire, alcun affetto. (La schizofrenia fu esclusa dopo un accurato esame clinico.) La sua mancanza di interessi e la sua incapacità di reagire erano così abissali che vedere il proprio sangue era per lei l'unica possibilità per convincersi di essere viva e umana.

Uno dei ragazzi della scuola professionale, per esempio, buttò dei sassi sul tetto del suo garage e li fece scivolare giù, tentando di prendere al volo ciascun sasso con la testa. La sua spiegazione fu che questo era l'unico modo in cui potesse sentire qualcosa. Fece cinque tentativi di suicidio, tagliandosi in parti del corpo particolarmente dolorose e sempre informandone le guardie, in modo che potessero salvarlo. Spiegò che la sofferenza fisica gli procurava finalmente qualche sensazione.

Un altro adolescente confessò di camminare per le strade della città «con un coltello infilato nella manica, per punzecchiare i passanti», e di provare gusto a osservare la sofferenza sulla faccia della vittima. Portava dei cani nei vicoli e li uccideva, «soltanto per divertimento». Una volta esclamò vivacemente: «Adesso penso che certo quei cani sentivano qualcosa quando gli infilavo dentro il coltello». Lo stesso ragazzo confessò che, mentre faceva legna durante un'escursione nei boschi con un insegnante e sua moglie, vedendo quest'ultima da sola, provò un terribile impulso di piantarle l'ascia nella testa. Fortunatamente, notando la sua strana espressione, la donna reagì, chiedendo l'ascia. Questo ragazzo di diciassette anni aveva una faccia da bambino; quando un interno lo incontrò per la consulenza professionale, lo trovò simpatico, e non riusciva a capire perché mai fosse finito in un simile istituto. La verità era che quel fascino era costruito e molto superficiale.

Di casi come questi se ne trovano oggi in tutto il mondo occidentale, e di tanto in tanto se ne parla anche sui giornali. Il seguente dispaccio UPI e AP da Brisbane, Arizona, 1972, è un esempio tipico :

Un ragazzo di 16 anni, ottimo studente e membro del coro, è stato internato oggi in un istituto correzionale dopo aver informato la polizia di aver sparato ai suoi genitori perché voleva sapere che cosa si prova a uccidere qualcuno.

I corpi di Joseph Roth, anni 60, e di sua moglie Gertrude, anni 57, sono stati trovati dal vicesceriffo nella loro casa, a Douglas, il giorno del Ringraziamento. Le autorità affermano che entrambi sono stati colpiù al petto mercoledì notte dai proiettili di un fucile da caccia. Roth era un istruttore di mezzi audio-visivi alla scuola superiore e la signora era insegnante alle medie.

Richard Riley, il procuratore della Contea di Cochise, disse che Bernard J. Roth - «il ragazzo più simpatico di questo mondo» - si rivolse alla polizia giovedì e fu composto e gentile durante l'interrogatorio.

Riley riferisce una frase del ragazzo: «Quella gente (i suoi genitori) sta invecchiando. Io non ce l'ho con loro. Non provo alcuna ostilità"».

«Disse che l'idea di uccidere i genitori gli era venuta già da parecchio tempo» spiegò Riley. «Voleva sapere cosa si prova ad ammazzare qualcuno».22

A quanto pare, la motivazione di questi omicidi non è l'odio, ma, come nei casi riportati in precedenza, un senso insopportabile di noia e di impotenza, il bisogno di fare l'esperienza che esiste qualcuno in grado di reagire, qualcuno su cui lasciare una traccia, qualche evento che metterà fine alla monotonia dell'esperienza quotidiana. Uccidere è un modo per sentire di esìstere e di produrre un effetto su un altro essere.

In questa discussione ci siamo limitati agli aspetti psicologici della noia. Questo non esclude l'eventuale contributo di anomalie neurofisiologiche, ma, come ha già sottolineato Bleuler, esse potrebbero avere soltanto un ruolo secondario, mentre le condizioni decisive risiedono nella complessiva situazione ambientale. Secondo me, è molto probabile che persino i casi acuti di noia- depressione sarebbero meno frequenti e meno intensi, anche all'interno della stessa costellazione familiare, se nella società predominasse un'atmosfera di speranza e di amore per la vita. Ma negli ultimi decenni è andata rafforzandosi la tendenza opposta, fornendo così un terreno fertile per lo sviluppo di stati individuali depressivi.

Struttura del carattere

Esiste un'esigenza di tipo diverso, radicata esclusivamente nella situazione umana: l'esigenza dello sviluppo di una struttura del carattere, connessa col fenomeno descritto in precedenza, e cioè l'importanza decrescente dell'equipaggiamento istintivo nell'uomo. Un comportamento efficace presuppone la capacità di agire immediatamente, e cioè senza eccessive dilazioni provocate dal dubbio, e in un modo relativamente integrato. È precisamente il dilemma illustrato da Kortlandt (vedi capitolo VI) rispetto agli scimpanzé quando ne descrive l'indecisione, l'esitazione e il comportamento piuttosto poco efficace. (A. Kortlandt, 1962.)

Sembra plausibile l'ipotesi che l'uomo, essendo meno determinato istintivamente dello scimpanzé, sarebbe stato un fallimento biologico se non avesse sviluppato un sostituto per gli istinti di cui è privo. Questo sostituto, dunque, doveva svolgere la funzione degli istinti: mettere l'uomo in grado di agire come se fosse motivato dagli istinti. Questo sostituto è il carattere umano, la struttura specifica in cui si organizza l'energia umana nel perseguire determinati obiettivi, e che motiva il comportamento secondo i suoi fini dominanti: una persona agisce «istintivamente», diciamo, e cioè in armonia col suo carattere. Per usare la frase di Eraclito, il carattere è il destino dell'uomo. L'avaro non sta a pensare se è il caso di risparmiare o di spendere; è spinto a risparmiare e ad accumulare; il carattere sadico-sfruttatore è dominato dalla passione di sfruttare; il carattere sadico dalla passione di controllare; il carattere che ama e produce non può fare a meno di ricercare l'amore, di condividerlo con gli altri. Queste pulsioni e tensioni condizionate-dal-carattere sono talmente forti e incontestabili, che la persona interessata le sente semplicemente come una reazione «naturale», e ha difficoltà a credere che esistano altre persone la cui natura è completamente differente. Quando proprio non può evitare di prenderne atto, preferisce pensare che gli altri soffrano di qualche deformazione e siano devianti dalla natura umana. Chiunque abbia una certa sensibilità nel capire la gente (naturalmente inquadrare se stessi è molto più difficile) intuisce se una persona ha un carattere affettuoso o distruttivo o sadico; dietro lo schermo del comportamento palese, intravede dei tratti costanti, e sarà capace di avvertire l'insincerità di un carattere distruttivo che si comporta come se fosse una persona ricca d'amore.23

A questo punto si pone l'interrogativo: perché, a differenza dello scimpanzé, la specie uomo è riuscita a sviluppare un carattere? La risposta potrà venire da alcune considerazioni biologiche.

Fin dall'inizio i gruppi umani sono vissuti in circostanze ambientali molto diverse, sia perché erano sparsi in diverse aree del mondo, sia per i fondamentali cambiamenti di clima e di vegetazione che si sono verificati all'interno della stessa area. Da quando l'Homo è emerso, è stato relativamente scarso l'adattamento alle differenze trasmesso attraverso i cambiamenti genetici, anche se, comunque, si è realizzato in una certa misura. Ma più Y Homo si sviluppava, meno l'adattamento era originato da cambiamenti genetici e, negli ultimi quarantamila anni, tali cambiamenti sono stati praticamente eguali a zero. Eppure queste diverse situazioni ambientali hanno costretto ciascun gruppo ad adattare il proprio comportamento alla rispettiva situazione, non solo con l'apprendimento, ma sviluppando un «carattere sociale». Il concetto di carattere sociale si basa sulla considerazione che ciascuna forma di società (o di classe sociale) ha bisogno di usare l'energia umana secondo la direzione specifica necessaria per il funzionamento di quella particolare società. Perché la società funzioni adeguatamente, è necessario che i suoi membri abbiano voglia di fare quel che debbono fare. Il processo di trasformazione dell'energia psichica generale in energia psicosociale specifica è medialo dal carattere sociale. (E. Fromm, New York 1932, New York 1941; New York 1947; New York 1970.) I mezzi attraverso i quali si forma il carattere sociale sono essenzialmente culturali. La società trasmette ai giovani i suoi valori, prescrizioni, comandamenti, ecc., attraverso la mediazione dei genitori. Non avendo linguaggio, gli scimpanzé non possono trasmettere simboli, valori, idee; in altre parole, non presentano le condizioni per la formazione del carattere. In un senso più che elementare, il carattere è un fenomeno umano; soltanto l'uomo riuscì a creare un sostituto per il suo adattamento istintivo perduto.

L'acquisizione del carattere fu un elemento molto importante e necessario nel processo della sopravvivenza umana, ma presentava anche molti svantaggi, e persino dei pericoli. Nella misura in cui è plasmato dalle tradizioni e motiva l'uomo senza fare appello alla ragione, il carattere spesso non si adatta a nuove condizioni, oppure talvolta è persino in diretta contraddizione con esse. Per esempio, concetti come l'assoluta sovranità dello stato, radicati in un vecchio tipo di carattere sociale, sono pericolosi per la sopravvivenza dell'uomo nell'era atomica.

Il concetto di carattere è fondamentale per capire le manifestazioni dell'aggressione maligna. In genere le passioni distruttive e sadiche sono organizzate nel sistema caratteriale della persona. Nel sadico, per esempio, la pulsione sadica è parte dominante della sua struttura caratteriale, e lo motiva a comportarsi così, con il solo limite dell'interesse per l'auto-conservazione. In una tale persona, l'impulso sadico è costantemente attivo, e a- spetta soltanto la situazione adatta e una razionalizzazione adeguata per saltare fuori. Il sadico corrisponde quasi completamente al modello idraulico di Lorenz (vedi capitolo 1), proprio perché il sadismo radicato-nel-carattere è un impulso che scorre spontaneamente, cercando l'occasione di esprimersi e creandola, quando non è a portata di mano, con il «comportamento appetitivo». La differenza decisiva è che la fonte della passione sadica risiede nel carattere, e non in un'area neurale programmata filogeneticamente; perciò non è comune a lutti gli uomini, ma solo a quelli che condividono lo stesso carattere. Studieremo in seguito alcuni esempi di carattere sadico e distruttivo e le condizioni necessarie per la loro formazione.

Condizioni per lo sviluppo delle passioni-radicate-nel-carattere

Nel corso della discussione sulle esigenze esistenziali, abbiamo visto che vari sono i modi per soddisfarle. Il bisogno di un oggetto di devozione può trovare risposta nella devozione a Dio, all'amore, alla verità, o nella venerazione di idoli distruttivi. Il bisogno di rapporti può trovare soddisfazione nell'amore e nella generosità, ma anche nella dipendenza, nel sadismo, nel masochismo, nella distruttività. Il bisogno di unità, di radici, può essere soddisfatto con la passione per la solidarietà, la fraternità, l'amore, l'esperienza mistica, o con l'ebbrezza, l'uso della droga, la spersonalizzazione. Il bisogno di efficienza può estrinsecarsi in amore, lavoro produttivo, o in sadismo e distruttività. Il bisogno di stimolazione ed eccitazione può portare a un interesse produttivo per l'uomo, la natura, l'arte. le idee, oppure alla ri-cerca avida di piaceri sempre nuovi.

Quali sono le condizioni per lo sviluppo di passioni radicate- nel-carattere?

Dobbiamo considerare in primo luogo che queste passioni non compaiono come singole unità, ma come sindromi. Amore, solidarietà, giustizia, ragione sono correlati, manifestazioni dello stesso orientamento produttivo che chiamerò «sindrome-che-incoraggia-la-vita». D'altra parte, anche sadomasochismo, distruttività, avidità, narcisismo, incestuosità fanno parte dello stesso quadro e sono radicati nello stesso orientamento di base: «sindrome-che- ostacola-la-vita». Laddove si individua un elemento della sindrome, esistono anche gli altri in vario grado, ma questo non si-gnifica che un individuo sia dominato da una sindrome o dall'altra. In realtà, i casi del genere sono eccezionali; la persona media è un miscuglio di entrambe le sindromi; quel che conta per il suo comportamento e per le possibilità di cambiamento è proprio la forza di ciascuna sindrome.

Condizioni neurofisiologiche

Per quanto riguarda le condizioni neurofisiologiche necessarie per lo sviluppo dei due rispettivi tipi di passione, dobbiamo partire dal fatto che l'uomo è non-finito e «non-completato». (L. Ei- seley, New York 1971.) Non solo il suo cervello non è completamente sviluppato quando nasce, ma il suo stato di squilibrio lo porta a essere un processo aperto, per il quale non esiste soluzione definitiva.

Privato com'è dell'aiuto istintuale ed equipaggiato soltanto di quell'«erbaccia ingannevole» che è la ragione, non riceve alcun aiuto dal suo corredo neurofisiologico? Questo presupposto sembra trascurare un punto importante. Il suo cervello, così superiore a quello dei primati non solo per la dimensione ma anche per la qualità e la struttura dei neuroni, ha la capacità di riconoscere quali tipi di obiettivi favoriscono la sua salute e la sua crescita, fisicamente e psichicamente. Può proporre obiettivi che portano alla realizzazione di esigenze reali, razionali, e l'uomo può organizzare la sua società in questo senso. L'uomo non è soltanto non-finito, incompleto, gravato di contraddizioni; è anche un essere alla ricerca attiva del suo sviluppo ottimale, sebbene spesso tale ricerca sia condannata al fallimento perché le condizioni esterne sono troppo sfavorevoli.

Il presupposto che l'uomo sia alla ricerca attiva del suo sviluppo ottimale è confermato dai dati neurofisiologici. Uno studioso della statura di C. J. Herrick ha scritto:

La capacità di uri auto-sviluppo diretto con intelligenza conferisce all'uomo la capacità di determinare lo schema della sua cultura, plasmando così

Il corso dell'evoluzione umana nelle direzioni da lui scelte. Questa capacità, che nessun altro animale possiede, è la caratteristica più fondamentale dell'uomo, e forse il fatto più significativo noto alla scienza. (C. J. Herrick, Chicago 1928.)

Rispetto allo stesso problema, Livingston fa alcune osservazioni molto pertinenti:

E stato appurato al di là di ogni possibile dubbio che vari livelli organizzativi del sistema nervoso sono correlati e interdipendenti. In un certo modo, attraverso mezzi che sono tuttora misteriosi, il comportamento intenzionale organizzato a ciascuno di questi diversi livelli di funzione integrativa si esprime con una sequenza collegata di scopi complessivi, che rappresentano qualche tipo di calcolo finale, assennato, fra funzioni rivali. Gli scopi dell'intero organismo si manifestano chiaramente e sono continuamente alimentati secondo qualche punto di vista interno integrato. (R. B. Livingston, New York 1967 a. Il corsivo è mio.)

Discutendo il problema delle esigenze che trascendono quelle fisiologiche primarie, Livingston afferma:

«Attraverso tecniche fisico-chimiche si possono identificare, a livello molecolare, alcuni sistemi di ricerca di obiettivi. Altri sistemi di ricerca di obiettivi a livello del circuito cerebrale possono essere individuati con tecniche neuro-fisiologiche. A ciascun livello, parti di questi sistemi si preoccupano degli appetiti e delle soddisfazioni che governano il comportamento. Tutti questi sistemi di ricerca di obiettivi hanno origine da, e sono intrinseci a, materiali protoplasmici. Molti di questi sistemi sono specializzati in un certo senso e sono situati in particolari sistemi nervosi ed endocrini. Gli organismi elaborati dal punto di vista evolutivo possiedono appetiti e soddisfazioni non solo per quanto riguarda i bisogni vegetativi; non semplicemente per la collaborazione forzata necessaria all'unione sessuale, per allevare i piccoli, salvaguardare cibo, famiglia e territorio; non soltanto per i comportamenti adattativi essenziali per affrontare con successo le vicissitudini dei cambiamenti ambientali; ma anche per energie extra, c sforzi e tensioni, le stravaganze che vanno al di là della semplice sopravvivenza.» (R. B. Livingston, New York 1967. Il corsivo è mio.)

Così prosegue:

«Il cervello è un prodotto dell'evoluzione, proprio come i denti e le unghie; ma dal cervello possiamo aspettarci molto di più per le sue capacità di adattamento costruttivo. Come obiettivo a largo raggio i neurologi potranno porsi la comprensione delle potenzialità più ampie dell'umanità, per aiutarla a diventare il più possibile consapevole di sé e per illuminare le sue scelte più nobili. Ê soprattutto il cervello, con le sue capacità di memoria, apprendimento, comunicazione, immaginazione, creatività, e il potere di auto-consapevolezza, a distinguere l'umanità.» (R. B. Livingston, New York 1967.)

Livingston sostiene che collaborazione, fede, fiducia reciproca, altruismo, sono incorporati nel tessuto del sistema nervoso, attivati dalle soddisfazioni interiori connesse.24 Le soddisfazioni interiori non sono assolutamente limitate agli appetiti. Secondo Livingston :

«Le gratificazioni sono connesse anche alle soddisfazioni positive originate da uno stato di salute vigoroso, riposato, ottimista; al piacere che accompagna sia i valori del corredo genetico, sia quelli acquisiti socialmente; gioie, sentimenti solitari e condivisi di eccitazione piacevole, originati dall'essere esposti alla novità e dal ricercare la novità. La gratificazione ha origine dalla soddisfazione della curiosità e dal piacere di indagare, dall'acquisizione di gradi sempre più ampi di libertà individuale e collettiva. Le caratteristiche positive della soddisfazione mettono gli esseri umani in grado di sopportare incredibili privazioni, pur restando aggrappati alla vita e, inoltre, di attribuire grande importanza a convinzioni che possono trascendere i valori della vita stessa.“ (R. B. Livingston, New York 1967.)

La tesi fondamentale di Livingston, come di altri autori che citerò in seguito, si basa su una contestazione fondamentale del vecchio pensiero istintivistico. Non cercano di ipotizzare quale area speciale del cervello «generi» tensioni superiori, come quella di solidarietà, altruismo, stima reciproca e verità, ma considerano il sistema cerebrale come un tutto che, dal punto di vista della sua evoluzione, è al servizio della sopravvivenza.

C. von Monakow ha formulato un'ipotesi molto interessante: ha proposto l'esistenza di una coscienza biologica (Syneidesis), che ha la funzione di assicurare in misura ottimale sicurezza, soddisfazione, adattamento, ricerca attiva della perfezione. Secondo von Monakow, il funzionamento dell'organismo nella direzione che promuove il suo sviluppo da Klisis (gioia, voluttà, felicità), da cui risulta il desiderio di ripetere questo tipo di comportamento; il comportamento dannoso allo sviluppo ottimale dell'organismo sfocia invece in Ekklesis (dispiacere, cattive sensazioni), spingendo la persona ad evitare il comportamento-che-produce- pena. (C. von Monakow, Zurigo 1950.)

H. von Foerster ha inquadrato empatia e amore come qualità inerenti al sistema cerebrale. Partendo dalla teoria conoscitiva, egli solleva questo interrogativo: come è possibile la comunicazione fra due individui, dato che il linguaggio presuppone una esperienza condivisa? Poiché l'ambiente non esiste per l'uomo in sé e per sé, ma nel suo rapporto con l'osservatore umano, argomenta von Foerster, la comunicazione presuppone che noi troviamo «la rappresentazione duplicata dell'ambiente nei due elementi che sono separati da pelle diversa, ma identici nella struttura. Comprendendo e utilizzando questa visione, A sa quel che sa A, perché A si identifica con A e abbiamo così l'equazione IO = TU. ... Chiaramente, l'identificazione è la coalizione più forte, e l'amore ne è la manifestazione più sottile». (H. von Foerster, 1963.)25

Tutte queste speculazioni, però, sembrano contraddette dal fatto incontestabile che, da quando emerse definitivamente, quarantamila anni fa, l'uomo non è riuscito a sviluppare, a completare queste tensioni «superiori», ma, a quanto pare, è stato do-minato prevalentemente da avidità e distruttività. Perché non rimasero o non divennero predominanti le tensioni biologicamente connaturate?

Prima di affrontare una discussione sull'argomento, cerchiamo di precisarne meglio i contorni. Dando pure per scontato che non abbiamo una grande conoscenza diretta della psiche umana prima dell'inizio del Neolitico, vi sono, come abbiamo visto, buoni motivi per presumere che gli uomini più primitivi, a partire dai cacciatori-raccoglitori di cibo fino ai primi agricoltori, non erano caratterizzati da distruttività o sadismo. In realtà, le qualità negative attribuite comunemente alla natura umana si potenziarono e diffusero di pari passo con lo sviluppo della civiltà. Inoltre bisognerebbe ricordare che questa visione di «obiettivi superiori» fu espressa molto presto nella storia da grandi maestri che proclamavano i nuovi fini protestando contro i principi delle rispettive culture; e questi fini, in forma sia religiosa sia secolare, hanno esercitato ripetutamente un profondo richiamo sui cuori degli uomini, pur inseriti in una società che li condizionava a credere il contrario. La tensione umana verso libertà, dignità, solidarietà, verità è stata veramente una delle motivazioni più forti nel determinare i cambiamenti storici.

Pur considerando tutte queste precisazioni, è innegabile che, finora, le tendenze superiori connaturate sono state ampiamente sconfitte, e l'individuo di oggi lo sperimenta con particolare ansietà.

Condizioni sociali

Quali sono le ragioni di questa sconfitta?

La sola risposta soddisfacente sembra risiedere nel contesto sociale in cui vive l'uomo. Mentre incoraggiava lo sviluppo tecnico e intellettuale, questo contesto, per quasi tutta la storia umana, è stato ostile a uno sviluppo completo di quelle potenzialità connaturate cui si riferivano gli autori citati qua sopra.

L'influenza diretta dell'ambiente sulla crescita del cervello è uno dei casi più elementari che esemplifica l'influenza dei fattori ambientali sulla personalità. È stato ormai appurato che la denutrizione può impedire una crescita normale del cervello infantile. Che, oltre al cibo, fattori come la libertà di movimento e di gioco possono avere una influenza diretta sulla crescita del cervello. Alcuni ricercatori hanno diviso alcuni ratti in due gruppi, collocandoli, rispettivamente, in ambienti «arricchiti» e «ristretti». I primi furono allevati in una grande gabbia dove potevano muoversi liberamente, giocare con vari oggetti e l'un con l'altro, mentre gli animali «ristretti» furono allevati soli, in piccole gabbie d'isolamento. In altre parole, gli animali «arricchiti» avevano opportunità di gran lunga superiori di stimolazione e di esercizio motorio. I ricercatori scoprirono che negli individui del primo gruppo la materia grigia corticale era più spessa rispetto al gruppo dei «ristretti» (anche se il loro peso corporeo era inferiore). (E. L. Bennett ed altri, 1964.)

Con un esperimento analogo, Altman «ha ottenuto prove istologiche di un aumento nell'area corticale degli animali arricchiti, e prove autoradiografiche di un maggiore tasso di proliferazione cellulare negli animali maturi arricchiti». (J. Altman e G. D. Das, 1964.) Dai risultati preliminari delle ricerche di laboratorio di Altman «è emerso che altre variabili comportamentali, come il trattamento riservato ai topi appena nati, possono alterare radicalmente lo sviluppo del cervello, particolarmente la proliferazione delle cellule in strutture come il cortex cerebellare, il giro dentato ippocampale e il neocortex.» (J. Altman, New York 1967a.)

Applicando i risultati di questi esperimenti all'uomo, ne emergerebbe che la crescita del cervello non dipende soltanto da fattori esteriori come il cibo, ma anche dal «calore» con cui un bambino è trattato e allevato, dal grado di stimolazioni che riceve, e dal livello di libertà di movimento, di gioco, di espressione. Ma lo sviluppo del cervello non si arresta nella prima infanzia, e nemmeno nella pubertà o nell'età adulta. Come ha sottolineato R. B. Livingston, «non c'è nessun punto oltre il quale cessi lo sviluppo, o scompaiano le capacità di riorganizzazione dopo malattie o lesioni». (R. B. Livingston, New York 1967.) A quanto pare, i fattori ambientali come stimolazione, incoraggiamento, affetto possono continuare ad avere una sottile influenza sui processi cerebrali per tutta la vita.

Sappiamo ancora poco dell'influenza diretta dell'ambiente sullo sviluppo del cervello. Fortunatamente siamo molto meglio informati sul ruolo dei fattori sociali sullo sviluppo del carattere (sebbene tutti i processi affettivi abbiano, naturalmente, un substrato nei processi cerebrali). A questo punto sembrerebbe che aderiamo anche noi alla corrente di pensiero dominante nelle scienze sociali: la tesi che il carattere umano è plasmato dalla società in cui l'individuo vive o, per dirla in termini comportamentistici, dal condizionamento sociale cui è esposto. Ma esiste una differenza fondamentale fra questa tesi e la nostra. La visione ambientalistica delle scienze sociali è essenzialmente relativistica: l'uomo sarebbe un foglio di carta immacolato sul quale la cultura scrive il suo testo; egli viene modellato dalla sua società per il meglio o per il peggio, «meglio» e «peggio» intesi come giudizi di valore da un punto di vista etico o religioso.26 La nostra posizione, invece, parte dal presupposto che l'uomo abbia un obiettivo immanente, che la costituzione biologica umana sia la fonte di norme di vita. Egli ha la possibilità di uno sviluppo e di una crescita completi, purché le condizioni esterne siano tali da condurre a questo obiettivo.

Questo significa che esistono condizioni ambientali specifiche che portano a una crescita ottimale dell'uomo e, se i nostri presupposti precedenti sono esatti, allo sviluppo della sindrome-che- incoraggia-la-vita. Se invece queste condizioni vengono a mancare, egli diventerà un essere paralizzato, avvizzito, caratterizzato dalla presenza della sindrome-che-ostacola-la-vita.

È veramente sorprendente che questa tesi venga considerata «idealistica» o «non-scientifica» da molti che non si sognerebbero neppure di contestare il rapporto fra costituzione e norme rispetto allo sviluppo e alla salute fisica. Elaborare questo punto non è certo necessario. Esiste tutta una gamma di dati, particolarmente nel campo della nutrizione, per dimostrare che certi tipi di alimento portano alla crescita e alla salute del corpo, mentre altri sono causa di disfunzioni organiche, malattie, morte prematura. È noto anche che, oltre al cibo, fattori come l'esercizio fisico o lo stress possono influenzare la salute. Sotto questo a- spetto, l'uomo non si distingue da nessun altro organismo. Come potrà confermare qualsiasi agricoltore o orticultore, il seme, per germinare adeguatamente e perché la pianta cresca, ha bisogno di un certo grado di umidità, di calore, e di un certo tipo di terreno. Se non vengono soddisfatte queste condizioni, il seme marcirà e morirà nella terra; la pianta nascerà morta. Se le condizioni invece sono ottimali, l'albero da frutta crescerà fino alle sue possibilità ottimali, dando i frutti più perfetti. Se le condizioni sono meno che ottimali, l'albero e i suoi frutti saranno difettosi o rovinati.

A questo punto ci troviamo ad affrontare l'interrogativo : quali sono le condizioni ambientali che portano allo sviluppo completo delle potenzialità umane?

Sull'argomento sono state scritte diverse migliaia di libri e date centinaia di risposte diverse. Certo non mi proverò a dare io una risposta nel contesto di questo libro.27 Potrò, però, fare alcune affermazioni di ordine generale, se pur brevemente.

La documentazione storica e lo studio degli individui dimostrano che la crescita dell'uomo è favorita dalla presenza di libertà, stimoli attivanti, assenza di controllo e sfruttamento, da sistemi produttivi «incentrati sull'uomo», mentre è ostacolata dalle condizioni opposte. Per di più, un numero crescente di persone si è reso conto che ad avere un impatto non è la presenza di una o due condizioni, ma un intero sistema di fattori. Ne deriva che, soltanto in un sistema sociale in cui si combinino varie condizioni favorevoli tali da assicurare il clima adatto, si verificano quelle condizioni generali che determinano la crescita completa dell'uomo, e naturalmente ciascuno stadio dello sviluppo individuale ha le proprie condizioni specifiche.

L'aggressione maligna: premesse

Ma perché gli studiosi di scienze sociali non hanno mai riconosciuto l'importanza primaria del problema delle condizioni sociali ottimali per la crescita umana? La spiegazione è ovvia : con qualche illustre eccezione, purtroppo, essi sono essenzialmente difensori, e non critici del sistema sociale esistente. Una spiega-zione può essere che, a differenza degli studiosi di scienze naturali, i loro risultati sono di scarso valore per il funzionamento della società. Anzi, risultati sbagliati e trattamenti superficiali sono utili come «cemento» ideologico, mentre, come sempre, la verità è una minaccia allo status quo.28

Inoltre, il compito di studiare adeguatamente i problemi è stato ulteriormente complicato dal presupposto che «se la gente desidera qualcosa, significa che va bene per lei», trascurando così il fatto che spesso i desideri delle persone sono dannosi per esse, e che possono essere sintomi di disfunzioni, o di suggestioni, o di entrambi. Tutti sanno oggi, per fare un esempio, che la schiavitù della droga non è desiderabile, anche se molti desiderano ricorrere alle droghe. Poiché tutto il nostro sistema economico è imperniato sulla istillazione di desideri tali da essere soddisfatti, con profitto, attraverso merci, è estremamente improbabile che un'analisi critica della irrazionalità dei desideri diventi popolare.

Ma non possiamo fermarci qui. Perché, dobbiamo chiederci, la maggioranza delle persone non usa la ragione per riconoscere i propri interessi reali di esseri umani? Non è forse perché hanno subito un lavaggio del cervello e sono costretti a ubbidire? E poi perché un maggior numero di leaders non ha riconosciuto che il sistema non soddisfaceva i loro interessi più autentici di esseri umani? Spiegando ogni cosa in termini di avidità e furbizia, come tendevano a fare i filosofi dell'Illuminismo, non si arriva al nucleo del problema. Come ha dimostrato Marx con la sua teoria dello sviluppo storico, l'uomo, nel tentativo di cambiare e migliorare le condizioni sociali, è costantemente limitato dai fattori materiali del suo ambiente, come le condizioni ecologiche, il clima, la tecnica, la situazione geografica, le tradizioni culturali.

Come abbiamo visto, i cacciatori-raccoglitori di cibo primitivi e i primi agricoltori vivevano in un ambiente relativamente ben equilibrato, che originava passioni costruttive, e non distruttive. Ma nel processo di crescita l'uomo cambia, e cambia il proprio ambiente. Progredisce intellettualmente e tecnologicamente; ma questo progresso crea situazioni che incentivano lo sviluppo della sindrome del carattere-che-ostacola-la-vita. Pur sommariamente, abbiamo ricostruito questo sviluppo nel passaggio dalla società dei primi cacciatori-raccoglitori di cibo alla «rivoluzione urbana». Ma per creare il tempo libero di cui aveva bisogno per diventare filosofo e studioso, per costruire opere d'arte come le piramidi egiziane, in breve per creare cultura, l'uomo dovette avere schiavi, scatenare guerre e conquistare territori. Proprio per questo processo di crescita, particolarmente sotto l'aspetto intellettuale, artistico e scientifico, l'uomo dovette creare circostanze che lo storpiarono, impedendone la crescita sotto altri aspetti, particolarmente quello affettivo. Questo accadde perché le forze produttive non erano sufficientemente sviluppate da consentire la coesistenza del progresso tecnico-culturale con la libertà, da permettere a tutti di fiorire liberamente, senza storpiature. Le condizioni materiali hanno le loro leggi, e il desiderio di cambiarle spesso non basta. Certo, se la terra fosse stata creata come un paradiso e l'uomo non fosse stato inchiodato a una irriducibile realtà materiale, forse la sua ragione sarebbe stata una condizione sufficiente per creare l'ambiente adatto a crescere liberamente, avendo di che sfamarsi, e avendo nello stesso tempo la possibilità di essere libero. Ma il mito biblico racconta che l'uomo è stato cacciato dal paradiso e non può tornarvi. Su di lui grava la maledizione del suo conflitto con la na-tura. Il mondo non è stato fatto per l'uomo; egli vi è stato scagliato. Soltanto con la sua attività e la ragione potrà creare un mondo che lo porti al suo pieno sviluppo, e cioè alla sua dimora umana. I suoi stessi dominatori sono stati esecutori della neces-sità storica, anche se spesso erano uomini cattivi che hanno seguito i loro capricci e hanno fallito nel loro compito storico. Ma l'irrazionalità e la malignità personali sono divenuti fattori decisivi soltanto nei periodi in cui le condizioni esterne erano tali da consentire il progresso umano, e tale progresso è stato impedito dalla deformazione caratteriale dei dominatori e dei dominati.

Tuttavia vi sono sempre stati dei visionari che hanno riconosciuto chiaramente gli obiettivi dell'evoluzione umana sociale e individuale. Ma le loro «utopie» non furono «utopiche» nel senso di sogni irrealizzabili. Esse avvenivano in un «non-luogo» (u-topia). Ma «non-luogo» non significa «mai». Con ciò voglio dire che erano «utopiche» perché non esistevano allora in nessun luogo geografico, e forse non sarebbero potute esistere; ma questo non significa che non possano essere realizzate nel corso del tempo, in un altro tempo. Il concetto marxista di socialismo, finora non ancora realizzato in nessun paese del mondo (e certamente non nei paesi socialisti) non fu considerato un'utopia da Marx perché egli credeva che, a quel punto dell'evoluzione storica, esistessero già le condizioni materiali per attuarlo.29

Sulla razionalità e irrazionalità di istinti e passioni

Il concetto che gli istinti siano irrazionali perché sfidano il pensiero logico è comunemente accettato. Ma è esatto? E poi, possiamo classificare come razionali o irrazionali le passioni-radicate-nel-carattere?

I termini «ragione» e «razionale» sono applicati convenzionalmente soltanto ai processi di pensiero; per pensiero «razionale» si intende qualcosa che obbedisce alle leggi della logica, non è distorto da fattori emozionali e spesso patologici. Ma «razionale» e «irrazionale» sono talvolta applicati anche ad azioni e sentimenti. Un economista, per esempio, potrà definire irrazionale l'introduzione di costosi macchinari automatizzati in un paese in cui la mano d'opera specializzata è scarsa, mentre abbonda quella non-specializzata. Oppure potrà giudicare irrazionale una spesa annua di 180 miliardi di dollari per gli armamenti (finanziata per l'80% dalle superpotenze) perché serve alla produzione di cose che non hanno alcun valore d'uso in tempo di pace. Oppure uno psichiatra potrà definire irrazionale un sintomo nevrotico, come la coazione a lavarsi o ansietà immotivate, perché risultato di una disfunzione mentale, tendenti a ostacolarne il funzionamento adeguato.

Propongo di definire razionale qualsiasi pensiero, sentimento o azione che favorisca il funzionamento e la crescita adeguati del tutto di cui sono parte, e irrazionale ciò che tende a indebolire o a distruggere il tutto. È ovvio che soltanto con l'analisi empirica di un sistema si potrà dimostrare che cosa debba essere considerato, rispettivamente, razionale o irrazionale.30

Applicando questo concetto di razionalità agli istinti (pulsioni organiche), ne consegue inevitabilmente che essi sono razionali. Da un punto di vista darwiniano, gli istinti hanno precisamente la funzione di sostenere adeguatamente la vita, di assicurare la sopravvivenza dell'individuo e della specie. L'animale si comporta razionalmente perché è quasi completamente determinato dall'istinto, e così sarebbe anche per l'uomo, se fosse appunto dominato dall'istinto. Proprio perché stimolati organicamente, la sua ricerca di cibo, la sua aggressività (o fuga) difensive, i suoi desideri sessuali non portano a un comportamento irrazionale. L'irrazionalità umana è causata dall'assenza di istinti, e non dalla presenza di questi ultimi.

E per quanto riguarda la razionalità delle passioni-radicate-nel-carattere? Secondo il nostro criterio di razionalità, dobbiamo operare una discriminazione. Razionali devono essere considerate le passioni-al-servizio-della-vita, perché favoriscono la crescita e il benessere dell'organismo; irrazionali invece sono le passioni-che-soffocano-la-vita, perché ostacolano crescita e benessere. Ma è necessaria una precisazione. La persona diventa distruttiva o crudele perché è priva delle condizioni per crescere ulteriormente: non può fare di meglio in quelle determinate circostanze. Nell'ambito delle possibilità umane, le sue passioni sono irrazionali, pur avendo una loro razionalità nel quadro della particolare situazione individuale e sociale in cui una persona è inserita. Lo stesso vale per i processi storici. In questo senso erano razionali le «megamacchine» (L. Mumford, Milano 1969) dell'antichità; persino il fascismo e lo stalinismo potrebbero essere considerati razionali, se furono l'unico sbocco possibile in quelle determinate circostanze. Questa, naturalmente, è la tesi dei loro difensori. I quali però dovrebbero dimostrare l'inesistenza di alternative storicamente più adeguate, il che, a mio parere, è falso.31

Occorre ribadire che le passioni-che-soffocano-la-vita sono una risposta alle esigenze esistenziali quanto le passioni-al-servizio-della-vita: entrambe sono profondamente umane. Necessariamente le prime si sviluppano quando mancano le condizioni realistiche per la realizzazione delle seconde. L'uomo distruttore può essere definito vizioso perché la distruttività è un vizio, ma è umano. Non è «regredito all'esistenza animale», e non è motivato da istinti animali; non può cambiare la struttura del suo cervello. Lo potremmo considerare un fallimento esistenziale, qualcuno che non è riuscito a realizzarsi secondo le possibilità della sua esistenza. Resta il fatto che essere ostacolato nel proprio sviluppo e diventare vizioso è una possibilità concreta quanto quella di svilupparsi completamente e di essere produttivo: l'uno o l'altro esito dipende prevalentemente dalla presenza - o assenza - di condizioni sociali tali da favorire la crescita.

È necessario però aggiungere che, parlando di circostanze sociali responsabili dello sviluppo umano, non intendo dire che egli è un oggetto impotente manipolato dalle circostanze. Certo, i fattori ambientali incoraggiano oppure ostacolano lo sviluppo di certi tratti, e pongono dei limiti entro cui l'uomo può muoversi. Tuttavia, la ragione e la volontà dell'uomo sono fattori potenti nel processo, individuale e sociale, del suo sviluppo. Non è la storia che fa l'uomo, ma è l'uomo che crea se stesso nel corso della storia. Soltanto il pensiero dogmatico, che nasce dalla pigrizia del cuore e della mente, cerca di costruire schemi semplicistici in un senso o nell'altro, bloccando così ogni reale comprensione.32

Funzione psichica delle passioni

Per sopravvivere l'uomo deve soddisfare i suoi bisogni fisici, e i suoi istinti lo motivano ad agire in favore della propria sopravvivenza. Se i suoi istinti determinassero gran parte del suo comportamento, non avrebbe nessun particolare problema per vivere e, purché avesse abbastanza da mangiare, sarebbe una «mucca soddisfatta».uMa la soddisfazione delle sue pulsioni organiche non basta a renderlo felice, né garantisce la sua salute mentale. Il suo problema non è nemmeno quello di soddisfare prima le esigenze organiche e poi, come una specie di lusso, sviluppare le sue passioni-radicate-nel-carattere. Queste sono presenti in lui fin dall'inizio della sua esistenza, e spesso sono più forti delle pulsioni organiche.

Studiando il comportamento individuale e di massa, scopriamo che il desiderio di soddisfare fame e sesso costituisce solo una piccola parte delle motivazioni umane. Le maggiori motivazioni sono le passioni razionali e irrazionali; le tensioni d'amore,34 tenerezza, solidarietà, libertà e verità, come la pulsione a controllare, sottomettere, distruggere; narcisismo, avidità, invidia, ambizione. Queste passioni commuovono ed eccitano l'uomo; sono la materia di cui sono fatti non solo i suoi sogni, ma tutte le religioni, i miti, i drammi, l'arte, in breve tutto ciò che dà un senso alla vita, che la rende degna di essere vissuta. Se motivate da queste passioni, le persone rischiano la vita. Qualora non riescano a conseguire l'oggetto dei loro desideri, possono arrivare al suicidio; ma non si ammazzano per mancanza di soddisfazione sessuale e nemmeno perché muoiono di fame. Che l'elemento dominante sia l'amore o l'odio, la potenza delle passioni umane è la stessa.

Questo è incontestabile. Più difficile è spiegarne il perché. Si possono comunque formulare alcune ipotesi.

La prima potrebbe essere valutata soltanto dai neurofisiologi. Poiché, come già abbiamo sottolineato, il cervello ha bisogno di costante eccitazione, si potrebbe immaginare che di qui abbia origine l'esigenza di tensioni appassionate, perché esse soltanto forniscono costante eccitazione.

Un'altra ipotesi rientra nel quadro già discusso in questo libro: la singolarità dell'esperienza umana. Come abbiamo detto, consapevole com'è di se stesso, della sua impotenza e del suo isolamento, l'uomo non può tollerare di vivere semplicemente come un oggetto. Questo naturalmente lo sapevano benissimo quasi tutti i pensatori, drammaturghi, romanzieri nel corso della storia. Si può davvero credere che il dramma di Edipo sia incentrato sulla frustrazione dei desideri sessuali di Edipo verso la madre? O che Shakespeare avrebbe potuto scrivere un Amleto imperniato sulla frustrazione sessuale del protagonista? Eppure questa sembra essere esattamente la tesi della psicoanalisi classica e dei riduzionisti contemporanei.

Le pulsioni istintuali dell'uomo sono necessarie, ma banali; le passioni che unificano la sua energia nella ricerca di un obiettivo preciso appartengono alla sfera del sacro o del devozionale. Il sistema del banale consiste nel «guadagnarsi da vivere»; la sfera del «s?cro» nel vivere al di là della sopravvivenza fisica, la sfera in cui l'uomo mette in palio il suo destino, spesso la vita, la sfera in cui sono radicate le sue motivazioni più profonde, quelle che danno un senso alla vita.35

Nel tentativo di trascendere la banalità della vita, l'uomo è sollecitato a ricercare l'avventura, a guardare oltre la frontiera dell'esistenza umana, persino ad attraversarla. Questo rende così eccitanti e attraenti i grandi vizi e le grandi virtù, la creazione come la distruzione. Eroe è colui che ha il coraggio di avanzare verso la frontiera senza cedere alla paura o ai dubbio. L'uomo medio è un eroe anche nel suo tentativo fallito di essere eroe; è motivato dal desiderio di dare un senso alla sua vita, e dalla passione di avvicinarsi il più possibile alle sue frontiere.

Occorre fare a questo punto un'importante precisazione. Gli individui vivono in una società che fornisce loro schemi preconfezionati, che pretendono di dare un senso alle loro vite. Nella nostra società, per esempio, si racconta che, per dare un senso alla vita, bisogna guadagnare parecchio, essere uomini di successo, «padri di famiglia», buoni cittadini, consumatori di merci e di piaceri. Ma se, a livello conscio, questo suggerimento funziona per la maggioranza, la gente non ritrova però un significato autentico, né compensazione alla mancanza di un centro interiore. Questi schemi si stanno logorando e falliscono con una frequenza crescente. Che questo fenomeno oggi avvenga ormai su larga scala, è dimostrato dall'uso crescente della droga, dalla mancanza di un interesse genuino per qualcosa, dal declino della creatività intellettuale e artistica, dal dilagare di violenza e distruttività.

Note

1 Eccezioni: fra i Greci erano gli Stoici, difensori dell'uguaglianza di tutti gli uomini, e nel Rinascimento, umanisti come Erasmo, Tommaso Moro, Juan Luis Vives.

2 Richard M. Bucke era uno psichiatra canadese, amico di Emerson, una mente coraggiosa, ricca di immaginazione, e ai suoi tempi una delle figure più rappresentative della psichiatria nord-americana. Il suo libro Cosmic Consciousness (ed. riv., New York 1946) è stato letto dai profani per quasi un secolo, anche se egli è stato completamente dimenticato dai suoi colleghi.

3 Cfr. la discussione in D. Pilbeam (Londra 1970); anche M. F. A. Montagu (New York 1967) e G. Smolla (Monaco 1967).

4 Cfr. per capire il concetto marxista di natura umana, E. Fromm (New York 1961, trad, italiana: Milano 1973; 1968, trad, italiana: Milano 1971).

5 Qui il termine «istinti» viene usato disinvoltamente, per semplificare la discussione, non nel senso antiquato di «istinto» che esclude l'apprendimento, ma nel senso di «pulsione organica».

6 C. Judson Herrick ha tentato di dare un'idea approssimata della potenzialità dei circuiti neuronali: «Ogni neurone della corteccia cerebrale è avviluppato da un groviglio di fibre molto sottili, di grande complessità, alcune delle quali giungono da parti molto remote. Probabilmente è esatto dire che la maggioranza dei neuroni corticali è direttamente o indirettamente connessa con ogni campo corticale. Questa è la base anatomica dei processi corticali associativi. L'interconnessione di queste fibre associative forma un meccanismo anatomico che permette, durante una serie di associazioni corticali, parecchie combinazioni funzionali differenti di neuroni corticali, che superano di gran- lunga qualsiasi cifra mai proposta dagli astronomi nel misurare le distanze delle stelle... È la capacità di fare questo tipo di combinazione e ri-combinazione degli elementi nervosi che determina il valore pratico del sistema... Se un milione di cellule nervose corticali fossero connesse l'un l'altra in gruppi formati soltanto da due neuroni ciascuna, in tutte le combinazioni possibili, il numero dei diversi schemi di connessione interneuronale così ottenuto dovrebbe essere espresso da 102763000... Sulla base della struttura a noi nota del cortex, ... il numero di connessioni intercellulari anatomicamente presenti e disponibili per essere usate in una breve serie di neuroni corticali dell'area visuale eccitati simultaneamente da qualche immagine retinica... supererebbero di gran lunga il 102763000 già menzionato circa le combinazioni teoricamente possibili in gruppi di due soltanto». (C. J. Herrick, Chicago 1928.) Per scopi comparativi, Livingston aggiunge: «Ricordate che il numero degli atomi nell'universo è calcolato intorno a 1066».

7 Questa distinzione fra i due tipi di pulsioni corrisponde essenzialmente» quella di Marx. Egli parlò di due tipi di pulsioni e di appetiti umani; i «costanti», o fissi, come fame e pulsione sessuale, che sono parte integrante della natura umana, e possono variare soltanto nella forma e nella direzione che assumono nelle varie culture, e gli tappetiti retativi», che «devono la loro origine a certe strutture sociali e a certe condizioni di produzione e comunicazione». (K. Marx e F. Engels, Mega, vol. V. Traduzione mia.) Marx défini alcuni di questi appetiti «inumani», «depravati», «innaturali», «immaginari».

8 Il materiale delle pagine seguenti è una dilatazione della discussione sullo stesso argomento contenuta in E. Fromm, New York 1947 (trad, italiana: Roma 1971) e New York 1955 (trad, italiana: Milano 1964); per evitare il più possibile le ripetizioni, ho dato soltanto una versione abbreviata del vecchio materiale.

9 Il termine «trascendenza» è usato tradizionalmente in uno schema di riferimento teologico. Secondo il pensiero cristiano, è scontato che la trascendenza sia qualcosa che va al di là dell'uomo, verso Dio; perciò la teologia cerca di dimostrare l'esigenza della fede in Dio, sottolineando il bisogno umano di trascendenza. Ma questa logica non regge, a meno che non si usi il concetto di Dio in un senso puramente simbolico, come «non-sé». C'è un bisogno di trascendere una posizione incentrata-su-se- stessi, narcisistica, isolata, per entrare in rapporto con gli altri, essere aperti al mondo, sfuggire l'inferno dell'essere rinchiusi in sé, autoimprigionati. I sistemi religiosi come il Buddismo hanno postulato questo tipo di trascendenza senza alcun riferimento a un dio o a una potenza sovrumana; così ha fatto Eckhart; nelle sue formulazioni più coraggiose.

10 Freud ha avuto il grande merito di scoprire la profondità della fissazione alla madre come problema centrale dello sviluppo normale e patologico (il «complesso di Edipo»). Però le sue premesse filosofiche lo portarono a interpretare la fissazione solo come sessuale, limitando così la portata della sua scoperta. Soltanto verso la fine della sua vita, cominciò a capire che esisteva anche un attaccamento pre-edipico alla madre. Ma non potè spingersi al di là di queste osservazioni marginali e non corresse il vecchio concetto di «incesto». Alcuni analisti, soprattutto S. Ferenczi e la sua scuola, e più recentemente J. Bowlby (1958 e Londra 1969) hanno capito la vera natura della fissazione alla madre. Gli esperimenti compiuti negli ultimi anni con i primati (H. R. Harlow, J. L. McGaugh e R. F. Thompson, San Francisco 1971) e con i neonati (R. Spitz e G. Cobliner, New York 1965) hanno dimostrato chiaramente l'importanza suprema del legame con la madre. I dati analitici portati alla luce mostrano quale ruolo abbiano le tensioni incestuose non-sessuali nella vita della persona normale e di quella nevrotica. Dato che ho sottolineato questo punto nella mia opera per parecchi anni, mi limiterò a citare la mia ultima elaborazione in The Sane Society, New York 1955 (trad, italiana: Psicoanalisi della società contemporanea, Milano 1964) e in The Heart of Man, New York 1964 (trad, italiana: Il cuore dell'uomo, Roma 1965). Cfr. sulla simbiosi E. Fromm, New York 1941 (trad, italiana: Milano 1963); New Kork 1955 (trad, italiana: Milano 1964); New York 1964 (trad, italiana: Roma 1965); e anche M. S. Mahler (New York 1968), che si basa sui suoi documenti precedènti a partire dal 1951.

11 D. E. Schechter, comunicazione personale.

12 Per evitare incomprensioni ed equivoci, vorrei sottolineare che non si

può isolare un singolo fattore (una proibizione) dalla situazione interpersonale complessiva di cui è parte. Se la proibizione si verifica in una situazione non-oppressiva, avrà determinate conseguenze, che cambieranno se verrà inserita in una costellazione in cui serve a spezzare la volontà del bambino.

13 Sono grato al dott. R. C. Heath per avermi mostrato alcune delle sue scimmie «catatoniche» nel reparto di psichiatria dell'Università di Tula- ne, New Orleans, Louisiana.

14 Sono grato al dott. D. E. Schechter per avermi permesso di leggere il manoscritto del suo documento.

15Cfr. la serie di documenti di W. H. Bexton ed altri (1954), W. Heron ed altri (1956), T. H. Scott ed altri (New York 1959) e B. K. Doane ed altri (1959).

16 L'idea che mostrassero reazioni quasi-psicotiche si basa, a mio avviso, su un'errata interpretazione dei dati.

17 Cfr. A. Burton (1967), che definisce la depressione «il male della nostra società». e W. Heron (1957). In The Revolution of Hope (New York 1968 a) c nei miei scritti precedenti ho sottolineato l'importanza della noia, di cui tutta la nostra società è permeata, e la sua funzione nel produrre aggressione.

18 Questo sogno e le osservazioni relative mi sono state riferite da uno studente, del cui lavoro ero supervisore anni fa.

19 Dott. H. D. Esler. comunicazione personale.

20 Sono grato al dott. R. G. Heath per le sue comunicazioni personali molto stimolanti riguardanti i pazienti afflitti da forme estreme di noia, e per avermi dato l'opportunità di intervistare due di questi pazienti. Cfr. anche R. G. Heath (New York 1964).

21 Gran parte di quel che segue si basa sulle comunicazioni personali con il dott. H. D. Esler, che renderà noto il suo materiale in un libro di prossima pubblicazione.

22 Improvvise esplosioni di violenza possono essere causate da malattie cerebrali, come tumori, e casi del genere, naturalmente, non hanno niente a che fare con gli stati di noia-depressione.

23 Con questo non voglio dire che gli animali non abbiano un carattere. Indubbiamente hanno una loro individualità, nota a chiunque ne conosca bene una specie. Ma bisogna tenere presente che questa individualità è rappresentata in una certa misura dal temperamento, è cioè una disposizione data geneticamente, e non un tratto acquisito. Per di più domandarsi se gli animali hanno un carattere è scarsamente rilevante, proprio come l'antico interrogativo: gli animali hanno o non hanno l'intelligenza? Bisogna presumere che più un animale è determinato istintivamente, meno possiamo trovare gli elementi del carattere, e viceversa.

24 Aggiunge che i mammiferi e molte altre forme di vita non potrebbero

sopravvivere neppure per una sola generazione senza un comportamento connaturato di collaborazione, confermando così le scoperte che P. Kropotkin ha pubblicato nel suo famoso libro II mutuo appoggio, fattore dell'evoluzione, Bologna 1950.

25 L'esperienza condivisa è specificamente la base di ogni comprensione psicologica; comprendere l'inconscio di un altro presuppone che noi comprendiamo l'altro perché abbiamo accesso al nostro stesso inconscio, e perciò possiamo condividere la sua esperienza. Cfr. E. Fromm, D. T. Suzuki e R. de Martino (New York 1960, trad, italiana: Roma 1968).

26 Quella di Marx rappresenta una illustre eccezione alla convenzionale tesi ambientalistica, anche se il marxismo volgare nella sua versione stalinista o riformista ha fatto tutto il possibile per oscurarla. Marx ha proposto un concetto di «natura umana in generale», distinta dalla «natura umana che si modifica nel corso di ciascuna epoca storica». (K. Marx, 1906.) Secondo Marx certe condizioni sociali, come il capitalismo, «storpiano» l'uomo. Il socialismo, come lui l'ha concepito, porterà alla completa auto-realizzazione dell'uomo.

27 Cfr. E. Fromm, New York 1955 (trad, italiana: Milano 1964).

28 Cfr. la brillante critica alle scienzc sociali di S. Andreski (Londra 1972).

29 Questo è il punto cruciale in cui Sartre non ha mai veramente capito o integrato il pensiero di Marx, tentando invece di combinare una teoria essenzialmente volontaristica con la teoria marxista della storia. Cfr. l'eccellente critica su Sartre di R. Dunayevskaya (di prossima pubblicazione).

30Sebbene questo uso del termine razionale non appartenga alla corrente terminologia filosofica, è radicato nella tradizione occidentale. Per Eraclito il logos (la cui traduzione latina è ratio) è un principio organizzativo che sta alla base dell'universo, connesso al significato di «proporzione» attribuito comunemente ai suoi tempi a logos. (W. K. Guthrie, New York 1962.) Perciò, in Eraclito, seguire il logos significa «essere svegli». Aristotele usa il logos come ragione in un contesto etico (Etilica Nicomachea, V. 1134 a) e frequentemente nella combinazione «retta ragione». Tommaso d'Aquino parla di «appetito razionale» (appetitus rationalis), e distingue fra ragione rivolta all'azione e al fatto, e ragione rivolta esclusivamente alla conoscenza. Spinoza parla di affetti razionali e irrazionali, Pascal di ragionamento emozionale. Per Kant la ragion pratica (Vernunft) ha la funzione di riconoscere che cosa dovrebbe essere fatto, mentre la ragion pura teoretica porta a riconoscere quel che è. Cfr. anche l'uso hegeliano di razionalità in riferimento alle emozioni. Infine, voglio citare in questa breve rassegna la dichiarazione di Whitehead: «La funzione della ragione consiste nell'incoraggiare l'arte della vita». (A. N. Whitehead, Boston 1967.)

31 Il problema è stato oscurato dallo schema freudiano di Es-Io-Super-Io. Questa divisione ha costretto la teoria psicoanalitica ad attribuire all'Io tutto ciò che non appartiene all'Es o al Super-Io. Questo approccio semplicistico (che spesso però è molto sofisticato) ha bloccato l'analisi del problema della razionalità.

32 L'uomo non è mai determinato al punto da escludere un cambiamento fondamentale, stimolato da tutta una serie di eventi ed esperienze possibili, a un certo punto della sua vita. 11 suo potenziale di affermazione vitale non è mai completamente estinto, e non si può mai escludere che riemerga. Questo è il motivo per cui possono verificarsi le conversioni (i pentimenti) genuine. Per illustrare questa tesi occorrerebbe tutto un libro. Qui mi riferirò soltanto all'abbondante materiale esistente sui profondi cambiamenti che possono avvenire nel corso della terapia psicoanalitica, e ai diversi cambiamenti «spontanei». La documentazione storica offre la prova più significativa del fatto che l'ambiente dà origine a certe inclinazioni, ma non è determinante. Anche nelle società più depravate emergono sempre dei personaggi di rilievo che impersonano la forma più elevata di esistenza umana. Alcuni sono stati portavoce dell'umanità, «salvatori», senza dei quali l'uomo avrebbe potuto perdere la visione del suo obicttivo; altri sono rimasti sconosciuti. A loro si riferisce la leggenda ebraica dei trentasei uomini giusti di ogni generazione, la cui esistenza garantisce la sopravvivenza dell'umanità.

33 Occorre però precisare che anche gli animali hanno esigenze che vanno al di là della sopravvivenza fisiologica, per esempio il bisogno di giocare. " Naturalmente anche i piccoli degli animali hanno bisogno d'«amore», la cui qualità può non essere molto diversa da quella necessaria ai piccoli dell'uomo, ma che certamente si distingue dall'amore umano nonnarcisistico di cui si parla qui.

34 Per valutare correttamente questa distinzione bisogna ricordare che una persona non è necessariamente sacra perché così viene definita. Oggi, per esempio, si considerano sacri i concetti e i simboli del Cristianesimo anche se, in genere, essi non sollecitano più una partecipazione appassionata in chi frequenta le chiese; invece le tensioni per la conquista della natura, per la conquista di fama, potenza, denaro, dei veri oggetti di devozione, insomma, non sono definite sacre perché non sono state integrate in un sistema religioso esplicito. Di tanto in tanto, nei tempi moderni, vi sono state delle eccezioni quando si è parlato di «sacro egoismo» (in senso nazionalistico) o di «sacra vendetta».

Aggressione maligna Crudeltà e distruttività

Distruttività apparente

Molto diverse dalla distruttività sono certe esperienze arcaiche, sepolte in profondità, che spesso vengono interpretate dall'osservatore moderno come prove dell'innata distruttività umana. Analizzandole più attentamente si scoprirà che, pur sfociando in atti distruttivi, non sono motivate dalla passione di distruggere.

Un esempio è costituito dalla passione di spargere sangue, spesso chiamata «sete di sangue». Sotto tutti gli aspetti pratici, spargere il sangue di qualcuno significa ucciderlo, ragion per cui «uccidere» e «spargere sangue» sono sinonimi. Eppure si pone il problema se spargere sangue non implichi forse un piacere arcaico diverso dal piacere di uccidere.

A un livello profondo, arcaico di esperienza, il sangue è una sostanza molto particolare. Quasi dovunque è diventato simbolo di vita e di forza vitale, una delle tre sostanze sacre emanate dal corpo. Le altre due sono lo sperma e il latte. Lo sperma è l'espressione della creatività maschile, mentre il latte esprime quella femminile, materna, ed entrambi sono stati considerati sacri in molti culti e rituali. Il sangue trascende la differenza fra maschile e femminile. Negli strati più profondi dell'esperienza, spargendo sangue ci si impadronisce magicamente della stessa forza vitale.

Ben noto è l'uso del sangue per scopi religiosi. Nei loro rituali, i preti del tempio ebraico spargevano il sangue degli animali massacrati; i preti aztechi ofTrivano agli dei i cuori palpitanti delle vittime. In molte usanze rituali, per confermare sim-bolicamente la fratellanza, si mescola insieme il sangue delle persone coinvolte.

Poiché il sangue è il «succo della vita», in molti casi lo si beve per accrescere le proprie energie vitali. Nelle orge di Bacco, come nei rituali dedicati a Cerere, una parte del mistero consisteva nel mangiare la carne cruda degli animali insieme con il loro sangue. Nelle feste dionisiache, a Creta, si lacerava con i denti la carne dell'animale vivo. Questi rituali si trovano anche in relazione a molte divinità ctonie. (J. Bryant, Londra 1775.) Gli Ariani che invasero l'India - racconta J. G. Bourke - disprezzavano gli indigeni Dasyu perché mangiavano la carne umana e animale senza cucinarla, e per esprimere il loro naturale disgusto li chiamavano «mangiatori di crudo».1 Con gli antichi rituali di bere sangue e mangiare carne cruda, sono imparentate le usanze delle tribu primitive ancora esistenti. Durante certe cerimonie religiose, gli Indiani Hamatsa del Canada nord-occidentale sono tenuti a mordere a un uomo un pezzetto di braccio, gamba o petto.-' Ma anche nei tempi recenti il sangue è stato considerato come una specie di elisir. I Bulgari, per esempio, avevano l'usanza di somministrare a chi fosse rimasto fortemente spaventato il cuore palpitante di una colomba massacrata sul momento. per aiutarlo a riaversi. (J. G. Bourke, Lipsia 1913.) Persino in una religione altamente sviluppata come quella cattolico- romana. ritroviamo la pratica arcaica di bere il vino consacrato come sangue di Cristo; sarebbe una deformazione riduzionista presumere che questo rituale sia la manifestazione di impulsi distruttivi, e non un'affermazione della vita e un'espressione della comunità.

Per l'uomo moderno, lo spargimento di sangue sembra avere esclusivamente un significato distruttivo. E certo è così, da un punto di vista «realistico». Però, considerando non l'atto di per sé, ma il suo significato negli strati più profondi e arcaici dell'esperienza, si può arrivare a una conclusione diversa. Spargendo il proprio sangue, o quello di un altro, si è in contatto con la forza vitale; un'esperienza che può rivelarsi inebriante a livello arcaico e. se offerta agli dei, può essere un atto di estrema devozione, la cui motivazione non è necessariamente quella di distruggere.

Considerazioni analoghe valgono anche per il fenomeno del cannibalismo. Coloro che credono nella innata distruttività umana hanno spesso usato il cannibalismo come chiave di volta per la dimostrazione della loro teoria, sottolineando che a Choukoutien furono ritrovati dei crani da cui era stato estratto il cervello attraverso la base. Si ipotizzò che quegli antichi uomini avessero mangiato il cervello, assaporandone il gusto. Anche se questa, ovviamente, è una possibilità, che forse corrisponde maggiormente alla visione del consumatore moderno, è molto più probabile che il cervello venisse usato per scopi magico-rituali. Come abbiamo accennato in precedenza, questa è la posizione di A. C. Blanc (Chicago 1961), che trovò una forte analogia fra i crani dell'Uomo di Pechino e quelli ritrovati a Monte Circeo, più antichi di quasi mezzo milione di anni. Se questa interpretazione è esatta, lo stesso vale per il cannibalismo rituale e per l'usanza rituale di bere e di spargere sangue.

Certo, il cannibalismo non-rituale era una pratica diffusa fra i popoli «primitivi» negli ultimi secoli. Ma per quel che sappiamo noi sul carattere dei cacciatori-raccoglitori-di-cibo che vivono ai giorni nostri, o possiamo presumere su quelli preistorici, non erano assassini, ed è assai improbabile che fossero cannibali. Come si è espresso succintamente Mumford: «Proprio come era incapace delle nostre feroci esibizioni di crudeltà, tortura, sterminio, probabilmente l'uomo primitivo non uccise mai per procurarsi del cibo». (L. Mumford, New York 1967.)

Con le osservazioni precedenti ho inteso mettere in guardia dall'interpretare superficialmente ogni comportamento distruttivo come risultato di un istinto distruttivo, non riconoscendone le frequenti motivazioni religiose e non-distruttive. Non ho inteso certo minimizzare le esplosioni di vera crudeltà e distruttività di cui ci occuperemo ora.

Forme spontanee

La distruttività3 compare in due forme: spontanea e legata alla struttura caratteriale. Con la prima alludo all'esplosione di impulsi distruttivi sopiù (non necessariamente repressi) e attivati da circostanze straordinarie, che si differenzia dalla presenza co-stante, sebbene non sempre espressa, di tratti distruttivi nel carattere.

La documentazione storica

La storia civilizzata offre la più ampia - e atroce - documentazione di forme di distruttività apparentemente spontanee. La storia di una guerra è un resoconto di uccisioni e torture spietate e indiscriminate, le cui vittime sono uomini, donne e bambini. Spesso questi eventi danno l'impressione di orge distruttive, in cui né i fattori convenzionali né quelli genuinamente morali hanno avuto un effetto inibitorio. Uccidere è statà la manifestazione distruttiva più mite. Le orge non si sono però arrestate su questa soglia: si sono castrati uomini, sventrate donne, prigionieri sono stati crocifissi o dati in pasto ai.leoni. Non c'è praticamente atto distruttivo concepito dalla mente umana che non sia stato ripetuto all'infinito. Durante la scissione, in India, abbiamo assistito ai massacri frenetici, reciproci, di centinaia di migliaia di Indù e Musulmani; durante la purga anti-comunista del 1965 in Indonesia, secondo varie fonti, sono stati massacrati da quattrocentomila a un milione di Comunisti veri o presunti, insieme a parecchi Cinesi. (M. Caldwell, New York 1968.) Non è il caso che mi inoltri in una descrizione più dettagliata delle manifestazioni della distruttività umana; sono ben note a tutti e, per di più, vengono spesso tirate in campo da coloro che vogliono dimostrare la caratteristica innata della distruttività, come per esempio D. Freeman (New York 1964).

Delle cause della distruttività ci occuperemo nella discussione sul sadismo e sulla necrofilia. Ho citato, a questo punto, alcune particolari esplosioni, perché volevo dare degli esempi di distruttività che, a differenza del sadismo e della necrofilia, non sono legati alla struttura del carattere. Ma queste esplosioni distruttive non sono spontanee nel senso che esplodono senza ragione.

In primo luogo, sono sempre stimolate da condizioni esterne, come guerre, conflitti politici o religiosi, povertà, noia estrema e svalutazione dell'individuo. In secondo luogo, esistono ragioni soggettive: estremo narcisismo di gruppo in termini religiosi o nazionali, come in India; una certa propensione a cadere in stati di trance, come in alcune parti dell'Indonesia. Non è la natura umana a fare un'improvvisa comparsa; è il potenziale distruttivo che viene incoraggiato da certe condizioni permanenti e mo-bilitato da improvvisi eventi traumatici. Senza questi fattori di provocazione, le energie distruttive sembrano assopirsi nelle popolazioni e, a differenza di quanto avviene per il carattere distruttivo, non sono una fonte continua di energie.

Distruttività vendicativa

La distruttività vendicativa è una reazione spontanea a una sofferenza intensa e ingiustificata inflitta a una persona, o ai membri del gruppo con cui ci si identifica. Si differenzia dalla normale aggressione difensiva per due aspetti: (1) avviene dopo che il danno è stato fatto, e perciò non è una difesa contro la minaccia di un pericolo; (2) è di intensità di gran lunga superiore, spesso crudele, voluttuosa, insaziabile. 11 linguaggio stesso esprime questa qualità particolare della vendetta con la locuzione «sete di vendetta».

È superfluo sottolineare quanto sia diffusa l'aggressione difensiva sia fra i gruppi sia fra gli individui. L'istituzione della vendetta di sangue esiste praticamente in tutto il mondo: Africa orientale ,e nord-orientale, Congo superiore. Africa occidentale, fra molte tribù di frontiera nell'India nord-orientale, Bengala, Nuova Guinea, Polinesia e in Corsica (fino a poco tempo fa), ed era diffusa fra gli aborigeni nord-americani. (M. R. Davie, Port Washington 1929.) La vendetta di sangue è un dovere sacro che ricade sui membri di una famiglia, di un clan, o di una tribù, che, in caso di omicidio ai loro danni, devono uccidere un membro dell'unità corrispondente. Contrariamente alla punizione semplice, in cui il crimine è espiato con la punizione dell'omicida o del suo gruppo, nel caso della vendetta di sangue la punizione dell'aggressore non pone fine alla sequenza. L'omicidio punitivo rappresenta una nuova uccisione che, a sua volta, obbliga i membri del gruppo punito a punire il vendicatore, e così via all'infinito. Teoricamente, la vendetta di sangue è una catena senza fine e, in realtà, talvolta porta all'estinzione di intere famiglie o di gruppi più ampi. Anche se rappresenta un'eccezione, la vendetta di sangue si ritrova persino in popolazioni pacifiche come quelle della Groenlandia, che ignorano il significato della guerra, anche se, come scrive Davie, «questa pratica è poco sviluppata e, di norma, il dovere non ricade pesantemente sui sopravvissuti». (M. R. Davie, Port Washington 1929.)

Oltre alla vendetta di sangue, tutte le forme di punizione - da quelle primitive a quelle moderne - sono espressioni di vendetta. (K. A. Menninger, New York 1969.) Esempio classico è la lex talionis del Vecchio Testamento. La minaccia di punire un misfatto fino alla terza e alla quarta generazione è anch'essa l'espressione vendicativa di un dio i cui comandamenti sono stati infranti, anche se, a quanto pare, si è cercato di attenuare il concetto tradizionale con l'aggiunta «concedendo misericordia a migliaia di uomini, perdonando l'ingiustizia, la colpa e il peccato». Ritroviamo la stessa idea fra molte società primitive, per esempio, nella legge degli Yakut, che dicono: «Quando si sparge sangue umano, l'espiazione è necessaria». Fra gli Yakut, i figli dell'assassinato si vendicavano sulla prole dell'omicida fino alla nona generazione. (M. R. Davie. Port Washington 1929.)

È innegabile che la vendetta di sangue e il codice penale, per quanto insufficienti, abbiano anche una certa utilità nel conservare la stabilità sociale. Quando questa funzione viene a mancare, il piacere della vendetta arriva alla massima potenza. Così molti Tedeschi erano motivati dal desiderio di vendicarsi per una serie di ragioni: la sconfitta nella guerra del 1914-1918, o più specificamente l'ingiustizia del trattato di Versailles nelle sue condizioni materiali e, particolarmente, nella pretesa che il governo tedesco si accollasse tutta la responsabilità per l'esplosione della guerra. È noto che le atrocità vere o presunte possono scatenare la rabbia e la vendicatività più intense. Intorno ai presunti maltrattamenti delle minoranze tedesche in Cecoslovacchia, Hitler costruì la sua propaganda prima di attaccare il paese; la storia della mutilazione di alcuni generali che si opponevano a Sukarno servi come scintilla iniziale per scatenare il massacro in massa compiuto in Indonesia nel 1965. Un esempio di sete di vendetta durata quasi duemila anni è la reazione all'esecuzione di Gesù Cristo di cui gli Ebrei furono ritenuti colpevoli; l'invettiva «assassini-di-Cristo» è stata tradizionalmente una delle maggiori fonti di anti-semitismo violento.

Ma perché la vendetta è una passione così intensa e radicata in profondità? Posso offrire soltanto alcune congetture. Consideriamo in primo luogo l'idea che la vendetta sia in un certo senso un atto magico: si cancella magicamente il delitto, distruggendo chi l'ha commesso. Questo concetto è espresso tuttora nella massirfia che, attraverso la punizione, «il criminale ha pagato il suo debito»; almeno in teoria, è come qualcuno che non ha mai commesso un delitto. Si potrebbe vedere nella vendetta una riparazione magica. Ma, anche in questo caso, come mai il desiderio di riparazione è così intenso? Forse l'uomo è dotato di un elementare senso di giustizia, dovuto a un senso profondamente radicato di «uguaglianza esistenziale» : tutti siamo generati da una madre, siamo stati bambini inermi, e moriremo.4 Sebbene spesso non possa difendersi contro il male che gli viene inflitto, nel suo desiderio di vendetta l'uomo cerca di cancellare la macchia, negando, con una formula magica, l'esistenza del danno. (Sembra che l'invidia5 abbia la stessa radice. Caino non potè sopportare di essere respinto mentre suo fratello veniva accettato. Il rifiuto fu arbitrario, ed egli non aveva il potere di cambiarlo; questa ingiustizia fondamentale scatenò un'invidia tale che, per regolare i conti, non restava altra possibilità che ucci-dere Abele.) Ma la causa della vendetta dev'essere costituita da altri elementi. Sembrerebbe che, quando fallisce Dio o l'autorità secolare, l'uomo amministri la giustizia con le sue mani, come se, nella passione della vendetta, si elevasse al ruolo di Dio, di angelo vendicatore. È possibile che, proprio per questa auto-elevazione, l'atto della vendetta diventi il suo grande momento.

Possiamo tentare qualche altra congettura. La crudeltà come castrazione, mutilazione fisica, tortura, viola quel minimo di coscienza comune a tutti gli uomini. La passione di vendetta contro i colpevoli di atti tanto disumani è mobilitata da questa coscienza elementare? O si tratta, inoltre, di una difesa contro la consapevolezza della propria distruttività attraverso la proiezione : loro - non io - sono distruttivi e crudeli?

Per rispondere a questi interrogativi occorre uno studio più approfondito del fenomeno.

Dalle considerazioni raccolte fino a questo punto sembra comunque emergere la tesi che la passione della vendetta è talmente radicata in profondità, da essere sicuramente presente in tutti gli uomini. Eppure questo assunto è smentito dai fatti. Per quanto diffusa, essa presenta notevoli differenze di intensità, e in certe culture6 e individui sembra limitarsi a tracce minime. Questo divario è originato certamente da alcuni fattori. Uno è quello della penuria, in contrasto con l'abbondanza. La persona o il gruppo che ha fiducia nella vita, che se la gode, che ha risorse materiali non ampie, ma sufficienti per non sollecitare l'avarizia, sarà meno desiderosa di riparazione di una persona ansiosa, ac- cumulatrice, timorosa di non poter mai porre rimedio alle eventuali perdite.

Con un certo grado di approssimazione potremo affermare quanto segue: la sete di vendetta può essere raffigurata come una linea, a una estremità della quale troviamo coloro che, in nessun caso, avrebbero desiderio di vendetta, perché hanno raggiunto un grado di sviluppo che, secondo i princìpi buddisti o cristiani, rappresenta l'ideale per tutti gli uomini. All'altra estremità, le persone con un carattere ansioso, accumulatore, estremamente narcisistico; in loro anche il più lieve danno susciterà un intenso desiderio di vendetta. Questo tipo è esemplificato dall'uomo che, se derubato di qualche dollaro, esige una severa punizione per il ladro; dal professore che, non vedendosi trattato con rispetto, scrive un rapporto negativo sullo studente, se gli viene richiesto di raccomandarlo per un buon posto di lavoro; o dal cliente che, «maltrattato» da un commesso, si lamenta presso la direzione, chiedendone il licenziamento. In tutti questi casi si tratta di un carattere in cui la vendetta è un tratto costantemente presente.

Distruttività estatica

Tormentato dalla consapevolezza della propria impotenza, del proprio isolamento, l'uomo potrà cercare di superare il suo gravame esistenziale raggiungendo uno stato estatico simile allo stato di trance («essere fuori di sé»), riconquistando così l'unità interiore e l'unità con la natura. Diversi sono i modi per arrivarvi. La natura ne fornisce uno, molto effimero, con l'atto sessuale, un'esperienza che rappresenta il prototipo naturale della concentrazione completa e dell'estasi momentanea; può coinvolgere il partner, ma troppo spesso resta un'esperienza narcisistica per ciascuno dei due, che forse arrivano a provare una gratitudine reciproca per il piacere che si sono dati l'un l'altro (convenzionalmente sentito come amore).

Abbiamo già accennato ad altri modi simbiotici, più duraturi e intensi, di raggiungere l'estasi. Li ritroviamo nei culti religiosi, come le danze estatiche, nell'uso della droga, in frenetiche orge sessuali, in stati di trance auto-indotti: un esempio notevole di questi ultimi sono le cerimonie di Bali, particolarmente interessanti in relazione, al fenomeno dell'aggressione, perché in una delle danze cerimoniali7 i partecipanti usano un Kris (un tipo speciale di pugnale) con cui infliggono ferite al proprio corpo (e di tanto in tanto reciprocamente) al culmine dello stato di trance. (J. Below, New York I960 e V. Monteil, Parigi 1970.)

Vi sono altre forme di estasi in cui l'esperienza è imperniata intorno all'odio e alla distruttività. Un esempio è il «going berserk» fra le tribù teutoniche.* In questo rito di iniziazione il giovane maschio era indotto a identificarsi con l'orso; attaccava la gente, tentando di morderla, senza parlare e facendo semplicemente i versi di un orso. Arrivare a questo stato di trance era il massimo risultato del rituale, e l'avervi partecipato segnava l'inizio di una virilità indipendente. La natura sacra di questo particolare stato d'ira è esemplificata dall'espressione furor teutoni- cus. Diverse caratteristiche del rituale sono degne di nota. Prima di tutto, la rabbia era fine a se stessa, non diretta contro un nemico, né provocata da un danno o da un insulto. Mirava a uno stato di trance, organizzato, in questo caso, intorno a un'ira onniavvolgente, forse aiutato dalla droga. (H. D. Fabing, 1956.)

Per arrivare all'esperienza dell'estasi era necessaria la forza unificatrice del furore assoluto. In secondo luogo, si trattava di uno stato collettivo, basato sulla tradizione, sulla guida degli sciamani e sugli effetti della partecipazione di gruppo. In terzo luogo, era un tentativo di regredire all'esistenza animale, quella dell'orso nel caso specifico: gli iniziati si comportavano come animali predatori. Infine, era uno stato di furore transitorio, e non cronico.

In una piccola città spagnola è sopravvissuto fino ai giorni nostri un rituale che costituisce un altro esempio di trance organizzato intorno al furore e alla distruttività. Ogni anno, in un determinato giorno, gli uomini si raccolgono sulla piazza principale, e ciascuno porta con sé un tamburo grande o piccolo. A mezzogiorno in punto cominciano a battere i tamburi, e continuano ininterrottamente per ventiquattro ore. Dopo un po' arrivano a uno stato di frenesia, che diventa trance nel corso del-l'incessante percussione dei tamburi. Esattamente a ventiquattro ore di distanza il rituale finisce. Le pelli dei tamburi si rompono, le mani dei suonatori sono gonfie e spesso sanguinanti. La caratteristica più notevole di questo fenomeno sono le facce dei partecipanti; facce di uomini in trance, su cui è dipinta una espressione di furore parossistico.8 È ovvio che battere i tamburi dà il via a potenti impulsi distruttivi. Se all'inizio il ritmo probabilmente aiuta a stimolare lo stato di trance, dopo un po' ciascun suonatore è completamente posseduto dal battito prodotto dal suo strumento, e la passione si impadronisce di lui; è soltanto per quest'alto grado di intensità che può tirare avanti ventiquattro ore, con le mani doloranti e il corpo sempre più esausto.

Idolatria della distruttività

La dedizione totale all'odio e alla distruttività presenta diverse analogie con la distruttività estatica. Anche se non è uno stato temporaneo come l'estasi, ha la funzione di impadronirsi dell'intera persona, di unificarla nell'adorazione di un solo obiettivo: distruggere. £ una condizione di idolatria permanente del dio della distruzione; i suoi adoratori si danno completamente a lui.

Kern-von Salomon:

Un caso clinico di idolatria della distruzione

Il romanzo autobiografico di E. von Salomon (1930), uno dei complici dell'assassinio, avvenuto nel 1922, di W. Rathenau, il ministro degli esteri tedesco liberale di grande talento, rappresenta un esempio eccellente di questo fenomeno.

Figlio di un ufficiale di polizia, von Salomon nacque nel 1902, ed era cadetto nell'accademia militare quando, nel 1918, esplose la rivoluzione tedesca. Era bruciato da un odio intenso, equamente ripartito fra i rivoluzionari e i borghesi del ceto medio, che, a suo avviso, trovavano appagamento negli agi materiali, e avevano perso lo spirito di sacrificio e di dedizione alla nazione. (Di tanto in tanto simpìatizzò anche con l'ala più radicale dei rivoluzionari di sinistra, perché anche quelli volevano distruggere l'ordine esistente.) Von Salomon fece amicizia con un gruppo di ex-ufficiali ugualmente fanatici, fra cui Kern, che successivamente uccise Rathenau. Alla fine fu arrestato e condannato a cinque anni di prigione.9 Come il suo eroe Kern, von Salomon può essere considerato il prototipo dei nazisti, ma, a differenza della stragrande maggioranza di questi ultimi, egli e il suo gruppo non furono opportunisti né desiderarono gli agi della vita.

Nel suo romanzo autobiografico, von Salomon dice di se stesso: «Ho sempre provato un piacere particolare nel distruggere, perciò, in mezzo alla pena quotidiana, provo un piacere pervadente nel vedere come si sia ridotto il bagaglio delle idee e dei valori, come l'arsenale dell'idealismo sia stato polverizzato, finché non ne è rimasto che un mucchietto di carne dai nervi scoperti; nervi che, come corde tese, hanno reso doppiamente vibrante ciascuna melodia nell'aria rarefatta dell'isolamento».

Ma, contrariamente a quanto si potrebbe dedurre da questo passo, von Salomon non era sempre stato un adoratore della distruzione. A quanto pare, alcuni amici, soprattutto Kern, che l'aveva enormemente impressionato, lo avevano contagiato con il loro fanatismo. Una interessante discussione fra von Salomon e Kern mette chiaramente in luce l'idolatria di quest'ultimo per odio e distruttività assoluti.

Von Salomon esordisce così: «Voglio il potere. Voglio uno scopo che riempia i miei giorni, voglio la vita con tutta la dolcezza di questo mondo, voglio essere certo che valga la pena di sacrificarsi».

Kern gli risponde furiosamente: «Maledizione, smettila, con i tuoi problemi. Descrivimi, se la conosci, una felicità più grande, se è di felicità che sei avido, di quella che si prova con la violenza, con quella violenza che ci fa morire come cani».

Qualche pagina dopo, Kern dichiara: «Non potrei tollerare che, dalle macerie di questo tempo, crescesse una nuova grandezza. Non combattiamo perché il paese sia felice, ma per costringerlo ad accettare il suo destino. Se quell'uomo (Rathenau) dovesse ridare ancora un volto alla nazione, se dovesse mobilitarla una volta ancora verso una volontà e una forma che si sono estinte nella guerra, non potrei tollerarlo».

Alla domanda come mai lui, un ufficiale dell'Impero, sia sopravvissuto ai giorni della rivoluzione, risponde : «Non sono sopravvissuto; come comanda l'onore, il 19 novembre 1918 mi sono sparato una pallottola in testa. Sono morto. Quel che vive di me, non ha più a che fare con me. Da quel giorno, non ho più avuto un "io"... Sono morto per.la nazione. Così, ogni cosa in me vive soltanto per la nazione. Come potrei tollerare che cambiasse! Faccio quel che devo fare, perché muoio ogni giorno. Poiché è dedicato a una sola potenza, tutto quel che faccio è radicato in questa potenza. Essa vuole la distruzione, e io distruggo... So che mi ridurranno in polvere, che cadrò, quando questa potenza mi avrà abbandonato». (Il corsivo è mio.)

Le dichiarazioni di Kern sono completamente impregnate di un intenso masochismo, che lo porta ad essere il suddito compiacente di una potenza superiore, ma quel che interessa di più in questo contesto è la forza unificatrice dell'odio, il desiderio di distruzione che quell'uomo idolatra, e per il quale è pronto a dare la propria vita senza esitazione.

Forse influenzato dal suicidio di Kern prima di essere tratto in arresto, o dal fallimento politico delle sue idee, a un certo punto la speranza di conquistare il potere, e la dolcezza che ne deriva, sembrano cedere, in von Salomon, a un odio e a un'amarezza assoluti. In carcere si sentiva talmente solo da trovare intollerabile che il direttore cercasse di avvicinarsi a lui con interesse umano». Non sopportava le domande degli altri detenuti, nel calore dei primi giorni primaverili, c Strisciai nella mia cella che sentivo ostile. Odiavo la guardia che mi apriva la porta, e l'uomo che mi portava la zuppa e i cani che giocavano da-vanti alla finestra. Avevo paura della gioia.» (Il corsivo è mio.) Poi spiega come lo rendesse furibondo l'albero del cortile quando cominciò a fiorire. Descrive la sua reazione al terzo Natale trascorso in carcere, che il direttore cercò di rendere gradevole ai detenuti, per aiutarli a dimenticare.

Ma io non voglio dimenticare. Che possa essere dannato se mai dovessi dimenticare. Voglio imprimermi nella mente ogni giorno e ogni ora del passato. Perché questo crea un odio potente. Non voglio dimenticare alcuna umiliazione, alcuna mancanza di rispetto, alcun gesto arrogante, voglio ripensare a ogni atto meschino che mi è stato inflitto, a ogni parola che mi ha fatto soffrire, e che è stata detta per farmi soffrire. Voglio ricordare ogni faccia e ogni esperienza e ogni nemico. Voglio che tutta la mia vita sia impregnata di questa sozzura disgustosa, del cumulo di ricordi disgustosi. Non voglio dimenticare; ma quel poco di bene che ho avuto, quello si lo voglio dimenticare. (Il corsivo è mio.)

In un certo senso, von Salomon, Kern e il loro piccolo gruppo potrebbero passare per rivoluzionari; volevano annientare la struttura politica e sociale esistente e rimpiazzarla con un ordine nazionalistico, militarista, del quale non avevano alcuna idea concreta. Ma un rivoluzionario in senso caratterologico non è animato soltanto dal desiderio di rovesciare il vecchio ordine e, se non è motivato dall'amore per la vita e la libertà, è un ribelle distruttivo. (Questo vale anche per coloro che, pur partecipando a genuini movimenti rivoluzionari, sono motivati dalla distruttività.) Analizzando la realtà psichica dei personaggi in questione, scopriamo che furono distruttori, e non rivoluzionari. Non solo odiarono i loro nemici, ma la vita stessa, come emerge chiaramente dalle dichiarazioni di Kern e dalle sue reazioni, che von Salomon descrive nella propria autobiografia, verso gli altri detenuti, gli alberi, gli animali. Non sentiva alcun legame con cosa o essere vivente, era totalmente insensibile.

Tanto più ci colpisce questo strano atteggiamento se lo confrontiamo con quello di molti rivoluzionari genuini nella vita privata, e soprattutto in prigione. Tornano alla memoria le famose lettere dal carcere in cui Rosa Luxemburg descrive con tenerezza poetica gli uccelli che osserva dalla sua cella, senza traccia di amarezza o di rancore. Ma non è indispensabile tirare in campo un personaggio straordinario come la Luxemburg. Ci furono, e vi sono tuttora nel mondo migliaia e migliaia di rivoluzionari imprigionati, il cui amore per la vita non si è mai smorzato durante gli anni di carcere.

Per capire come mai persone come Kern e von Salomon cercassero soddisfazione nell'odio e nella distruzione, dovremmo saperne di più della loro vita; ma poiché non è possibile, dobbiamo accontentarci di conoscere una condizione determinante per questa idolatria dell'odio. Tutto il loro mondo era stato distrutto, moralmente e socialmente. I loro valori nazionalistici, i loro concetti feudali di onore e di obbedienza, tutte queste cose avevano perso ogni fondamento con la sconfitta della monarchia. (Anche se, in ultima analisi, a distruggere questo universo semi-feu-dale, non era stata la vittoria degli Alleati, ma la marcia vittoriosa del capitalismo all'interno della Germania.) Mentre quattordici anni dopo avrebbero avuto chances professionali eccellenti, quel che avevano imparato come ufficiali era ora perfetta-mente inutile. La loro sete di vendetta, la banalità della loro esistenza attuale, la mancanza di radici sociali spiegano ampiamente l'idolatria dell'odio. Ma non sappiamo se e in quale misura la loro distruttività fosse espressione di una struttura caratteriale già formata parecchi anni prima che scoppiasse la prima guerra mondiale. Questa ipotesi sembra più probabile per quanto riguarda Kern, mentre, a mio avviso, l'atteggiamento di von Salomon era forse più transitorio e fortemente indotto dalla eccezionale personalità di Kern. In realtà, Kern sembra presentare i tratti del carattere necrofilo che illustrerò in seguito. Ne ho parlato qui perché egli costituisce un buon esempio dell'idolatria dell'odio.

È il caso di aggiungere un'osservazione per questi come per diversi altri esempi di distruttività, soprattutto a livello di gruppo. Mi riferisco all'effetto «detonante» del comportamento distruttivo. Posta di fronte a una minaccia, una persona potrà reagire con un'aggressione difensiva; già con questo comportamento ha superato alcune inibizioni convenzionali al comportamento aggressivo, la qual cosa facilita altre forme di aggressività, come distruzione e crudeltà. Ne può derivare una specie di reazione a catena in cui la distruttività diventa così intensa che, quando si raggiunge la «massa crìtica», ne risulta uno stato di estasi a livello individuale, ma soprattutto a livello di gruppo.

Il carattere distruttivo: il sadismo

Il fenomeno delle esplosioni distruttive spontanee, transitorie, è talmente sfaccettato, che occorre studiarlo molto più a fondo per arrivare a una comprensione più chiara e definita di quella abbozzata nelle proposte delle pagine precedenti. D'altra parte, i dati sulla distruttività-determinata-dal-carattere sono più ricchi e definiti, come è prevedibile, essendo stati ricavati dall'osservazione prolungata di individui nella psicoanalisi e nella vita quotidiana; inoltre le condizioni che generano queste forme di carattere sono relativamente stabili e di lunga durata.

Due sono i concetti convenzionali della natura del sadismo, talvolta usati separatamente, talvolta combinati.

Uno si esprime nel termine «algolagnia» (algos, «pena», lagneia, «voluttà») coniato da Schrenk-Notzing all'inizio del secolo. Egli differenziò 1'algolagnia attiva (sadismo) da quella passiva (masochismo). Secondo questo concetto, l'essenza del sadismo consiste nel desiderio di infliggere sofferenza, prescindendo da qualsiasi implicazione sessuale.10

L'altro concetto vede essenzialmente nel sadismo un fenomeno sessuale - secondo i termini di Freud (nella prima fase del suo pensiero), una pulsione parziale della libido - e spiega con una motivazione sessuale inconscia anche i desideri sadici che non sono palesemente connessi a tensioni sessuali. Per dimostrare che la libido è la forza traente della crudeltà, sono state avanzate grandiose elaborazioni psicoanalitiche, anche quando l'inesistenza di motivazioni sessuali era evidente come la luce del sole.

Con questo non voglio negare che il sadismo sessuale, insieme col masochismo, sia una delle forme più frequenti e conosciute di perversione sessuale. Per chi ne è afflitto, è una condizione

indispensabile per raggiungere l'eccitazione e lo sfogo sessuali. Esiste tutta una gamma di manifestazioni, che va dal desiderio di causare sofferenza fisica a una donna, per esempio picchiandola fino a umiliarla, a metterla in catene, o a costringerla in altro modo a un'obbedienza completa. Talvolta il sadico ha bisogno di infliggere pena e sofferenza intense per eccitarsi sessualmente; talvolta è sufficiente una piccola dose per avere l'effetto desiderato. Spesso basta una fantasia sadica per suscitare eccitazione sessuale, e non sono certo pochi gli uomini che, nei rapporti sessuali con la moglie, all'insaputa di quest'ultima, hanno bisogno di una fantasia sadica per eccitarsi sessualmente. Nel masochismo sessuale la procedura è rovesciata; per eccitarsi si ha bisogno di essere picchiati, violentati, feriti. Come perversioni sessuali, sadismo e masochismo sono molto frequenti fra gli uomini. Sembrerebbe che il sadismo sessuale sia più frequente fra gli uomini che fra le donne, almeno nella nostra cultura; è difficile accertare se, invece, il masochismo sia più frequente fra le donne, perché mancano dati sicuri sull'argomento.

Prima di dare l'avvio alla discussione sul sadismo, mi sembra il caso di verificare se si tratti di una perversione e, in caso affermativo, in quale senso specifico.

Fra certi pensatori politicamente radicali, come Herbert Marcuse, è diventato molto alla moda lodare il sadismo come una delle espressioni della libertà sessuale umana. Gli scritti del Marchese de Sade vengono ristampati da giornali politicamente radicali come manifestazioni di questa «libertà». Si accetta così la tesi di Sade: il sadismo è un desiderio umano, libertà significa diritto di soddisfare i desideri masochistici e sadici, come tutti gli altri, se danno piacere.

Il problema è molto complesso. Se, come è stato fatto, si definisce perversione ogni pratica sessuale che non conduca alla procreazione, e cioè che serva soltanto a dare piacere sessuale, allora naturalmente tutti coloro che si oppongono a questo atteggiamento tradizionale insorgeranno - e giustamente - in difesa delle «perversioni». Ma questa non è certo l'unica definizione di perversione e, a dire il vero, è piuttosto antiquata.

Anche se manca l'amore, il desiderio sessuale è un'espressione vitale, un darsi e condividere il piacere. Le uniche, vere perversioni sono quegli atti sessuali in cui una persona si riduce a oggetto per l'altra, che sfoga su di lei il suo desiderio di disprezzare, ferire, controllare; non perché escludono la procreazione, ma perché pervertono un impulso al-servizio-della-vita in un impulso che la soffoca.

La differenza è lampante se si confronta il sadismo con una forma di comportamento sessuale che è stata spesso definita perversa, e cioè con tutte le forme di contatto orale-genitale, in realtà innocue come un bacio, dato che non implicano il controllo o l'umiliazione di un'altra persona.

L'argomento che soddisfare i propri desideri sia un diritto naturale dell'uomo, che deve quindi essere rispettato, è comprensibile da un punto di vista razionalistico, prefreudiano, basato sul presupposto che l'uomo desidera esclusivamente quel che va bene per lui e che, quindi, il piacere ispira azioni desiderabili. Ma, dopo Freud, questa tesi appare abbastanza stantia. Noi sappiamo che molti desideri dell'uomo sono irrazionali, precisamente perché lo danneggiano (più di altri) e ostacolano il suo sviluppo. Chi è motivato dal desiderio di distruggere e prova piacere nell'atto distruttivo, non può certo ripararsi dietro il pretesto che ha il diritto di comportarsi distruttivamente perché così desidera, perché quella è la sua fonte di piacere. I fautori della perversione sadica potranno ribattere che non difendono la soddisfazione di desideri omicidi, distruttivi; che il sadismo è soltanto una delle varie manifestazioni della sessualità, «una questione di gusto», non peggiore di qualsiasi altra forma di soddisfazione sessuale.

Ma così si trascura il punto più importante del problema; la persona che si eccita sessualmente con pratiche sadiche ha un carattere sadico, è, dunque, un sadico, animato da un intenso desiderio di controllare, ferire, umiliare un'altra persona. L'in-tensità dei suoi desideri sadici influenza i suoi impulsi sessuali; tale stato di cose non è diverso dal fatto che altre motivazioni non-sessuali, come l'attrazione per il potere, la ricchezza, o il narcisismo possono suscitare desiderio sessuale. In realtà nell'atto sessuale, più che in qualsiasi altra sfera del comportamento, si rivela più chiaramente il carattere di una persona; precisamente perché è il comportamento meno «acquisito» e meno legato agli schemi, in cui si esprimono l'amore, la tenerezza, il sadismo o il masochismo, l'avidità, il narcisismo, le ansietà, a dire il vero ogni tratto del carattere.

Talvolta si propone la tesi che la perversione sadica sia salutare perché fornisce un'innocente valvola di sfogo a tendenze sadiche connaturate a ciascun individuo. Secondo questa logica, dunque, le guardie dei campi di concentramento hitleriani sarebbero state gentili con i prigionieri se soltanto avessero potuto sfogare le loro tendenze sadiche nei rapporti sessuali.

Esempi di sadismo-masochismo sessuali

Gli esempi seguenti di sadismo e masochismo sessuali sono ricavati dalla Histoire d'O di Pauline Réage (Parigi 1954) un libro meno noto dei classici di de Sade.

«O suonò. Pierre le incatenò le mani al di sopra della testa, alla catena del letto. Quando fu così legata, l'amante, in piedi contro di lei sul letto, le ripetè ancora che l'amava, poi scese dal letto e fece segno a Pierre. La guardò dibattersi, così vanamente, ascoltò i suoi gemiti diventare grida. Quando le lacrime presero a scorrere sul suo viso, mandò via Pierre. O trovò la forza di ripetergli che l'amava. Allora lui baciò il suo volto bagnato, la sua bocca ansante, la slegò, l'adagiò sul letto, e se ne andò.» (P. Réage. Milano 1971.)

O non deve più avere volontà; l'amante e gli amici di lui devono esercitare sulla ragazza un controllo assoluto; lei trova felicità nella schiavitù, e loro nel ruolo di padroni assoluti. Il brano che segue dà un quadro di questo aspetto di performance sado- masochistica. (Bisogna spiegare che il suo amante le ha imposto, fra le altre, la condizione di sottomettersi e di ubbidire incondizionatamente ai suoi amici come a lui. Uno di questi è Sir Stephen.)

«Finalmente si raddrizzò, e come se ciò che stava per dire la soffocasse, si slacciò i primi ganci della tunica, fino al solco fra i seni. Poi si alzò del tutto. Le ginocchia e le mani le tremavano. «Sono tua,» disse finalmente a René «sarò ciò che vorrai che io sia.» «No,» corresse lui «nostra. Ripeti con me: io sono vostra, sarò ciò che vorrete che io sia.» Gli occhi grigi e duri di Sir Stephen non la lasciavano, né quelli di René, nei quali essa si perdeva, ripetendo lentamente dopo di lui le frasi che le suggeriva, ma trasponendole in prima persona, come in un esercizio di grammatica. «Tu garantisci a me e a Sir Stephen il diritto...» diceva René, e O riprendeva più chiaramente che poteva: «Io garantisco a te e a Sir Stephen il diritto...». Il diritto di disporre del suo corpo a loro piacimento, e in qualsiasi luogo e in qualsiasi modo preferissero, il diritto di tenerla incatenata, il diritto di frustarla come una schiava o come una condannata per il mi-nimo fallo o per il loro piacere, il diritto di non tenere conto delle sue suppliche né delle sue grida, se l'avessero fatta gridare.» (P. Réage, Milano 1971.)

Ma sadismo (e masochismo) come perversioni sessuali costituiscono soltanto una frazione di tutto il sadismo che non coinvolge nessun comportamento sessuale. Il comportamento sadico non-sessuale, che mira a infliggere la pena fisica fino all'estremo della morte, ha come oggetto esseri inermi, persone o animali. Prigionieri di guerra, schiavi, nemici sconfitti, bambini, malati (soprattutto i malati di mente), detenuti delle carceri, non-bianchi disarmati, cani: tutti sono stati fatti oggetto di sadismo fisico, che spesso è arrivato alle torture più crudeli. Dagli spettacoli atroci dell'antica Roma fino ai moderni reparti di polizia, si è fatto uso della tortura camuffandola sotto pretesti religiosi o politici, e talvolta semplicemente per il divertimento delle masse sfruttate. Il Colosseo di Roma è uno dei più grandi monumenti al sadismo umano.

Il maltrattamento dei bambini è una delle manifestazioni più diffuse di sadismo non-sessuale, di cui si è stati ampiamente informati soltanto negli ultimi dieci anni, grazie ad alcuni ricercatori, a cominciare dall'opera ormai classica di C. H. Kempe ed altri (1962). Da allora parecchi altri documenti sono stati pubblicati," e sono in corso nuovi studi su scala nazionale, in cui è descritta tutta una gamma di sevizie: battere a morte, lasciar volutamente morire di fame, infliggere tumefazioni e altre ferite non-mortali. Non sappiamo quasi niente dell'incidenza reale di questi atti, poiché i dati disponibili provengono tutti da fonti ufficiali (la polizia, per esempio, chiamata dai vicini, gli ospedali) ma sembra certo che i casi noti siano soltanto una piccola parte di quelli reali. I dati più attendibili sembrano essere quelli raccolti da Gill nel corso della sua indagine su scala nazionale. Ne riporterò solo alcuni. Le età dei bambini sottoposti a maltrattamenti possono essere suddivise in diversi periodi: (1) da uno a due anni; (2) l'incidenza raddoppia da tre a nove anni; (3) dai nove ai quindici anni l'incidenza diminuisce di nuovo, raggiun-gendo approssimativamente il precedente livello, e scompare gradualmente dopo i sedici anni. (D. G. Gill, Cambridge 1970.) Questo significa che il sadismo raggiunge la massima intensità quando il bambino, pur essendo ancora inerme, comincia ad avere una sua volontà e a reagire contro l'adulto che vuole controllarlo completamente.

Probabilmente ancor più diffusa del sadismo fisico è la crudeltà mentale, il desiderio di umiliare e di ferire i sentimenti di un'altra persona. Questo tipo di attacco è molto più sicuro per il sadico, che, dopo tutto, non deve usare la forza fisica, ma «soltanto» le parole. D'altra parte, la sofferenza psichica può essere intensa quanto quella fisica, e forse anche più. Non occorre fare esempi di questo sadismo mentale. I genitori lo infliggono ai bambini, i professori agli studenti, i superiori agli inferiori, in altre parole, esso emerge in ogni situazione in cui qualcuno è indifeso dal sadico. (Se inyece è inerme l'insegnante, spesso sono gli studenti che si trasformano in sadici.) Per mascherare il sadismo mentale, esistono vari modi apparentemente innocui : una domanda, un sorriso, un'osservazione che imbarazza l'altro. Chi non conosce un «artista» che abbia questo tipo di sadismo, quello che trova sempre la parola o il gesto giusto per imbarazzare o umiliare un altro con apparente innocenza? Naturalmente la tortura è tanto più efficace se viene inflitta pub-blicamente.12

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La natura del sadismo

. Finora ci siamo limitati a descrivere vari tipi di comportamento sadico, sessuale, fisico e mentale. Poiché non sono indipendenti l'uno dall'altro, si tratta ora di scoprire l'elemento comune, l'essenza del sadismo: secondo la psicoanalisi ortodossa, sarebbe un particolare aspetto della sessualità. Nella seconda fase della sua elaborazione teorica Freud asserì che il sadismo era un miscuglio di Eros (sessualità) e di istinto di morte, proiettati al di fuori di sé, mentre il masochismo è un miscuglio di Eros e di istinto di morte diretto verso se stessi.

Io propongo invece la tesi che il nucleo del sadismo, comune a tutte le sue manifestazioni, sia la passione di esercitare un controllo assoluto e illimitato su un essere vivente, sia esso animale o bambino, uomo o donna. Costringere qualcuno a sopportare pene o umiliazioni senza avere nemmeno la possibilità di difendersi è una delle manifestazioni di controllo assoluto, ma non è certo l'unica. Chi esercita il controllo assoluto su un altro essere trasforma quest'ultimo in un suo oggetto, in una sua proprietà, di cui diventa il dio. Talvolta il controllo può persino essere benefico, e in tal caso potremo parlare di sadismo benevolo, come in tutti i casi in cui una persona domina l'altra' per il suo bene, incoraggiandone di fatto lo sviluppo sotto diversi aspetti, ma tenendola in catene. Quasi sempre, però, il sadismo è malevolo. Controllare completamente un altro essere vivente significa mutilarlo, soffocarlo, frustrarlo. Tale controllo presenta tutta una gamma di forme e livelli.

Nella sua opera teatrale Caligola Albert Camus ha delineato un esempio estremo di controllo sadico, che equivale a un desiderio di onnipotenza. Vediamo come Caligola, giunto per una serie di circostanze a una posizione di potere illimitato, diventa sempre più schiavo della sua sete di potere. Va a letto con le mogli dei senatori, godendo dell'umiliazione di questi ultimi, costretti ad ammirarlo, a strisciare davanti a lui. Ne uccide alcuni, ma i sopravvissuti devono per forza sorridere e stare ai suoi scherzi. Nemmeno a questo punto è soddisfatto; vuole l'assoluto, vuole l'impossibile. Come gli fa dire Camus, «voglio la luna».

È abbastanza facile concludere che Caligola è pazzo, solo che * la sua follia è un sistema di vita; è una soluzione ben precisa al problema dell'esistenza umana, perché alimenta l'illusione dell'onnipotenza, l'illusione di trascendere le frontiere dell'esistenza umana. Tentando di conquistare questo potere assoluto Cali

gola perde ogni contatto con gli uomini. Escludendoli, diventa a sua volta un escluso. La follia è inevitabile, perché, quando fallisce il tentativo di conquistare l'onnipotenza, egli resta solo, impotente.

Naturalmente, il caso di Caligola è eccezionale. Pochi hanno raggiunto un potere tale da illudersi che possa diventare assoluto. Ma alcuni ve ne sono stati, nel corso di tutta la nostra storia, fino ai tempi moderni; se rimangono vittoriosi, vengono celebrati come grandi statisti o generali; se vengono sconfitti, sono giudicati pazzi o criminali.

Questa soluzione estrema al problema dell'esistenza umana è preclusa alla persona media. Eppure in quasi tutti i sistemi sociali, compreso il nostro, persino chi è confinato ai più infimi gradini sociali può avere controllo su qualcuno che è soggetto al suo potere. Ci sono sempre dei bambini, delle mogli, dei cani adatti allo scopo; o persone inermi, come i detenuti delle prigioni, i pazienti degli ospedali, se non sono abbienti (e soprattutto i malati di mente), gli allievi delle scuole, i membri delle burocrazie civili. E’ la struttura sociale a determinare in quale misura è controllato o limitato il potere effettivo dei superiori in ciascuno di questi casi, e la possibilità di soddisfazione sadica che ne può scaturire. A prescindere da tutte queste situazioni, le minoranze religiose e razziali, proprio perché inermi, offrono ampie opportunità di soddisfazione sadica persino per il membro più povero della maggioranza.

Il sadismo è una delle risposte al problema di nascere uomo, in assenza di alternative migliori. L'esperienza di controllo assoluto su un altro essere, di onnipotenza per quanto lo (o la) riguarda, crea l'illusione di trascendere i limiti dell'esistenza u- mana, particolarmente per coloro che conducono una vita squallida e improduttiva. Sostanzialmente il sadismo non ha scopi pratici; non è «banale», ma «devozionale». È. la trasformazione dell'impotenza nell'esperienza dell'onnipotenza : è la religione di chi è psichicamente zoppo.

Ma non tutte le situazioni in cui una persona o un gruppo esercitano un potere non-controllato su altri generano sadismo. Molti, forse la maggior parte dei genitori, guardie carcerarie, insegnanti, burocrati, non sono sadici. Per una serie di ragioni,

la struttura del carattere di diversi individui non porta allo sviluppo del sadismo nemmeno nelle circostanze propizie. Le persone con un carattere in cui predomina l'amore per la vita difficilmente subiranno la seduzione del potere. Ma sarebbe pericolosamente semplicistico classificare la gente in due gruppi nettamente delineati: i diavoli sadici e i santi non-sadici. La vera discriminante è rappresentata dall'intensità della passione sadica all'interno della struttura caratteriale di un determinato individuo. Diverse persone presentano, nel carattere, elementi sadici, controbilanciati, però, da tendenze così robuste di amore per la vita, che è impossibile classificarle come sadiche. Non di rado, in questi individui, il conflitto interiore fra i due orientamenti sfocia in una sensibilità accresciuta verso il sadismo, e nella formazione reattiva di allergia contro tutte le sue manifestazioni. (Può darsi che tracce delle loro tendenze sadiche emergano in episodi marginali, poco importanti del loro comportamento, talmente lievi da passare inosservate.) In altri caratteri il sadismo è se non altro bilanciato da forze contrarie (non semplicemente represse); mentre provano un certo piacere nel controllare gente inerme, non parteciperebbero né trarrebbero piacere dalla tortura e da atrocità analoghe (tranne che in circostanze eccezionali, come la frenesia di massa). Questo può essere dimostrato con l'atteggiamento assunto dal regime hitleriano nei riguardi delle atrocità sadiche da esso ordinate; fu costretto a tener segreto alla grande maggioranza della popolazione tedesca lo sterminio di civili ebrei, polacchi e russi, di cui era al corrente soltanto un piccolo gruppo, l'élite delle SS. Himmler e altri esecutori di atrocità affermarono, in diversi discorsi, che le uccisioni dovevano essere fatte in modo «umano», senza eccessi sadici, perché altrimenti sarebbe stato troppo ripugnante persino per le SS. In certi casi fu impartito l'ordine che i civili russi e polacchi destinati a morire fossero sottoposti a un breve processo formale, per dare ai loro esecutori la sensazione che fucilarli fosse «legale». Anche se si tratta di un'assurda montatura ipocrita, essa rivela tuttavia l'opinione dei leaders nazisti: che cioè atti sadici perpetrati su vasta scala avrebbero disgustato la maggior parte dei sostenitori del regime, altrimenti fedelissimi. Dal 1945 è stato portato alla luce parecchio materiale, ma finora nessuno ha compiuto una ricerca sistematica per scoprire in quale misura i Tedeschi fossero attratti da atti di sadismo, anche se evitarono di esserne informati.

Per capire i tratti caratteriali sadici è necessario non isolarli dal complesso dell'intera struttura del carattere, poiché essi sono parte di una sindrome che dev'essere intesa come un tutto. Per la persona sadica tutto ciò che è dotato di vita dev'essere controllabile; gli esseri viventi diventano cose. O, per essere ancora più esatti, gli esseri viventi sono trasformati in oggetti di controllo, viventi, frementi, pulsanti. Le loro reazioni sono condizionate da colui che li controlla. Ma il sadico vuole diventare padrone della vita, la cui peculiarità viene quindi preservata nella sua vittima. È questo, in realtà, che lo distingue dalla persona distruttiva. Il distruttore vuole liberarsi di una persona, eliminarla, distruggere la vita stessa; il sadico ricerca la sensazione di controllarla e di soffocarla.

Un altro tratto caratteristico del sadico consiste nel fatto che egli è stimolato soltanto dagli inermi, e mai da coloro che sono forti. Ferire un nemico in una lotta fra eguali, per esempio, non provoca alcun piacere sadico, perché' in tal caso non si tratta di una espressione di controllo. Per il sadico esiste una sola qualità degna di ammirazione: il potere. Egli ammira, ama coloro che detengono il potere, gli si sottomette, disprezzando e desiderando di controllare gli inermi, coloro che non possono restituire il colpo.

Il carattere sadico teme tutto ciò che non è sicuro e prevedibile, che offra sorprese tali da costringerlo a reazioni spontanee e originali. Per questo motivo egli ha paura della vita. La vita lo spaventa, perché, per sua stessa natura, è incerta e imprevedibile. È strutturata, ma non ordinata; c'è una sola certezza nella vita: che tutti gli uomini devono morire. L'amore è altrettanto incerto. Essere amati richiede la capacità di saper amare, di risvegliare amore, e implica sempre il rischio del rifiuto e del fallimento. Ecco perché il carattere sadico può «amare» soltanto quando può controllare, e cioè quando ha potere siili'oggetto del proprio amore. In genere è xenofobo e neofobo: chi è straniero costituisce una novità, e ciò che è nuovo suscita paura, sospetto, disgusto, perché richiede una reazione spontanea, viva, non-consacrata-dalla-routine.

Un altro elemento di questa sindrome è la sottomissione, la codardia. A tutta prima, affermare che il sadico è un sottomesso può sembrare contraddittorio, eppure non è una contraddizione, anzi, dinamicamente parlando, è una necessità. Egli è sadico proprio perché si sente impotente, non-vivo, incapace. Tenta di trovare una compensazione nell'esercitare potere sugli altri, nel trasformarsi - lui che si sente un verme - in dio. Ma persino il sadico che detiene il potere soffre della sua impotenza umana. Può uccidere e torturare, ma rimane pur sempre una persona isolata, senza amore, spaventata, che ha bisogno di un potere superiore cui sottomettersi. Per coloro che si trovavano un gradino sotto Hitler, il Führer era questo potere supremo; per Hitler stesso c'era il Destino, le leggi dell'Evoluzione.

Questa esigenza di sottomissione è radicata nel masochismo. Sadismo e masochismo, invariabilmente collegati, sono opposti solo in termini comportamentistici, ma in realtà sono le due facce diverse di una stessa fondamentale situazione: il senso di impotenza vitale. Sia il sadico sia il masochista hanno bisogno di un altro essere per «completarsi». Il sadico trasforma l'altro in una estensione di se stesso; il masochista si riduce a estensione dell'altro. Entrambi ricercano una relazione simbiotica, perché nessuno dei due ha un proprio centro interiore. Mentre potrebbe sembrare che il sadico sia libero rispetto alla sua vittima, in realtà ne ha perversamente bisogno.

Per via della strettissima connessione esistente fra sadismo e masochismo, è più corretto parlare di carattere sado-masochista, anche se, in una particolare persona, prevarrà l'uno o l'altro aspetto. Il sado-masochista è stato anche definito «carattere autoritario», traducendo così l'aspetto psicologico della sua struttura caratteriale in termini di atteggiamento politico. Questo concetto trova la propria giustificazione nel fatto che le persone il cui atteggiamento politico è generalmente definito autoritario (attivo e passivo), di solito presentano (nella nostra società) i tratti del carattere sado-masochista: controllo degli inferiori e sottomissione ai superiori.16

È impossibile capire a fondo il carattere sado-masochista senza fare riferimento al concetto freudiano di «carattere anale», ampliato dai suoi discepoli, particolarmente da K. Abraham e Ernest Jones.

Freud (1908) credeva che il carattere anale si manifestasse in una sindrome di tratti caratteriali : ordine, parsimonia, ostinazione, cui in seguito furono aggiunte puntualità e pulizia. Egli partì dal presupposto che la sindrome fosse radicata nella «libido anale», che ha origine dalla zona erogena anale. I tratti caratteriali della sindrome furono spiegati come formazioni reattive o sublimazioni degli obiettivi di questa libido anale.

Tentando di mettere il tipo di relazione al posto della teoria della libido, sono arrivato all'ipotesi che i vari tratti della sindrome sono manifestazioni del tipo di rapporto accumulatore («carattere accumulatore»), che tiene a distanza, controlla, respinge. (E. Fromm, New York 1947.) Ciò non significa che siano inesatte le osservazioni cliniche di Freud riguardo al ruolo particolare di tutto ciò che è connesso con le feci e con i movimenti degli intestini. Al contrario, nell'osservazione psicoanalitica di individui, ho visto completamente confermate le tesi di Freud. Esiste però una differenza che riguarda il tipo di risposta da dare a questo interrogativo: la libido anale è la fonie dell'interesse per le feci, e, indirettamente, della sindrome del carattere anale, oppure la sindrome è la manifestazione di un particolare tipo di rapporto? In quest'ultimo caso l'interesse anale dev'essere inteso come un'altra espressione, simbolica, del carattere anale, e non come la sua causa. Infatti le feci sono un simbolo molto ad hoc: rappresentano quel che viene eliminato dal processo vitale umano e che non serve più alla vita dell'uomo.17

Il carattere accumulatore è molto ordinato per quanto riguarda gli oggetti, i pensieri, i sentimenti, ma questo ordine è rigido e sterile. Non può sopportare che le cose siano fuori di posto e le rimette in ordine, controllando così lo spazio; con la sua puntualità irrazionale controlla il tempo; con la sua pulizia ossessiva cancella il contatto avuto col mondo, considerato sporco e ostile. (Talvolta, però, se non ha sviluppato nessuna formazione reattiva o sublimazione, non è maniaco della pulizia, ma tende anzi a essere sporco.) Il carattere accumulatore si sente come una fortezza assediata; deve impedire che qualcosa ne esca e preservare quel che vi è nascosto. La sua ostinazione e inflessibilità sono una difesa quasi-automatica contro le intrusioni.

L'accumulatore, tendenzialmente, ha la sensazione di possedere soltanto una quantità fissa di forza, energia, capacità mentale, che potrebbe diminuire o esaurirsi con l'uso, e non essere mai reintegrata. Egli non può capire la funzione auto-reintegra- trice di ogni sostanza vivente, né comprendere che l'attività e l'uso dei nostri poteri accrescono la nostra forza, indebolita, invece, dalla stagnazione; per lui, morte e distruzione sono più reali della vita e della crescita. Il miracolo della creazione è qualcosa di cui ha sentito parlare, ma in cui non crede. I suoi valori più alti sono ordine e sicurezza; il suo motto: «Non c'è nulla di nuovo sotto il sole». Nei rapporti con gli altri, l'intimità è una minaccia; per sentirsi sicuro, deve possedere una persona, oppure tenerla a distanza. Tendenzialmente l'accumulatore è sospettoso e ha un suo particolare senso di giustizia che si riduce a questi termini essenziali : «Quel che è mio è mio, e quel che è tuo è tuo».

Il carattere anale-accumulatore ha soltanto un modo per sentirsi sicuro nei suoi rapporti col mondo: possederlo e controllarlo, poiché è incapace di avere un rapporto di amore e produttività.

Che il carattere anale-accumulatore sia in stretta relazione col sadismo descritto dagli psicoanalisti classici è ampiamente dimostrato dai dati clinici, e interpretare questa connessione secondo la teoria della libido o secondo il rapporto dell'uomo col mondo fa ben poca differenza. Una prova ulteriore è costituita dal fatto che i gruppi sociali con un carattere anale-accumulatore tendono a mostrare un grado elevato di sadismo.18

Equivalente su per giù al carattere sado-masochista, in senso sociale piuttosto che politico, è il carattere burocratico.19 Nel sistema burocratico ogni persona controlla quella sul gradino direttamente inferiore al suo, ed è controllata da quella del gradino superiore. Questo sistema consente soddisfazione sia agli I impulsi sadici sia a quelli masochistici. Il carattere burocratico disprezzerà gli inferiori, mentre ammirerà e temerà i superiori. Basta soltanto osservare l'espressione e la voce di un certo tipo di burocrate mentre critica un subordinato, o aggrotta la fronte se quello arriva con un minuto di ritardo, o mentre insiste su un tipo di comportamento che esprima almeno simbolicamente I' «appartenenza > al superiore durante le ore di ufficio. Si potrebbe ricordare la faccia del burocrate dietro lo sportello dell'ufficio postale, osservare quel sorrisetto invisibile quando egli chiude bottega alle 17.30 in punto, mentre gli ultimi due, che stanno li a far la fila già da mezz'ora, devono andarsene per tornare il giorno dopo. Quel che conta non è che egli smetta di vendere francobolli alle 17.30 in punto: l'aspetto importante del suo comportamento è che egli gode a frustrare la gente, a dimostrarle che è lui a controllarla, una soddisfazione che si riflette nell'espressione della sua faccia.20

È inutile dire che non tutti i burocrati vecchio-stampo sono sadici. Soltanto con un approfondito studio psicologico si potrebbe determinare l'incidenza del sadismo in questo gruppo, in confronto ai non-burocrati o ai moderni burocrati. Per citare soltanto qualche esempio illustre, il generale Marshall e il generale Eisenhower, che furono tra i membri di grado più elevato nella burocrazia militare durante la seconda guerra mondiale, si sono distinti per l'assenza di sadismo e per l'interesse genuinamente umano dimostrato nei confronti dei loro soldati. Durante la prima guerra mondiale, invece, parecchi generali francesi e tedeschi si distinsero per la brutalità e la crudeltà con cui sacrificarono le vite dei loro soldati senza nessun valido scopo tattico.

Spesso il sadismo è camuffato con la gentilezza e con una apparente benevolenza verso certa gente, in determinate circostanze. Ma sarebbe sbagliato credere che la gentilezza sia semplicemente una frode, o soltanto una formalità, che non si basa su alcun sentimento genuino. Per capire meglio questo fenomeno, bisogna ricordare che quasi tutte le persone mentalmente sane desiderano preservare un'immagine di sé che le rappresenti come umane, almeno sotto certi aspetti. Essere completamente inumani significa essere completamente isolati, perdere ogni senso di appartenenza all'umanità. Perciò non è sorprendente che l’assenza completa di gentilezza, amicizia, tenerezza verso un qualsiasi essere umano - come dimostrano parecchi dati - crei, a lungo andare, un'ansietà intollerabile. Abbiamo resoconti21 di casi di follia e di disturbi psichici, per esempio fra uomini che appartennero alle formazioni speciali dei nazisti e che dovettero uccidere migliaia di persone. Sotto il regime nazista, diversi funzionari che dovettero eseguire gli ordini per i massacri di massa furono colpiù da gravi esaurimenti nervosi, chiamati Funktionärskrankheit (malattia del «funzionario»).22

Ho usato le parole «controllo» e «potere» in riferimento al sadismo, ma bisogna essere chiaramente consapevoli della loro ambiguità. Potere può significare potere su altri, oppure il potere di fare certe cose. Quel che il sadico desidera con tutto se stesso è il potere sulla gente, proprio perché egli non ha il potere di essere. Purtroppo molti scrittori usano le parole «potere» e «controllo» in questa accezione ambigua, e, per contrabbandare l'esaltazione del «potere su», lo identificano con il «potere di». Infine, l'assenza di controllo non significa assenza di ogni tipo di organizzazione, ma soltanto di quelle forme in cui il controllo significa sfruttamento, e il controllato non può controllare chi lo controlla. Diverse società primitive e comunità volontarie contemporanee hanno dato esempio di autorità razionale basata sul consenso autentico - non manipolato - di tutti, che esclude lo sviluppo di relazioni improntate al «potere su».

Indubbiamente anche chi non ha il potere di difendersi ha sofferenze caratterologiche. Invece che sadico, può diventare sottomesso e masochista. Ma la sua impotenza reale può anche portarlo a sviluppare virtu come la solidarietà, la compassione, la creatività. Essere inermi e correre quindi il pericolo di diventare schiavi, o avere il potere e correre quindi il pericolo di disumanizzarsi, sono entrambi un male. Quale dei due debba essere maggiormente evitato dipende dalle convinzioni politiche o religiose e morali. Il Buddismo, la tradizione ebraica a cominciare dai Profeti, il Vangelo cristiano, hanno espresso una posizione chiara, contrastante con il pensiero contemporaneo. Se è del tutto legittimo operare sottili distinzioni fra potere e non-po- tere, bisogna assolutamente evitare un pericolo: quello di usare il significato ambiguo di certe parole per raccomandare di servire contemporaneamente Dio e Cesare, o peggio ancora, di identificarli.

Le condizioni che generano il sadismo

Il problema di esaminare quali fattori portino allo sviluppo del sadismo è troppo complicato per risolverlo adeguatamente nel corso di questo libro. Un punto, però, deve essere chiaro fin dall'inizio: non esiste una connessione semplice, lineare, fra ambiente e carattere, perché il carattere individuale è determinato da fattori individuali, come disposizioni costituzionali, idiosincrasie per la vita familiare, eventi eccezionali nella vita di una persona. A prescindere dal ruolo di tutti questi fattori individuali. anche quelli ambientali sono molto più complessi di quanto comunemente si creda. Come ho già sottolineato, una società non è una società. Una società è un sistema altamente complesso. Le nuove e le vecchie classi medio-inferiori, le nuove classi medie, le classi superiori, le élites in decadimento, i gruppi con o senza tradizioni religiose o filosofico-morali, le cittadine di provincia e le metropoli, sono soltanto alcuni dei fattori che devono essere presi in considerazione. Nessun fattore isolato può spiegare la struttura del carattere c la struttura della società. Perciò, se si vuole stabilire un nesso fra struttura sociale e sadismo, sarà indispensabile una radicale analisi empirica di tutti i fattori. Ma allo stesso tempo bisogna aggiungere che il potere attraverso il quale un gruppo sfrutta e reprime un altro gruppo tende a generare sadismo nel gruppo che esercita il controllo, anche se numerose possono essere le eccezioni individuali. Il sadismo scomparirà (tranne che nelle sue manifestazioni puramente individuali) soltanto quando verrà distrutto il controllo e lo sfruttamento di ogni classe, sesso o gruppo di minoranza. Con l'eccezione di alcune piccole società, questo non si è mai verificato nella storia. Tuttavia un passo in questa direzione è stato compiuto instaurando un ordine basato sulla legge, che impedisca l'uso più arbitrario del potere, anche se tale sviluppo è stato recentemente bloccato in varie parti del mondo, dove pure era esistito, e viene minacciato persino negli Stati Uniti in nome dell'ordine e della legalità.

In una società basata sul controllo e sullo sfruttamento troviamo altre caratteristiche prevedibili. Essa tende a indebolire l'indipendenza, l'integrità, il pensiero critico, la produttività di coloro che vi sono sottomessi. Pur elargendo ogni tipo di divertimento e di stimolo, limita lo sviluppo della personalità, invece di incoraggiarlo. I Cesari dell'antica Roma allestivano grandiosi spettacoli pubblici, prevalentemente di natura sadica. La società contemporanea offre spettacoli analoghi attraverso i resoconti dei giornali e della televisione su crimini, guerre, atrocità; quando le storie non sono raccapriccianti, sono annacquate come i cereali per la prima colazione pubblicizzati dai mass media a spese della salute dei bambini. Questo cibo culturale, invece di offrire stimoli attivanti, incoraggia la passività e la pigrizia. Nel caso migliore offre divertimento e brividi, ma quasi mai gioia; non può esservi gioia senza libertà, senza che si allentino le briglie del controllo, ed è proprio questa la cosa più difficile per il tipo anale-sadico.

Per quanto riguarda il sadismo nell'individuo, esso corrisponde alla media sociale, con deviazioni individuali al di sopra e al di sotto di essa. I fattori individuali che incoraggiano il sadismo sono tutte quelle situazioni che tendono a far sentire vuoto e impotente il bambino o l'adulto (se si verificano nuove circostanze, il bambino non-sadico può diventare sadico da adolescente o da adulto). Fra queste vi sono le situazioni che incutono paura, come la punizione terroristica, cioè non strettamente limitata in intensità, dipendente da un episodio di comportamento specifico e constatato, ma arbitraria, alimentata dal sadismo di chi la impartisce, e di una intensità tale da generare paura. A seconda del temperamento del bambino, la paura di questa punizione può diventare un motivo dominante nella sua vita, può spezzare lentamente il suo senso di integrità, il rispetto di sé. Può arrivare a tradire se stesso così frequentemente da perdere il proprio senso di identità, da non essere più «lui».

Anche una situazione di povertà psichica può generare l'impotenza vitale. Se non c'è alcuna stimolazione, niente che risvegli le facoltà di un bambino, se l'atmosfera è spenta e senza gioia, il piccolo si congela; non c'è nulla cui possa aggrapparsi, nessuno che gli risponda o lo stia ad ascoltare, e così egli sprofonda in un senso di impotenza, di sterilità. Se questa impotenza non sfocia necessariamente nella formazione del carattere sadico, il che dipende da vari altri fattori, è comunque una delle fonti principali nel contribuire allo sviluppo del sadismo, individualmente e socialmente.

Quando il carattere individuale devia da quello sociale, il gruppo sociale tende a rinforzare tutti quegli elementi del carattere che gli si adeguano, e a far assopire gli clementi contrastanti. Se. per esempio, un sadico vive in un gruppo in cui la maggioranza non è sadica, e in cui il comportamento sadico e ritenuto indesiderabile e sgradevole, non necessariamente cambicrà il proprio carattere, ma certamente non lo svilupperà; il suo sadismo non scomparirà, ma si «prosciugherà >, per così dire, perché non alimentato. La vita nei kibbutzim e in altre comunità volontarie offre parecchi esempi in questo senso, e in certi casi la nuova atmosfera produce addirittura un vero e proprio cambiamento del carattere.23

In una società anti-sadica, un carattere sadico sarà essenzialmente innocuo, considerato alla stregua di un malato. Non sarà mai popolare e avrà possibilità di accesso limitato a posizioni che gli consentano di esercitare un'influenza sociale, o addirittura ne sarà completamente escluso. Per capire come mai il sadismo possa raggiungere grande intensità in una persona, non ci si deve limitare a considerare i fattori costituzionali, biologici (Freud, 1937), ma bisogna tener conto dell'atmosfera psichica, che c ampiamente responsabile non solo della nascita del sadismo sociale, ma anche delle vicissitudini del sadismo idiosincrasico generato individualmente. È per questo motivo che non basta la conoscenza della costituzione e del background familiare per comprendere in modo completo lo sviluppo di un individuo. Se non conosciamo la collocazione della persona e della sua famiglia all'interno del sistema sociale, e lo spirito di quest'ultimo, non saremo mai in grado di capire perché certi tratti sono così tenaci e profondamente radicati.

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Note

1 Che questo rituale di mangiare la carne di un animale vivo risalga a epoche lontanissime è dimostrato da una tradizione talmudica, secondo la quale, fra le sette norme etiche accettate da Noè fe attraverso di lui da tutta l'umanità), vi era la proibizione di mangiare la carne di un animale vivo.

2Relazione sugli indiani nord-occidentali del Canada, in «Proceedings of the British Association for the Advancement of Science», «meeting a'

Aggressione maligna. Crudeltà e distruttività 405

Newcastle-upon-Tyne, 1889» (Deliberazioni dell'Associazione britannica per il progresso della scienza, riunione a Newcastle-sul-Tyne, 1889), citato da J. G. Bourke, Lipsia 1913 (trad, italiana: Firenze 1971).

3 Qui uso il termine «distruttività» sia per la distruttività in senso stretto («necrofilia»), sia per il sadismo, una distinzione che farò successivamente.

4 Shylock in II mercante di Venezia, atto III, scena I, esprime in modo commovente questo elementare senso di uguaglianza.

5 Cfr. G. M. Foster (1972).

6 Per esempio, il contrasto fra le culture del sistema A c quelle del sistema C, di cui si è parlato nel capitolo Vili.

7 Queste danze sono di alto valore artistico, e il loro senso va ben al di là di quello sottolineato in questa sede.

8 Il nome della città è Calanda. Ho visto un film di questo rituale, e non ho mai dimenticato la straordinaria impressione che mi ha fatto quell'orgia di odio.

9 Non so se si verificarono dei cambiamenti, e di quale natura, nello sviluppo successivo della sua personalità. La mia analisi è limitata a quel che lui racconta di sé e dei suoi amici all'epoca in cui scrive, sempre che il suo romanzo sia strettamente autobiografico.

10 Cfr. 1. P. de River (Springfield 1956). Il libro contiene una collezione di interessanti episodi di criminalità connessi con atti sadici; purtroppo l'autore usa indiscriminatamente il concetto di «sadismo» per descrivere vari impulsi di danneggiare gli altri.

11 Cfr. D. G. Gill (Cambridge 1970); in R. Helfner e C. H. Kempe, a cura di (Chicago 1968); cfr. S. X. Radhill, anche B. F. Steele e C. B. Pollock.

12 Il Talmud afferma che chiunque umili qualcuno pubblicamente deve essere considerato come il suo assassino.

13 Le citazioni di questo capitolo sono tratte dalla stessa opera.

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16 Il carattere autoritario è stato analizzato per la prima volta nello studio, compiuto in Germania, di cui ho riferito nella nota 8 del capitolo lì. Dall'analisi dei dati emerse che il 78 per cento degli intervistati non avevano né un carattere autoritario né anti-autoritario, e perciò, nell'eventualità della vittoria di Hitler, non sarebbero diventati ardenti nazisti né anti-nazisti. Circa il 12 per cento avevano un carattere anti-autoritario, e perciò sarebbero rimasti convinti nemici del nazismo, mentre il 10 per cento avevano un carattere autoritario, e sarebbero diventati ardenti nazisti. Questi risultati corrispondono, grosso modo, a quel che avvenne in realtà

dopo il 1933. (E. Fromm ed altri, 1936.) Successivamente, il carattere autoritario fu studiato da T. Adorno. In questo studio, però, il carattere autoritario è trattato con una impostazione comportamentistica, e non psicoanalitica secondo i termini del carattere sado-masochista. (T. Adorno, New York 1950: trad, italiana: Milano 1973.)

17 Coloro che amano le congetture potrebbero prendere in esame l'ipotesi che il fascino per le feci e gli odori costituisca una specie di regressione neurofisiologica a uno stadio evolutivo in cui l'animale si orientava più con l'aiuto degli odori che della vista.

18 Cfr. E. Fromm. New York 1941 (trad, italiana: Milano 1963), dove hot mostrato questa connessione nella classe medio-inferiore tedesca.

19 Parlando dei burocrati, mi riferisco ai burocrati vecchio stampo, freddi, autoritari, come se ne trovano ancora in molte scuole, ospedali, prigioni» ferrovie, uffici postali vecchio stile. La grande industria, che è anch'essa un'organizzazione altamente burocratica, ha sviluppato un tipo caratteriale completamente diverso, quello del burocrate amichevole, sorridente, «comprensivo». che magari ha fatto un corso di «relazioni umane». I motivi di questo cambiamento risiedono nella natura dell'industria moderna. nell'esigenza del lavoro di gruppo, di evitare attriti, di instaurare migliori rapporti di lavoro, e in diversi altri fattori. Questo non significa che il nuovo burocrate amichevole sia un sadico insincero che preferisce sorridere invece di rivelare il suo vero volto; la verità è che il sadico vecchia maniera non è adatto alla moderna burocrazia, per le ragioni già elencate. Il burocrate moderno non è un sadico trasformato in individuo amichevole, ma semplicemente un'entità isolata, corno tutti gli altri sono entità isolate. È poco sensibile, sia verso se stesso sia verso gli altri, e il suo atteggiamento amichevole, anche se non falso, è talmente superficiale e inconsistente da diventarlo. Ma nemmeno questo è completamente giusto, perché in realtà nessuno si aspetta qualcosa al di là di tale vernice, tranne forse nell'effimero momento in cui entrambi sorridono, indulgendo all'illusione di questo contatto umano. Due studi approfondili ed estesi del carattere del manager moderno confermeranno oppure modificheranno queste impressioni. (M. Maccoby; I. Millan, entrambi di prossima pubblicazione nel 1975.)

20 E’ un esempio dei molti dati comportamentali che sfuggono alle maglie di quasi tutti i test ed esperimenti psicologici.

L'aggressione maligna: la necrofilia

Il concetto tradizionale

Il termine «necrofilia», amore per i morti,1 è stato applicato generalmente soltanto a due tipi di fenomeni: (1) la necrofilia sessuale, il desiderio maschile di avere un rapporto sessuale o qualsiasi altro tipo di contatto sessuale con un cadavere femminile, e (2) la necrofilia non-sessuale, il desiderio di toccare cadaveri, di starvi vicino, di guardarli e, particolarmente, di smembrarli. In linea di massima, il termine non è mai stato applicato a una passione-radicata-nel-carattere, il terreno su cui crescono le sue manifestazioni più ovvie e crude. Basterà esaminare qualche esempio di necrofilia nel senso tradizionale per identificare più facilmente il carattere necrofilo meno ovvio.

Casi di necrofilia sono stati descritti in parecchie opere, particolarmente in quelle sulle perversioni sessuali e di criminologia. H. von Herttig, uno dei più eminenti criminologi tedeschi, ne ha offerto la selezione piti completa in un'opera riservata esclusivamente all'argomento. (Nel codice penale tedesco, come in quello di altri paesi, la necrofilia costituisce un crimine.) Come esempi di necrofilia egli cita: (1) atti di contatto sessuale con un cadavere femminile (rapporto, manipolazione degli organi sessuali); (2) eccitazione sessuale alla vista di un cadavere femminile; (3) attrazione per cadaveri e tombe e oggetti connessi con la sepoltura, come fiori o quadri;2 (4) smembramento di un cadavere, e (5) il desiderio di toccare un cadavere, di sentirne l'odore o di ricercare il tanfo di putridume. (H. von Hentig, Stoccarda 1964.)

Come altri autori - per esempio T. Spoerri (Basilea 1959), da lui citato - egli è convinto che la necrofilia sia molto più frequente di quanto generalmente si creda. Ma per ovvie ragioni pratiche, questa perversione ha possibilità molto limitate di soddisfazione. Soltanto gli inservienti dell'obitorio e i becchini hanno facile accesso ai cadaveri, e quindi l'opportunità di sfogarsi. Non è sorprendente, perciò, che la maggior parte dei resoconti abbiano per protagonisti rappresentanti delle due categorie. Naturalmente non si può escludere che queste occupazioni attraggano facilmente i necrofili. Anche gli assassini hanno la possibilità di praticare la necrofilia, ma considerando che l'omicidio un tempo era relativamente raro, non possiamo aspettarci di trovare molti esempi in questo gruppo, tranne in alcuni casi classificati come «voluttà di uccidere». Von Hentig cita anche una serie di episodi in cui i «non-addetti-ai-lavori» hanno dissepolto cadaveri, prelevandoli per usarli sessualmente e soddisfare il loro desiderio necrofilo. Inevitabile è la conclusione che, essendo la necrofilia relativamente frequente fra coloro che hanno facilità ad accedervi, deve essere presente, se non altro in fantasie oppure in manifestazioni meno ovvie, in diverse altre persone che ne sarebbero escluse.

Questa è la vicenda, descritta da J. P. de River, di un giovane di ventun anni, dipendente di un obitorio, che a diciotto si innamorò di una ragazza con cui ebbe un solo rapporto sessuale. perché lei era malata (di tubercolosi polmonare). «Non ho mai superato la morte del mio amore,» dice «e ogni volta che mi masturbo, mi immagino di fare l'amore con il mio tesoro morto.» De River prosegue il suo resoconto:

Quando mori la sua innamorata, rimase così sconvolto, vedendola distesa sul lenzuolo bianco, che scoppiò a piangere, e solo con grande riluttanza si lasciò portar via dalla bara. In quel momento provò l'impulso di saltar dentro nella bara, e voleva veramente essere sepolto insieme a lei. Fece una scena al funerale, e tutti, compresi i suoi familiari, credettero che fosse causata dal grande dolore. Ma poi egli arrivò a capire che si trattava di un accesso di passione e che, alla vista della defunta, era stato sopraffatto da un grande impulso sessuale. A quell'epoca aveva appena terminato l'ultimo anno di liceo. Cercò di convincere la madre a iscriverlo alla facoltà di medicina, ma, per mancanza di fondi, non potè farlo. Dietro suo suggerimento, la donna acconsenti comunque a iscriverlo a una scuola di arti funerarie e di imbalsamazione, perché il corso era molto più breve e a buon mercato.

D. W. si impegnò intensamente, rendendosi conto che, finalmente, aveva trovato un professione di suo totale gradimento. Nella sala di imbalsamazione si interessava sempre molto intensamente ai corpi femminili, e in diverse occasioni ebbe un grande desiderio di avere un rapporto sessuale con uno di essi. Rendendosi conto che questo era male, combatté il desiderio, finché un giorno, verso il termine dei suoi studi, trovandosi solo nella stanza con il cadavere di una ragazza, l'impulso di commettere un atto sessuale su di lei fu tale, e le circostanze così propizie, che si lasciò andare. Approfittando dell'occasione, espose le sue parti intime, sfregando il pene contro la coscia di lei, eccitandosi enormemente. Perdendo il controllo di sé saltò sopra il corpo e uni le sue labbra alle parti intime del cadavere. Ciò gli causò una tale stimolazione sessuale che ebbe una emissione seminale. Poi fu afferrato da grande rimorso e paura: la paura di essere scoperto e sorpreso dai compagni di studio. Poco dopo aver commesso l'atto si diplomò, assicurandosi un posto di dipendente nell'obitorio di una città centro-occidentale. Poiché era il membro pili giovane dello staff, spesso gli si chiedeva di vigilare solo la notte nell'obitorio. «Ero felice di quell'opportunità,» afferma D. W. «man mano che mi rendevo conto di essere diverso dagli altri uomini: desideravo restar solo con i morti, dato che questo mi dava ampie possibilità di compiere un coito su un cadavere - un sentimento che, mi resi conto, esisteva in me dalla morte della mia innamorata.»

Nei due anni in cui rimase all'obitorio violò decine di cadaveri femminili, a cominciare dalle bimbe fino alle donne anziane, praticando su di loro varie perversioni. In genere cominciava succhiando i seni e unendo la bocca alle parti intime dei cadaveri, dopo di che si eccitava al punto di strisciare su di loro e, con uno sforzo sovrumano compiva l'atto del coito. Ne aveva fino a quattro o cinque la settimana, secondo il numero dei cadaveri femminili a disposizione.

«... In una occasione fu talmente colpito dal cadavere di una ragazza di quindici anni che, quando rimase solo con lei la prima notte dopo la sua morte, bevve un po' del suo sangue. Questo lo eccitò, al punto che le infilò un tubo di gomma nell'uretra, e con la bocca succhiò l'urina dalla vescica di lei. Sempre più sopraffatto dall'impulso di spingersi oltre, sentì che ormai poteva soltanto divorarla - mangiarla - persino masticare parti del suo corpo. Incapace di resistere a questo desiderio, girato il cadavere a testa in giù affondò la bocca nella carne delle natiche vicine al retto. Allora strisciò sul corpo compiendo l'atto di sodomia.» (J. P. de River, Springfield 1956.)

Questa storia è particolarmente interessante per diverse ragioni. La prima e la più ovvia è che combina la necrofilia con la necrofagia e l'erotismo anale. L'altra, meno ovvia, risiede nell'inizio della perversione. Se si conoscesse la vicenda soltanto fino alla morte dell'innamorata, si potrebbe essere propensi a interpretare il comportamento del ragazzo come espressione dell'intensità del suo amore. Ma il resto della storia pone in una luce molto diversa anche l'inizio; l'amore per la ragazza morta non può spiegare gli indiscriminati desideri necrofili e necrofagi del protagonista. Si è costretti a presumere che quel «comportamento» in occasione del funerale non fosse espressione d'amore, ma il primo sintomo della perversione. La malattia della ragazza rappresenta una ben misera razionalizzazione del fatto che egli ebbe con lei un solo rapporto sessuale. E’ più probabile che, proprio per le sue tendenze necrofile, avesse ben poco desiderio di un rapporto sessuale con una donna viva.

De River riporta un altro caso, meno complesso, di necrofilia in un dipendente d'obitorio. Il soggetto è uno scapolo di quarantatre anni, che dichiara:

«Cominciai a masturbarmi all'età di undici anni, mentre facevo il becchino in Italia, a Milano, e quand'ero solo lo facevo toccando i corpi delle morte giovani e belle. In seguito cominciai ad inserire il pene nelle defunte. Giunto in America, lasciai dopo un breve soggiorno la costa orientale, e mi trasferii sulla costa occidentale, dove trovai impiego in un obitorio, con l'incarico di lavare i cadaveri. Ripresi l'abitudine di avere rapporti sessuali con ragazze morte, certe volte nelle bare o sui tavoli dove venivano lavati i corpi.»

Il resoconto prosegue:

«Ammette di applicare la sua bocca alle parti intime, e di succhiare i seni dei cadaveri delle giovani donne. Quando gli fu chiesto quante donne avesse avuto, rispose: «forse centinaia, dato che ho cominciato all'età di undici anni».» (J. P. de River, Springfield 1956.)

La letteratura citata da von Hentig riferisce vari casi analoghi.

Una forma molto attenuata di necrofilia si ritrova negli individui che si eccitano sessualmente alla vista di cadaveri, e talvolta si masturbano in loro presenza. È difficilissimo calcolare l'incidenza di questa perversione, perché viene scoperta raramente.

La seconda forma di necrofilia appare completamente scissa dal sesso, esprimendosi nella pura passione di distruggere. Spesso questo impulso distruttivo si manifesta già nell'infanzia; talvolta solo in età più avanzata. Molto ragionevolmente von Hentig scrive che la distruttività necrofila è incentrata sulla passione di «lacerare strutture viventi» (lebendige Zusammenhänge). Questo desiderio di lacerare qualcosa di vivo trova la sua espressione più ovvia nello smembramento dei cadaveri. Spoerri ha riferito di un caso tipico: un uomo andava al cimitero la notte con tutti gli strumenti necessari, dissotterrava la bara, l'apriva e si portava via il cadavere in un posto per nasconderlo; allora gli tagliava le gambe e la testa e apriva lo stomaco. (T. Spoerri, Basilea 1959.) Talvolta l'oggetto non è un uomo, ma un animale. Von Hentig riferisce di un tipo che pugnalò a morte trentasei mucche e giumente, tagliandone via parti varie dalle carcasse. Ma non abbiamo bisogno di ricorrere ai libri; sui giornali abbondano i resoconti di assassinii in cui la vittima è stata smembrata o mutilata. Anche se generalmente questi casi sono classificati come omicidi, vengono commessi da assassini necrofili ben diversi dalla maggior parte degli altri assassini, che sono motivati dal lucro, dalla gelosia, dalla vendetta. Il vero obiettivo dei necrofili non è la morte della vittima - che, naturalmente, è una condizione indispensabile - ma l'atto di smembrare. Nel corso della mia esperienza clinica ho raccolto prove sufficienti a dimostrare che il desiderio di smembramento è altamente peculiare del carattere necrofilo. Per esempio, ho conosciuto (direttamente o esercitando la mia supervisione) diverse persone che esprimevano il desiderio di smembramento in forma molto attenuata; tracciavano la figura di una donna nuda, poi tagliavano via braccia, gambe, testa, ecc., e giocavano con queste parti del disegno smembrato. Questo «gioco» era, in realtà, la soddisfazione, realizzata in modo sicuro e innocuo, di un intenso desiderio di smembramento.

Ho osservato che molti altri necrofili avevano frequenti sogni in cui vedevano galleggiare o sparse intorno a sé parti di corpi smembrati, talvolta nel sangue, spesso nell'acqua sporca mista a feci. Se appare frequentemente nelle fantasie e nei sogni, il desiderio di smembrare corpi è uno dei fattori più sicuri per formulare la diagnosi di carattere necrofilo.

Vi sono altre forme meno radicali di necrofilia. Una è il desiderio di stare vicino ai cadaveri, ai cimiteri o a qualsiasi oggetto in decomposizione. (H. J. Rauch, Berlino 1947.)3 Stekel riferisce la frase di una donna: «Penso spesso ai cimiteri e al modo in cui si putrefanno i corpi nelle tombe». (Citato da H. von Hentig, Stoccarda 1964.)

Questo interesse per la putrefazione si esprime frequentemente nel desiderio di odorare qualcosa di marcio, come nel caso di un uomo di trentadue anni, di grande cultura, quasi completamente cieco. Aveva paura dei rumori, «ma gli piaceva sentire urla femminili di dolore e amava l'odore della carne in putrefazione. Desiderava i cadaveri delle donne alte e grasse e voleva strisciare dentro di loro». Chiese alla nonna il permesso di avere il suo cadavere. «Avrebbe goduto ad affogare nei suoi resti putrescenti.» (T. Spoerri, Basilea 1959.) Von Hentig parla di «annusatori» (Schnüffler), per i quali è eccitante l'odore dell'escremento umano o di qualsiasi altra cosa putrida, considerando questo tratto come manifestazione necrofilia. Con l'aggiunta dei casi di feticismo necrofilo - i cui oggetti sono connessi con le tombe, per esempio fiori, erbe, immagini - possiamo terminare questa breve rassegna di pratiche necrofile descritte nella letteratura.

Il carattere necrofìlo4

Il termine «necrofilo», per definire un tratto caratteriale piuttosto che un atto perverso nel senso tradizionale, fu usato dal filosofo spagnolo Miguel de Unamuno nel 1936s in occasione del discorso tenuto dal generale nazionalista Millàn Astrày all'università di Salamanca, dove Unamuno era rettore all'inizio della guerra civile spagnola. Il motto preferito dal generale era Viva la muerte!, e uno dei suoi scagnozzi lo gridava dal fondo della sala. Quando il generale ebbe finito il suo discorso, Unamuno si alzò a sua volta.

«Ed ora - continuò Unamuno - sento un grido necrofilo e insensato: «Viva la Morte!» ed io che ho trascorso la mia vita a creare paradossi che suscitavano la collera di coloro che non li afferravano, io devo dirvi, come esperto in materia, che questo barbaro paradosso mi ripugna. Il generale Millàn Astrày è un invalido. Sia detto senza alcuna intenzione di sminuirlo. E’ un invalido di guerra. Anche Cervantes lo era. Ma oggi, purtroppo, in Spagna ci sono troppi invalidi. E presto ce ne saranno ancora di più, se Dio non verrà in nostro aiuto. Mi addolora che debba essere il generale Millân Astrây a dirigere la psicologia di massa. Un mutilato che non abbia la grandezza spirituale di un Cervantes, cerca di solito un macabro sollievo nel provocare mutilazioni intorno a sé.» (M. de Unamuno, 1936.)

A questo punto Millàn Astrày non seppe più trattenersi. «Abajo la inteligencia!» («Abbasso l'intelligenza!») gridò. «Viva la morte!» Dalla parte dei falangisti giunsero grida di sostegno.

Ma Unamuno proseguì:

«Questo è il tempio dell'intelletto. E io ne sono il sommo sacerdote. Siete voi che profanate il sacro recinto. Voi vincerete perché avete la forza bruta. Ma non convincerete. Perché, per convincere, dovrete persuadere. E per persuadere occorre proprio quello che a voi manca: ragione e di- diritto nella lotta. Io considero inutile esortarvi a pensare alla Spagna. Ho finito.” (M. de Unamuno, 1936.)4

Ho adottato l'uso che del termine fa Unamuno, e sin dal 19617 ho studiato il fenomeno della necrofilia radicata-nel-carattere. Ho ricavato i miei concetti teorici soprattutto dall'osservazione di persone in analisi.8 Lo studio di certe personalità storiche - Hitler per esempio - e l'osservazione degli individui, del carattere e del comportamento delle classi sociali, mi hanno offerto altri dati per l'analisi del carattere necrofilo. Ma, anche se le mie osservazioni cliniche mi hanno influenzato moltissimo, ritengo che l'impulso decisivo sia venuto dalla teoria freudiana degli istinti di vita e di morte. Ero rimasto profondamente impressionato dal suo concetto, che vedeva nella tensione verso la vita e nella tensione verso la distruzione le due forze fondamentali che si dibattono nell'uomo. Anche se non potevo riconciliarmi con

la spiegazione teorica di Freud, la sua idea mi portò a vedere i dati clinici in una nuova luce, e a riformulare - e quindi a preservare - il concetto freudiano su una base teorica diversa, su dati clinici che, come dimostrerò successivamente, si collegano alle precedenti scoperte di Freud sul carattere anale.

In senso caratterologico la necrofilia può essere descritta come la passione, l'attrazione per tutto quanto è morto, putrido, marcio, malato; la passione di trasformare quel che è vivo in qualcosa di non-vivo; di distruggere por il piacere di distruggere; l'interesse esclusivo per tutto quanto è puramente meccanico. È la passione di «lacerare le strutture viventi».

Sogni necrofili

L'attrazione per quel che è morto e putrido si rivela molto chiaramente nei sogni delle persone necrofile.

Sogno 1. «Mi ritrovo seduto sul gabinetto; ho la diarrea e defeco con una forza esplosiva, come se scoppiasse una bomba e la casa dovesse crollare. Voglio fare il bagno, ma quando tento di aprire il rubinetto, scopro che la vasca è già colma di acqua sporca: vedo galleggiare delle feci insieme con una gamba e un braccio.»

Chi ha avuto questo sogno era un tipo intensamente necrofilo, che già aveva fatto parecchi sogni analoghi. Quando l'analista gli chiese quali sensazioni avesse risvegliato in lui il sogno, quello rispose di non aver provato alcuna paura, ma solo un certo imbarazzo mentre glielo raccontava.

In questo sogno affiorano diversi elementi caratteristici della necrofilia, fra i quali il tema delle parti smembrate del corpo è il più ovvio. Inoltre, emerge la stretta connessione fra necrofilia e analità (di cui discuteremo in seguito) e il tema della distruzione; traducendo i simboli in linguaggio normale, il sognatore ha la sensazione di voler distruggere l'intera casa con la forza della sua evacuazione.

Sogno 2. «Sto per andare da un amico; cammino nella direzione di casa sua, che mi è ben nota. Improvvisamente la scena cambia. Sono in un paesaggio arido, simile a un deserto, senza piante né alberi. A quanto pare, sto ancora cercando la casa

del mio amico, ma l'unica in vista è una strana costruzione senza finestre. Entro attraverso una porticina; quando la chiudo, sento uno strano rumore, come se la porta fosse stata chiusa a chiave. Cerco di forzare il pomo, ma senza risultato. Con grande ansietà passo attraverso un corridoio molto stretto - e così basso che sono costretto a strisciare - e mi ritrovo in una stanza ovale, ampia, buia, che sembra una grande cripta. Quando i miei occhi si abituano al buio, vedo diversi scheletri per terra, e allora so che questa è la mia tomba. Mi sveglio con una sensazione di panico.»

Questo sogno non ha bisogno di interpretazione. La «cripta» è una tomba che, contemporaneamente, simboleggia il grembo materno. La «casa dell'amico» è il simbolo della vita. Invece di camminare verso la vita, di far visita all'amico, la persona cammina verso un luogo di morte. Il deserto dello scenario e la tomba sono simboli di morte. In sé, questo sogno non è necessariamente indicativo di tendenze necrofile: potrebbe essere semplicemente l'espressione simbolica della paura di morire. Ma le cose cambiano se, come avviene in questo caso, sono frequenti i sogni in cui compaiono tombe, mummie, scheletri; in altre parole, se l'immaginazione della vita onirica è impregnata soprattutto di visioni provenienti dal mondo della morte.

Sogno 3. È il breve sogno di una donna che soffre di una depressione acuta. «Sto defecando, e continuo finché l'escremento trabocca dalla tazza del gabinetto, cominciando a riempire la stanza, alzandosi sempre più di livello - oramai sto af-fogando9 - e in quel momento mi sveglio con un orrore indicibile.» Per questa persona, la vita tutta si è trasformata in sudiciume; non riesce a produrre altro che sozzura; il suo mondo diventa sozzura e la sua morte è l'unione finale con essa. Ritroviamo lo stesso tema nel mito del re Mida; tutto quel che tocca si trasforma in oro: simbolicamente equivalente, come ha dimostrato Freud, a lordure o feci.10

Sogno 4. Quello che segue è il sogno di Albert Speer (12 settembre 1962) durante gli anni trascorsi nella prigione di Spandau.

«Hitler è venuto a fare un'ispezione. Io, che nel sogno sono ancora ministro del Reich, prendo una scopa per aiutare a spazzare via lo sporco nella fabbrica. Dopo l'ispezione mi ritrovo nella sua macchina, tentando inutilmente di infilare il braccio nella manica della giacca che mi ero tolta per scopare. Invece la mia mano finisce continuamente nella tasca. Il nostro viaggio termina in una grande piazza circondata da edifìci governativi. Su un lato c'è una lapide in memoria dei caduti. Hitler si avvicina e depone una corona. Entriamo nell'atrio di marmo di uno degli edifici governativi. Hitler dice al suo aiutante: "Dove sono le corone?". E l'aiutante a un ufficiale: "Come lei sa, adesso depone corone dappertutto". L'ufficiale indossa una uniforme chiara, quasi bianca, fatta di cuoio leggero; sopra la giacca porta, come un chierichetto, una veste ampia decorata di pizzi e ricami. Arriva la corona. Hitler si dirige alla destra dell'atrio dove c'è un'altra lapide, davanti alla quale vi sono già diverse corone. Si inginocchia, intonando una melodia lamentosa, nello stile dei canti gregoriani, in cui ripete all'infinito un "Gesù-Maria" dilatato al massimo. Le pareti di questo atrio marmoreo lungo, dall'alto soffitto, sono foderate di varie lapidi commemorative. In una sequenza sempre più accelerata, Hitler depone, una dopo l'altra, le corone che gli vengono porte dagli aiutanti indaffarati. I suoi toni lamentosi diventano sempre più monotoni, la fila di lapidi sembra senza fine.

Questo sogno è interessante sotto diversi aspetti: il sognatore esprime la propria comprensione di un'altra persona piuttosto che i propri sentimenti e desideri.12 Certe volte queste intuizioni sono più esatte dell'impressione conscia. In questo caso Speer esprime, in uno stile alla Chaplin, la sua opinione sul carattere necrofilo di Hitler. Vede in lui un uomo che passa tutto il suo tempo a rendere omaggio alla morte, ma stranamente le sue azioni sono completamente meccaniche, senza spazio per i sentimenti. Deporre corone diventa un rituale organizzativo al limite dell'assurdità. Per giustapposizione, lo stesso Hitler, ritornato alla fede religiosa dell'infanzia, è completamente assorto nell'in- tonare nenie lamentose. Nella conclusione il sogno sottolinea la monotonia e lo stile meccanizzato del suo rituale di cordoglio.

All'inizio del sogno, Speer porta in vita una situazione proveniente dalla realtà, quando era ancora ministro, ed era una persona molto attiva che preferiva fare le cose in prima persona.

Forse lo sporco che sta spazzando via è l'espressione simbolica del lerciume del regime nazista; la sua incapacità di infilare il braccio nella manica della giacca, molto probabilmente, esprime simbolicamente la sensazione che non può continuare a collaborare con questo sistema; ciò costituisce la transizione al nucleo del sogno, dove Speer riconosce che sono rimasti soltanto i morti e il meccanico, noioso, necrofilo Hitler.

Sogno 5. «Ho fatto una grande invenzione: il "superdistruttore", una macchina con cui, pigiando un bottone segreto che io solo conosco, si può distruggere tutta la vita nell'America settentrionale nel giro di un'ora, e sul resto del globo nell'ora suc-cessiva. Soltanto io, conoscendo la formula della sostanza chimica, posso proteggermi. (Scena seguente.) Ho pigiato il bottone; non c'è più vita, sono solo, infinitamente allegro ed entusiasta.»

Il sogno è l'espressione della distruttività pura di una persona estremamente narcisista, priva di connessioni con gli altri e senza alcuna esigenza in questo senso. Ricorreva frequentemente, come altri sogni necrofili. Quel tipo soffriva di una grave malattia mentale.

Sogno 6. «Mi invitano a un party con molti ragazzi e ragazze. Balliamo tutti. Ma sta accadendo qualcosa di strano: il ritmo rallenta sempre più, come se presto nessuno dovesse più muoversi. In quel momento entra nella stanza una coppia di di-mensioni superiori al normale; hanno chissà quali arnesi in due grosse scatole. Si avvicinano alla prima coppia; l'uomo estrae un grosso coltello e taglia il cavaliere lungo il dorso; stranamente non scorre sangue, e il ragazzo non sembra provare pena; poi l'omone prende qualcosa che non riesco a vedere, una specie di scatolina, molto piccola, e la mette nel dorso del ragazzo. Poi inserisce nella scatolina una specie di chiavetta, o magari un bottone (in modo che il ragazzo non possa toccarla), e fa un movimento, come se stesse caricando un orologio. Mentre l'omone compie questa operazione sul cavaliere, la donna la porta a termine sulla dama. Quando il lavoro è finito, la giovane coppia riprende a danzare, ma alacremente, con grande eccitazione. I due giganti ripetono il trattamento sulle altre nove coppie e, quando se ne vanno, tutti sembrano eccitati e di buon umore.»

Il significato del sogno è abbastanza chiaro se lo traduciamo dal linguaggio simbolico in quello normale. Il sognatore sente che la vita sta lentamente calando, che le sue energie si smorzano. Ma un dispositivo può funzionare da surrogato. Si possono caricare le persone, come gli orologi, e allora sembreranno intensamente «vive», anche se, in realtà, sono diventate robot.

Chi ha fatto questo sogno era un giovane di diciannove anni, che studiava ingegneria ed era completamente assorbito dalla tecnica in tutte le sue manifestazioni. Se avesse avuto soltanto questo sogno, lo si sarebbe potuto interpretare come espressione dei suoi interessi. Invece ne ebbe parecchi altri in cui erano presenti gli altri aspetti della necrofilia. Il sogno non era essenzialmente un riflesso dei suoi interessi professionali, ma questi ultimi erano, invece, il riflesso del suo orientamento necrofilo.

Sogno 7. Questo sogno di un professionista di successo è particolarmente interessante, perché illustra uno degli aspetti necrofili della tecnica moderna che verrà discusso successivamente.

«Mi sto lentamente avvicinando all'ingresso di una caverna e vedo qualcosa che mi impressiona enormemente: due maiali umanizzati stanno maneggiando un carrello di quelli che si usavano un tempo nelle miniere; lo collocano sui binari che si inoltrano fin nelle viscere della caverna. Dentro il carrello vedo esseri umani normali: sembrano morti, ma io so che sono addormentati.

«Non so se questo è un altro sogno o la continuazione del precedente. Credo di essermi svegliato, ma non ne sono sicuro. L'inizio è lo stesso. Mi sto di nuovo avvicinando all'ingresso di una caverna; lascio dietro di me il sole e il cielo azzurro. Inoltrandomi, vedo un intenso bagliore in fondo; quando arrivo lì, contemplo esterrefatto la vista di una città straordinariamente moderna; ogni cosa rigurgita di una luce che adesso so che è artificiale, elettrica. La città è completamente fatta di vetro e acciaio: il futuro. Continuo a camminare e improvvisamente mi rendo conto di non aver visto nessuno, né persone, né animali. Mi ritrovo di fronte a una grande macchina, una specie di enorme trasformatore elettrico, molto moderno, collegato con numerosi cavi robustissimi, simili a cavi dell'alta tensione; sembrano tubi neri. All'improvviso mi viene il pensiero che trasportino sangue. Mi sento molto eccitato, e trovo nelle tasche dei pantaloni un oggetto che riconosco immediatamente: un coltellino tascabile che mi diede mio padre quando avevo circa dodici anni. Mi avvicino alla macchina e, col coltello, pratico un taglio in uno dei cavi: improvvisamente ne sprizza fuori qualcosa, inzuppandomi. È sangue. Mi sveglio, tutto sudato, in un grande stato di ansietà.»

Dopo avermi raccontato il sogno, aggiunse: «Non capisco molto bene il senso della macchina e del sangue, ma in questo caso il sangue sostituisce l'elettricità, essendo entrambi energia. Non so perché l'ho pensato in questi termini; forse credo che la macchina succhi il sangue agli uomini».

Come nel caso di Speer, non è il sogno di un necrofilo, ma di un biofilo che riconosce il carattere necrofilo del mondo contemporaneo. La caverna, come spesso succede, è un simbolo di morte, come una tomba. La caverna è una miniera, e quelli che vi lavorano sono maiali o morti. («Sapere» che non sono veramente morti è una correzione originata da una consapevolezza della realtà che talvolta si infiltra nella immaginazione onirica.) Il significato è: in questo luogo stanno uomini degradati, simili a cadaveri. La scena del primo atto del sogno si svolge in uno stadio più antico dello sviluppo industriale. Il secondo atto è inscenato nell'era cibernetica del futuro, al suo acme. La bellissima città moderna è morta : non ci sono né animali, né persone. Una tecnica potente succhia la vita (il sangue) dall'uomo per trasformarla in elettricità. Quando il sognatore cerca di tagliare i cavi elettrici (forse per distruggerli), rimane inzuppato dal sangue che ne scaturisce : come se stesse commettendo un omicidio. Nel suo sogno egli ha una visione della morte tipica della società total-mente tecnicizzata, con una lucidità e un senso artistico che potremmo trovare in un Blake o in un dipinto surrealista. Ma quando si sveglia, sparisce gran parte di quella «consapevolezza» che emerge soltanto quando non è esposto al frastuono del non-senso comune.

Azioni necrofile «involontarie»

Anche se sono una delle espressioni più esplicite dei desideri necrofili, i sogni non ne sono certo l'unica. Talvolta le tendenze necrofile emergono in azioni marginali, involontarie, «insignificanti», quella «psicopatologia della vita quotidiana» che Freud interpretò come espressione di tensioni e desideri repressi. Addurremo come esempio un episodio che ha per protagonista una personalità molto complessa, quella di Winston Churchill. Il maresciallo Sir Alan F. Brooke, capo dello stato maggiore imperiale, e Churchill stavano pranzando insieme, nell'Africa settentrionale, durante la seconda guerra mondiale: era un giorno caldo, infestato dalle mosche. Churchill ne ammazzava più che poteva, come probabilmente avrebbe fatto chiunque al suo posto. Ma poi successe qualcosa di bizzarro. (Sir Alan riferisce di esserne rimasto sconvolto.; Verso la fine del pranzo, Churchill raccolse tutti gli insetti morti e li allineò sulla tovaglia, comportandosi come il cacciatore aristocratico che si fa allineare per terra la selvaggina, per sua gratificazione. (Visconte Alanbrooke, Londra 1957.*)"

Se si dovesse «spiegare» il comportamento di Churchill semplicemente come un'«abitudine», resterebbe aperto l'interrogativo: Che cosa significa questa abitudine piuttosto inconsueta? Anche se sembra esprimere una tendenza necrofila, non implica necessariamente che Churchill avesse un carattere necrofilo, ma magari una forte vena necrofila. (Il carattere di Churchill è troppo complesso per discuterlo in poche pagine.)

Ho descritto questo suo comportamento perché è sicuramente autentico e perché la sua personalità è ben nota. Ma di particolari comportamentali marginali come questi se ne possono osservare in diverse persone. Uno dei più frequenti è l'abitudine di spezzare e mutilare piccole cose come fiammiferi o fiori; certi si fanno del male, stuzzicando le proprie ferite. Tale tendenza si esprime più drasticamente quando si cerca di ledere qualcosa di bello come un edificio, un mobile e, in casi estremi, si sfregia il dipinto di un museo, o ci si infligge una ferita.

Un'altra esemplificazione di comportamento necrofilo si può trovare in quelle persone - soprattutto studenti di medicina e medici - che sono particolarmente attratte dagli scheletri. In genere si spiega questo fenomeno con l'interesse professionale, ma il seguente resoconto psicoanalitico dimostra che non sempre è così. Dopo un certo tempo, e con grande imbarazzo, uno studente di medicina che si teneva uno scheletro in camera raccontò all'analista che spesso se lo portava a letto, l'abbracciava e talvolta lo baciava. Mostrava tutta un'altra serie di tratti necrofili.

Il carattere necrofilo si manifesta anche nella convinzione che la forza e la violenza siano l'unica soluzione di un problema o di un conflitto. Non si tratta in questo caso di verificare l'opportunità di ricorrere alla forza in determinate circostanze; quel che caratterizza il necrofilo è che, per lui, la forza - o, come si espresse Simone Weil, «il potere di trasformare un uomo in cadavere» - è la prima e ultima soluzione per tutto; che bisogna sempre recidere il nodo gordiano e mai scioglierlo pazientemente. Fondamentalmente, la risposta di queste persone al problema di vivere è la distruzione, e mai lo sforzo di capire, la costruzione, o l'esempio. È come l'ingiunzione della regina in Alice nel paese delle meraviglie: «Tagliamogli la testa!». Motivati da questo impulso, in genere non sanno intravedere scelte che non implichino la distruzione, né riconoscono come spesso, a lungo andare, si sia rivelato futile l'uso della forza. Questo atteggiamento trova espressione classica nell'episodio biblico in cui re Salomone si trova a giudicare due donne che si contendono un figlio. Quando il re propone di dividerlo, la vera madre preferisce che sia l'altra ad averlo; la donna che finge sceglie invece di fare il bambino a metà. La sua è la decisione tipica della persona necrofila, ossessionata dalla mania di possedere.

Un interesse marcato per le malattie in tutte le loro forme, come per la morte, costituisce un'altra espressione, più attenuata, di necrofilia. Un esempio è la madre che si preoccupa costantemente delle malattie del figlio, dei suoi insuccessi, facendo cupe previsioni per il futuro; allo stesso tempo non recepisce i mutamenti favorevoli, non reagisce alla gioia o all'entusiasmo del bambino, e non si accorgerà mai se in lui sta crescendo qualcosa di nuovo. Pur non danneggiando palesemente il figlio, lentamente ne strangola la gioia di vivere, la fede nella crescita, e infine lo contagia con il proprio orientamento necrofilo.

Chiunque abbia occasione di ascoltare le conversazioni di persone di ogni classe sociale a partire dalla mezza età, sarà sorpreso dall'interesse con cui si occupano delle malattie e della morte degli altri. Certo, di ciò sono responsabili diversi fattori. Per molti, soprattutto per coloro che non hanno interessi esterni, malattia e morte sono gli unici elementi drammatici della vita, e anche uno dei pochi argomenti su cui sono in grado di parlare, a prescindere dagli eventi familiari. Detto ciò, vi sono di-verse persone per cui questa spiegazione non basta. In genere è possibile riconoscerle per l'animazione, l'eccitamento con cui parlano di malattie o di altri tristi eventi come morti, dissesti finanziari, ecc. Ma il particolare interesse del necrofilo per la morte si manifesta spesso anche nel modo in cui legge i giornali, oltre che nella conversazione. Lo attirano soprattutto - e quindi legge per primi - gli annunci di morte e i necrologi; gli piace anche parlare della morte sotto vari aspetti: di che cosa è morta una certa persona, in quali condizioni, chi è morto di recente, chi probabilmente morrà, e via di seguito. Gli piace andare alle veglie funebri, ai cimiteri, e in genere non si lascia sfuggire nessuna occasione del genere, quando è socialmente opportuno. È evidente che questa attrazione per le esequie e i cimiteri è soltanto una forma piuttosto attenuata dell'interesse più grossolanamente evidente per tombe e obitori descritto in precedenza.

Un altro tratto, peraltro meno facilmente identificabile, del necrofilo è quella particolare assenza di vita che ne caratterizza la conversazione. Non mi riferisco all'argomento. Un necrofilo molto intelligente ed erudito potrebbe parlare di cose che sarebbero molto interessanti se non fosse per il modo in cui le presenta, rigido, pedante e senza vita, mentre lui resta freddo, distaccato. La persona che-ama, cioè il carattere opposto, pur descrivendo un'esperienza di per sé non particolarmente interessante, le inietterà vita col suo modo di raccontare. È stimolante, e perciò la si ascolta con interesse e piacere. Il necrofilo, invece, è come una doccia fredda all'interno del gruppo; annoia invece di animare, smorza tutto e provoca nella gente un senso di stanchezza, contrariamente alla persona biofila, che la fa sentire più viva.

L'atteggiamento che si assume verso il passato e il senso di proprietà costituiscono un'ulteriore dimensione delle reazioni necrofile. Per il necrofilo solo il passato è un'esperienza reale, e non il presente o il futuro. La sua vita è governata da quel che è stato, e cioè da quel che è morto: istituzioni, leggi, proprietà, tradizioni, beni. In breve sono le cose a governare l'uomo-, l'avere domina l'essere; i morti dominano i vivi. Nel pensiero necrofilo - personale, filosofico, politico - il passato è sacro, nien- t'altro conta, i cambiamenti radicali sono un delitto contro l'ordine «naturale».14

Un altro aspetto della necrofilia è la relazione col colore. In genere la persona necrofila preferisce i colori scuri, che assorbono la luce, come marrone o nero, e detesta i colori vivaci, radiosi.15 Questa preferenza si rivela negli abiti che indossa o nei colori che sceglie, se dipinge. Naturalmente se gli abiti scuri sono fuori moda, il colore non ha alcun nesso col carattere.

Come abbiamo già visto dal materiale clinico riportato prima, la persona necrofila è caratterizzata da una particolare attrazione per i cattivi odori, originariamente il fetore di carne putrida, in disfacimento. Questo fenomeno, molto diffuso, si manifesta in due forme: (1) godendo francamente dei cattivi odori; attrazione per l'odore di feci, urina o putridume, tendenza a frequentare gabinetti molto fetidi; (2) la forma più frequente, cioè la repressione del desiderio, che porta alla formazione reattiva di voler cancellare una puzza che in realtà non esiste. (Analoga all'eccessivo amore per la pulizia del carattere anale.) Sia in un caso sia nell'altro la persona necrofila si interessa dei cattivi odori. Come abbiamo notato in precedenza, questo interesse particolare dà frequentemente ai necrofili l'apparenza di «annusatoti». (H. von Hentig, Stoccarda 1964.) Non di rado questi tendenza si riflette persino nella loro espressione facciale. Molt necrofili infatti danno l'impressione di annusare costantementi dei cattivi odori. Studiando, per esempio, le diverse foto di Hitler si potrà facilmente individuare quella particolare espressione, chc se non è immancabile sui volti dei necrofili, quando compare uno dei criteri più sicuri per individuare questa passione.

Un altro elemento caratteristico nell'espressione del viso è l'incapacità di ridere; in realtà la risata del necrofilo è una specie di ghigno senza vita e senza la forza liberatrice, la gioia della risata normale. A dire il vero, non è solo l'incapacità di ridere «liberamente» a caratterizzare il necrofilo, ma anche la generale immobilità e inespressività della sua faccia. Guardando la televisione di tanto in tanto si avrà occasione di osservare un presentatore la cui faccia rimane completamente immota mentre parla; sorride soltanto all'inizio e alla fine del discorso perché, secondo l'abitudine americana, così ci si aspetta da lui. Queste persone non sono capaci di ridere e parlare allo stesso tempo, perché possono concentrare la loro attenzione solo su una attività o sull'altra; il loro sorriso non è spontaneo, ma pianificato, come i gesti artificiosi di un attore da strapazzo. Anche la pelle, spesso, tradisce il necrofilo: dà l'impressione di essere senza vita, «arida», giallastra; quando abbiamo la sensazione che una persona abbia la faccia «sporca», non intendiamo affermare che non si sia lavata, ma descriviamo la particolare caratteristica dell'espressione necrofila.

Il linguaggio necrofilo

Il linguaggio necrofilo è caratterizzato dall'uso predominante di parole che si riferiscono alla distruzione, alle feci e ai gabinetti. Anche se l'uso della parola «merda» è oggi molto diffuso, non è difficile individuare delle persone che la prediligono ben al di là del normale. Un esempio classico è fornito da un giovane di ventidue anni per cui tutto era «merda» : la vita, la gente, le idee, la natura; egli diceva orgogliosamente di se stesso: «Sono un artista della distruzione». Troviamo numerosi esempi di linguaggio necrofilo nell'analizzare le risposte al questionario, illustrato in precedenza (capitolo II, nota 8, e capitolo VIII, nota 16) rivolto a operai e impiegati tedeschi. Molto rivelatrice è la risposta alla domanda: «Che cosa ne pensa delle donne che usano il rossetto, che si truccano?».'6 Molti dissero: «È borghese», o «innaturale», o «anti-igienico». Risposero dunque semplicemente secondo i termini dell'ideologia dominante. Ma una minoranza fece dichiarazioni del tipo: «È velenoso», «rende le donne simili a puttane». L'uso di termini infondati, non- realistici, è chiaramente indicativo della struttura caratteriale; quasi invariabilmente, costoro mostravano una tendenza distruttiva nella maggior parte delle altre risposte.

Per verificare la validità dell'ipotesi sulla necrofilia, Michael Maccoby ed io escogitammo un questionario interpretativo, seguendo fondamentalmente lo stesso schema di quello adottato per lo studio di Francoforte, ma con domande fisse e non variabili, dodici in tutto; alcune si riferivano agli atteggiamenti tipici del carattere anale-accumulatore, mentre altre concernevano le caratteristiche necrofile già descritte. Maccoby applicò il questionario a sei campioni di persone in popolazioni molto diverse (quanto a classe sociale, razza, livello culturale). Per ragioni di spazio non posso inoltrarmi nei particolari della metodologia o dei risultati ottenuti. Basterà dire che l'analisi appurò (1) la presenza di una sindrome necrofila, confermante il modello teorico; (2) la possibilità di misurare le tendenze necrofile e biofile; (3) il fatto che queste presentavano una significativa correlazione con interessi socio-politici. Sulla base di un'analisi interpretativa dei questionari, abbiamo individuato una predominanza necrofila nel 10-15% dei campioni intervistati... Gli intervistatori hanno notato un clima di sterilità in parecchie di queste persone e nelle loro case, immerse in un'atmosfera intorpidita, senza gioia... (M. Maccoby, 1972.)

Si ponevano agli intervistati alcune domande che permettevano di stabilire un nesso fra le opinioni politiche e il carattere. Rimando il lettore ai numerosi dati contenuti nel documento di Maccoby; mi limiterò a citare questa conclusione: «In tutti i campioni, esiste una significativa correlazione fra le tendenze anti-vita e una posizione politica basata sul rafforzamento del potere militare e sulla repressione dei dissenzienti. Queste erano le priorità degli individui con prevalenti tendenze anti-vita: controllo più severo di coloro che scatenano tumulti; maggiore severità nell'applicare le leggi anti-droga; vincere la guerra nel Vietnam; controllare i gruppi sovversivi; rinforzare la polizia; combattere il comunismo in tutto il mondo». (M. Maccoby, 1972.)

Il nesso fra la necrofilia e il culto della tecnica

Lewis Mumford ha messo a fuoco il rapporto fra la distruttività e le «megamacchine» incentrate-sul-potere, come ne esistevano in Mesopotamia e in Egitto circa cinquemila anni fa, società che, come egli ha sottolineato, hanno molto in comune con le «megamacchine» moderne dell'Europa e degli Stati Uniti, oggi. Scrive :

Sul piano concettuale gli strumenti della meccanizzazione di cinquemila anni fa erano già distaccati da qualunque funzione e finalità umana che non fosse il continuo aumento dell'ordine, del potere, della prevedibilità e soprattutto del controllo. A questa ideologia protoscientifica s'accompagnarono l'irreggimentazione e la degradazione di attività un tempo autonome: fecero insomma la loro prima comparsa la «cultura di massa» e il «controllo delle masse». Con acuto simbolismo, i supremi prodotti della megamacchina egiziana furono delle tombe gigantesche, abitate da cadaveri mummificati; mentre successivamente in Assiria, come poi in ogni altro impero in espansione, la principale testimonianza dell'efficienza tecnica era un deserto di villaggi e città distrutte e di terreni rovinati: il prototipo di analoghe atrocità «civili» di oggi. (L. Mumford, New York 1967.*)

Cominciamo a esaminare le caratteristiche pili semplici e ovvie dell'uomo industriale contemporaneo: come venga soffocato il suo vivo interesse per la gente, la natura, le strutture viventi, e accresciuta l'attrazione per i prodotti artificiali, meccanici, nonvivi. Gli esempi abbondano. In tutto il mondo industrializzato vi sono uomini che sono più teneri con la macchina che con la propria moglie e si interessano più alla prima che alla seconda. Ne sono orgogliosi, la vezzeggiano, la lavano (anche quando potrebbero pagare qualcuno che lo faccia al posto loro) e in certi paesi c'è addirittura l'abitudine di darle un nomignolo affettuoso; la tengono d'occhio e si preoccupano per il minimo sintomo di cattivo funzionamento. Certo, la macchina non è un oggetto sessuale, ma un oggetto d'amore; la vita senza macchina sembra più intollerabile della vita senza donna. Questo attaccamento non è abbastanza strano, o addirittura perverso?

Prendiamo un altro esempio : la mania di fotografare. A chiunque capiti di vedere turisti - o magari di osservare se stesso - si accorgerà che far foto è diventato un surrogato di vedere. Naturalmente, non si può fare a meno di guardare per dirigere le lenti sull'oggetto desiderato; poi si preme il bottone, la pellicola è impressionata, e via che si va a casa. Ma guardare non è vedere. Vedere è una funzione umana, uno dei più grandi doni dell'uomo; richiede attività, apertura interiore, interesse, pazienza, concentrazione. Prendere un'istantanea (l'espressione è significativa nella sua aggressività) significa essenzialmente oggettivare l'atto di vedere, la foto da esibire poi agli amici per dimostrare che anche tu «ci sei stato». Lo stesso vale per quegli appassionati di musica che ascoltano dischi soltanto per sperimentare le qualità tecniche dei loro giradischi o impianti di alta fedeltà e i particolari miglioramenti tecnici apportati da loro stessi. Per loro ascoltare musica equivale, ormai, a studiare il prodotto di un'alta esecuzione tecnica.

Un altro esempio è l'inventore di congegni, la persona che si preoccupa di sostituire ogni sforzo umano con un congegno «maneggevole», «che risparmi lavoro». In questa categoria di persone potremo comprendere quei commessi che usano la calcolatrice anche per l'addizione più elementare, chi rifiuta di percorrere a piedi persino un isolato e automaticamente sale in macchina. E probabilmente molti di noi conoscono l'inventore casalingo di qualche congegno meccanico che, pigiando semplicemente un bottone o un interruttore, può far zampillare una fontana o far aprire una porta, oppure di aggeggi ancor meno pratici, spesso ai limiti dell'assurdità.

Dovrebbe essere evidente che, descrivendo questo tipo di comportamento, non intendo affermare che usare un'automobile, far fotografie o inventare congegni sia di per sé una manifestazione di tendenze necrofile. Questa caratteristica subentra però quando diventino surrogato dell'interesse per la vita, o dell'esercizio di quelle ricche funzioni di cui è dotato l'essere umano. Nemmeno intendo dire che il tecnico appassionatamente interessato alla costruzione di macchine di tutti i tipi mostri, per questo, una tendenza necrofila. Può essere senz'altro una persona molto produttiva, con un grande amore per la vita che esprime nel suo atteggiamento verso la gente, la natura, l'arte, e nelle sue idee tecniche costruttive. Alludo, invece, a quegli individui in cui l'interesse per il prodotto elaborato ha sostituito l'interesse per quel che è vivo, che affrontano i problemi tecnici in modo pedante, non-vivo.

La qualità necrofila di questi fenomeni diventa più chiaramente visibile esaminando le prove dirette della fusione fra tecnica e distruttività di cui la nostra epoca offre tanti esempi. La connessione palese fra distruzione e adorazione della tecnica trova la sua prima esplicita, eloquente espressione in F. T. Mari- netti, il fondatore ed esponente più rappresentativo del futurismo italiano, e fascista per tutta la vita. Il suo primo Manifesto futurista (1909) proclama quegli ideali che dovevano realizzarsi completamente nel nazional-socialismo e nei metodi adottati in guerra a cominciare dalla seconda guerra mondiale.'7 La sua eccezionale sensibilità di artista gli consente di dare espressione a una tendenza potente, ma non visibile a quell'epoca:

1. Noi vogliamo cantare l'amore del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità.

2. Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.

3. La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.

4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della «Vittoria di Samotracia».

5. Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.

6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sforzo e munificenza, per aumentare l'entusiastico fervore degli elementi primordiali.

7. Non v'è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo.

8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell'Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell'assoluto,

perché abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente.

9. Noi,vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.

10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.

11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l'orizzonte, le locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta. (F. T. Marinetti, Firenze 1914. 1 corsivi sono miei.)

Ritroviamo qui tutti gli ingredienti classici della necrofilia: culto della velocità e della macchina; poesia come strumento di attacco; glorificazione della guerra; distruzione della cultura; o- dio per le donne; locomotive e aeroplani visti come forze vitali.

Nel secondo Manifesto futurista del 1916, Marinetti sviluppa la nuova religione della velocità:

La velocità, avendo per essenza la sintesi intuitiva di tutte le forze in movimento, è naturalmente pura. La lentezza, avendo per essenza l'analisi razionale di tutte le stanchezze in riposo, è naturalmente immonda. Dopo la distruzione dell'antico bene e dell'antico male, noi creiamo un nuovo bene: la velocità, e un nuovo male: la lentezza.

Velocità = sintesi di tutti i coraggi in azione. Aggressiva e guerresca.

Lentezza = analisi di tutte le prudenze stagnanti. Passiva e pacifista...

Se pregare vuol dire comunicare con la divinità, correre a grande velocità è una preghiera. Santità della ruota e delle rotaie. Bisogna inginocchiarsi sulle rotaie per pregare la divina velocità. Bisogna inginocchiarsi davanti alla velocità rotante di una bussola giroscopica: 20.000 giri al minuto, massima velocità meccanica raggiunta dall'uomo.

L'Ebbrezza delle grandi velocità in automobile non è che la gioia di sentirsi fusi con l'unica divinità. Gli sportsmen sono i primi catecumeni di questa religione. Prossima distruzione delle case e delle città, per formare dei grandi ritrovi di automobili e di aeroplani. (F. T. Marinetti, Milano 1973. I corsivi sono miei.)

Di Marinetti si è detto che era rivoluzionario, che ruppe col passato, che aprì le porte alla visione di un mondo nuovo di supermen nietzschiani e che, insieme con Picasso e Apollinaire, fu una delle forze più importanti dell'arte moderna. Lasciatemi dire che le sue idee rivoluzionarie lo collocano vicino a Mussolini, e ancor più vicino a Hitler. Il nazismo, infatti, è caratterizzato proprio da questa mistura di professioni retoriche di spirito rivoluzionario, dal culto della tecnica, da obiettivi di distruzione. Forse, Mussolini e Hitler furono dei ribelli (Hitler più di Mussolini), ma nessuno dei due fu rivoluzionario. Non ebbero idee genuinamente creative, né realizzarono alcun cambiamento sostanziale a beneficio dell'uomo. In loro mancava l'elemento essenziale dello spirito rivoluzionario: l'amore per la vita, il desiderio di contribuire alla sua crescita, al suo arricchimento, il gusto dell'indipendenza.18

La fusione fra tecnica e distruttività non era ancora visibile nella prima guerra mondiale. Scarsa era la distruzione operata dagli aeroplani, i carri armati erano soltanto una estensione delle armi tradizionali. Ma nella seconda guerra mondiale avvenne il cambiamento decisivo: l'uso degli aeroplani per i massacri di massa." Coloro che sganciavano le bombe quasi non si rendevano conto di ammazzare o bruciare vivi migliaia di esseri umani nel giro di pochi minuti. Gli equipaggi erano un team: un uomo pilotava, un altro regolava la rotta, un altro sganciava le bombe. Non affrontavano il pensiero di uccidere, non erano quasi consapevoli del nemico. L'importante era maneggiare correttamente quelle macchine complicate secondo piani meticolosamente organizzati. Certo sapevano a livello cerebrale, ma senza quasi captarlo affettivamente, che, come conseguenza delle loro azioni, diverse migliaia e talvolta persino più di centomila persone sarebbero state uccise, bruciate, mutilate; per quanto possa sembrare paradossale, non erano affari loro. Probabilmente è proprio per questo motivo che - se non altro la maggioranza di loro - non si sentivano colpevoli per atti fra i più orribili che un essere umano possa compiere.

La distruzione operata con la moderna guerra aerea segue il principio della moderna produzione tecnica,20 in cui sia l'operaio sia il tecnico sono completamente alienati dal prodotto del loro

lavoro. Svolgono compiti tecnici secondo il piano generale della direzione, ma spesso non vedono nemmeno il prodotto finito; e persino in tal caso, non ne hanno alcuna responsabilità, il prodotto non li interessa più. Non sono tenuti a domandarsi se si tratti di un prodotto utile o dannoso: questo riguarda esclusivamente la direzione, per la quale, però, «utile» significa semplicemente «lucroso», senza alcun riferimento all'utilità reale del prodotto. In guerra «lucroso» denota tutto quanto serve a sconfiggere il nemico, e spesso la decisione in questo senso si basa su dati vaghi come quelli che portarono alla costruzione della Edsel di Ford. Al tecnico, come al pilota, basta conoscere le decisioni della direzione, che egli non è tenuto a contestare, né che gli interessa di contestare. Che si tratti di ammazzare centomila persone a Dresda o a Hiroshima o di distruggere la terra e il popolo del Vietnam, non spetta a lui preoccuparsi di giustificare moralmente o militarmente gli ordini; il suo unico compito è servire adeguatamente la macchina.

A questa interpretazione si potrebbe obiettare sottolineando che i soldati sono sempre stati tenuti a un'obbedienza incondizionata. Anche se questo è abbastanza vero, l'obiezione ignora l'importante differenza fra i soldati normali e il pilota di un bombardiere. Il primo affronta una distruzione causata soltanto dalle sue armi e non può scatenare, con un solo atto, l'annientamento di vaste masse di esseri umani che non ha mai visto. Tutt'al più si potrebbe dire che la tradizionale disciplina militare e il senso patriottico del dovere incoraggeranno nei piloti la disposizione a eseguire gli ordini senza discutere; ma questo non sembra essere il problema principale, mentre lo è indubbiamente per il soldato comune che combatte sulla terraferma. Questi piloti altamente addestrati, dotati di una mentalità tecnica, non hanno bisogno di una motivazione aggiuntiva per compiere il loro lavoro bene e senza esitazioni.

Anche il genocidio degli Ebrei fu organizzato dai nazisti come un processo produttivo, sebbene i massacri nelle camere a gas non richiedessero un alto grado di perfezione tecnica. All'inizio del processo, le vittime venivano selezionate in base al criterio della loro capacità di svolgere un lavoro utile. Coloro che non appartenevano a questa categoria, venivano condotti nelle

camere a gas, con la spiegazione che si trattava di scopi igienici; poi si faceva entrare il gas; si toglievano dai cadaveri gli abiti e altri oggetti utili come capelli e denti d'oro, che venivano selezionati e «riciclizzati», mentre i cadaveri venivano bruciati. Le vittime erano sottoposte a un «processo» metodico, efficiente di lavorazione; gli aguzzini non erano obbligati a vederne l'agonia; pur partecipando al programma economico-politico del Führer, un passo li separava dall'omicidio diretto e immediato con le loro mani.21 Certo, indurirsi fino al punto di restare indifferenti al destino di esseri umani visti e selezionati per essere assassinati, nel giro di un'ora, a qualche centinaio di metri di distanza, significa disumanizzarsi assai più degli equipaggi dei bombardieri. Ma nonostante questa differenza, resta il fatto che le due situazioni hanno un importantissimo elemento in comune : la tecnicizzazione della distruzione e con essa la rimozione del riconoscimento affettivo completo per quello che si sta facendo. Una volta instaurato questo processo, non esiste limite alla di-struttività, perché nessuno distrugge, ma serve semplicemente la macchina per scopi programmati, e quindi, evidentemente, razionali.

Se sono esatte queste considerazioni sulla natura tecnico-burocratica della moderna distruttività su vasta scala, non dovrebbe risultarne smantellata la mia ipotesi centrale, riguardante la natura necrofila dello spirito totalmente tecnologico? Non dovremmo forse ammettere che il moderno uomo tecnologico non è motivato dalla passione di distruggere, ma deve essere visto come un essere totalmente alienato, con un orientamento prevalentemente cerebrale, che ha scarso amore ma anche scarso desiderio di distruggere, che è diventato, in senso caratterologico, un robot, ma non un distruttore?

Non è facile rispondere a questo interrogativo. Certo, in Marinetti, in Hitler, in migliaia di uomini della polizia segreta nazista e stalinista, nelle guardie dei campi di concentramento, nei membri dei plotoni di esecuzione, la passione di distruggere è la motivazione dominante. Ma non erano, forse, tipi «all'antica»? Abbiamo ragione di interpretare come necrofilo lo spirito della società «tecnotronica»?

Per rispondere a queste domande sarà necessario chiarire

qualche altro problema che finora ho tralasciato. Analizziamo innanzitutto la connessione fra il carattere anale-accumulatore e la necrofilia.

Attraverso i dati clinici e alcuni esempi di sogni necrofili abbiamo illustrato la presenza marcata di tratti caratteriali anali. L'interesse per il processo di eliminazione delle feci è, come abbiamo visto, l'espressione simbolica dell'interesse per tutto quanto è corrotto e putrido, non-vivo. Ma, anche se manca di vivacità, il «normale» carattere anale-accumulatore non è necrofilo. Freud e i suoi collaboratori hanno fatto un passo avanti, scoprendo che il sadismo è spesso un prodotto collaterale del carattere anale; questo non avviene sempre, ma si verifica nelle persone ostili e narcisiste in misura superiore al livello medio del carattere accumulatore. Comunque, persino i sadici sono con gli altri; vogliono controllarli, ma non distruggerli. Nei necrofili, invece, i pili narcisisti e ostili di tutti, manca anche questo perverso tipo di rapporto. Il loro obiettivo è trasformare la materia viva in materia morta; vogliono distruggere ogni persona e cosa, spesso anche se stessi; il loro nemico è la vita stessa.

Questa ipotesi suggerisce che lo sviluppo : carattere anale normale —» carattere sadico -» carattere necrofilo sia determinato dall'aumento di narcisismo, assenza di rapporti, distruttività (infinite sono le sfumature fra i due poli di questo continuo) e che la necrofilia possa essere descritta come forma maligna del carattere anale.

Se questo concetto dello stretto rapporto esistente fra carattere anale e necrofilia fosse semplice come l'ho descritto in questa presentazione schematica, potremmo, e a ragione, sentirci soddisfatti sotto il profilo teorico. Ma le connessioni sono tutt'altro che limpide. Il carattere anale che era tipico delle classi medie del diciannovesimo secolo diventa sempre più raro in quel settore della popolazione completamente integrato nelle forme di produzione economicamente più avanzate.22 Mentre, statisticamente parlando, il fenomeno dell'alienazione totale non esiste probabilmente ancora nella maggioranza della popolazione americana, esso caratterizza il settore più indicativo della direzione in cui si sta muovendo l'intera società. A dire il vero, il carattere dell'uomo nuovo non sembra adattarsi ad alcuna delle vecchie categorie, come il carattere orale, anale o genitale. Ho tentato di inquadrare questo nuovo tipo intendendolo come «carattere mercantile». (E. Fromm, New York 1947.)

Per il carattere mercantile tutto viene trasformato in merce, non solo le cose, dunque, ma la persona stessa, la sua energia fisica, le sue capacità, la sua conoscenza, le sue opinioni, i suoi sentimenti, persino i suoi sorrisi. Questo è un fenomeno storicamente nuovo perché è il prodotto di un capitalismo completamente sviluppato incentrato sul mercato delle merci, della forza lavoro, della personalità - e sui principio di ricavare il profitto attraverso uno scambio favorevole.23

Come il carattere orale e genitale, anche quello anale appartiene a un'epoca precedente lo sviluppo completo dell'alienazione. Questi tipi di carattere sono possibili soltanto finché esiste una vera esperienza sensoriale del proprio corpo, delle sue funzioni, dei suoi prodotti. L'uomo cibernetico è talmente alienato che sperimenta il proprio corpo soltanto come strumento per conseguire il successo; perciò si preoccupa di conservarlo giovane e sano; lo sente narcisisticamente come un bene estremamente prezioso sul mercato delle personalità.

A questo punto ritorniamo al problema che ha provocato la digressione. La necrofilia caratterizza veramente l'uomo della seconda metà del secolo ventesimo negli Stati Uniti e nelle altre società capitalistiche, o governate da un capitalismo di Stato, ugualmente sviluppate?

Dopo tutto, quest'uomo nuovo non si interessa né di feci né di cadaveri; anzi ha una tale fobia per i cadaveri, che cerca di farli apparire piti vivi di quanto non fossero quando vivi erano veramente. (Questa non sembra una formazione reattiva; rientra piuttosto in quell'orientamento globale che nega la realtà naturale, non-confezionata-dall'uomo.) Ma egli ha operato un cambiamento molto più drastico, allontanando il suo interesse dalla vita, dalla natura, dalle persone, dalle idee, in breve da ciò che è vivo, trasformando tutta la sua vita in cose, compreso se stesso e le manifestazioni delle sue facoltà umane di ragionare, vedere, sentire, gustare, amare. La sessualità diventa una capacità tecnica (la «macchina dell'amore»); i sentimenti sono appiattiti e talvolta sostituiti col sentimentalismo; alla gioia, l'espressione di una intensa vitalità, subentra il «divertimento», l'eccitazione, e tutta la sua capacità d'amore e di tenerezza viene rivolta verso macchine e aggeggi vari, il mondo si trasforma in un insieme di prodotti artificiali, senza vita: dal cibo sintetico agli organi artificiali, l'uomo nella sua totalità diventa parte del meccanismo complessivo che egli controlla e dal quale viene simultaneamente controllato. Non ha un piano, un obiettivo nella vita, tranne fare quel che la logica della tecnica lo determina a fare. Costruire robot è una delle maggiori aspirazioni della sua mente tecnica, e certi specialisti assicurano che sarà quasi impossibile distinguere i robot dagli esseri viventi. Un risultato che non sembrerà così sorprendente quando sarà quasi impossibile distinguere 1' uomo dai robot.

Il mondo della vita è diventato un mondo di «non-vita»; le persone sono diventate «non-persone». Un mondo di morte. La morte non è più rappresentata simbolicamente da feci o cadaveri maleodoranti. Ora i suoi simboli sono macchine linde, scintillanti; gli uomini non sono più attratti da gabinetti fetidi, ma da strutture di vetro e alluminio.24 La realtà che si nasconde dietro questa facciata asettica diventa sempre più visibile. In nome del progresso, l'uomo sta trasformando il mondo in un luogo fetido e velenoso (e questa è tutt'altro che un'immagine simbolica). Sta inquinando l'aria, l'acqua, il suolo, gli animali... e se stesso, al punto che è legittimo domandarsi se, fra un centinaio d'anni, sarà ancora possibile vivere sulla terra. Egli conosce la verità; ma nonostante i numerosi contestatori, coloro che detengono il potere continuano a perseguire il «progresso» tecnico, pronti a sacrificare la vita sull'altare del loro idolo. In tempi lontani gli uomini sacrificavano i figli o i prigionieri di guerra, ma mai prima d'ora nella storia l'uomo è stato disposto a sacrificare tutta la vita al Moloch, la sua vita e quella dei suoi discendenti. Che lo faccia premeditatamente oppure no, non importa gran che. Se fosse all'oscuro del possibile pericolo, potrebbe essere assolto da ogni responsabilità. Ma proprio il lato necrofilo del suo carattere gli impedisce di fare il giusto uso di questa conoscenza.

Lo stesso vale per la preparazione della guerra nucleare. Le due superpotenze aumentano costantemente la loro capacità di distruggersi l'un l'altra e di distruggere, insieme, ampie fette della razza umana, come minimo. Eppure non hanno ancora preso alcun serio provvedimento per eliminare il pericolo, e l'unica misura valida sarebbe la distruzione di tutte le armi nucleari. Infatti, gli uomini della stanza dei bottoni sono già stati parecchie volte sul punto di usare le armi nucleari, e hanno giocato d'azzardo con l'immane pericolo. Gli artefici della strategia - per esempio Herman Kahti nel suo On Thermonuclear War (Princeton 1960) - sollevano tranquillamente l'agghiacciante interrogativo: cinquanta milioni di morti sarebbero «accettabili»? Ê incontestabile che questo è lo spirito della necrofilia.

I fenomeni che scatenano tanta indignazione - tossicomania, crimine, decadimento culturale e spirituale, disprezzo per gli autentici valori etici - sono tutti in relazione all'attrazione crescente esercitata da morte e lerciume. Come si può pretendere che i giovani, i poveri e i senza-speranza non subiscano il fascino della rovina, quando questo viene incoraggiato da coloro che dirigono il corso della società moderna?

Dobbiamo concluderne che il mondo senza vita della tecnicizzazione totale è soltanto un'altra versione del mondo come morte e rovina. La maggior parte non ne è consapevole, ma, per usare un'espressione freudiana, ciò che è rimosso spesso riemerge, e il fascino esercitato da morte e decadimento diventa visibile, come appunto nel carattere anale maligno.

Finora abbiamo esaminato la connessione: meccanico-senza vita-anale. Ma considerando il carattere totalmente alienato dell'uomo cibernetico, non potrà sfuggirne un'altra: la sua natura schizoide o schizofrenica. Forse il suo tratto più notevole è proprio la frattura fra pensiero-affetto-volontà. (È stata questa frattura a suggerire a E. Bleuler la denominazione di «schizofrenia», dal greco schizo, dividere, e phren, psiche.) Nella descrizione dell'uomo cibernetico ne abbiamo già visti alcuni esempi, come l'assenza di elementi affettivi nel pilota del bombardiere, che sa di massacrare centomila persone premendo semplicemente un bottone. Ma per studiare questo fenomeno non dobbiamo spingerci a simili estremi. Lo abbiamo già descritto nelle sue manifestazioni più generali. L'uomo cibernetico ha un orientamento quasi esclusivamente cerebrale; è monocerebrale. Il suo approccio al mondo che lo circonda - e a se stesso - è intellettuale; egli vuole sapere come sono fatte le cose, come funzionano, come possono essere costruite o manipolate. Questo tipo di approccio, incoraggiato dalla scienza, è diventato prevalente dalla fine del Medioevo in poi. È l'essenza stessa del progresso moderno, la base del dominio tecnico del mondo e del consumo di massa.

C'è qualcosa di inquietante in questo orientamento? Se non fosse per qualche fatto preoccupante, si potrebbe rispondere negativamente. In primo luogo questo orientamento «monocerebrale» non è certo una prerogativa di coloro che fanno lavoro scientifico, ma è comune a un'ampia fetta di popolazione: a impiegati, commessi, tecnici, medici, managers e specialmente a molti intellettuali e artisti,25 alla maggior parte della popolazione urbana, si potrebbe concludere. Tutti quanti vedono nel mondo un agglomerato di cose che è necessario capire per poterle usare efficacemente. Secondo, e non meno importante, l'approccio cerebro-intellettuale si accoppia all'assenza di risposta affettiva. Dire che i sentimenti vengono repressi non è corretto; forse, in realtà, si sono semplicemente avvizziti e, se esistono ancora, non sono coltivati e rimangono relativamente rozzi, assumendo la forma di passioni, come la passione di vincere, di dimostrarsi superiore agli altri, di distruggere, o l'eccitazione per il sesso, la velocità, il rumore. Ma bisogna aggiungere un altro fattore. L'uomo monocerebrale ha un'ulteriore caratteristica molto significativa: una forma particolare di narcisismo che ha in se stesso il suo oggetto - il suo corpo, la sua abilità - in breve se stesso come strumento di successo. L'uomo monocerebrale è diventato a tal punto parte del meccanismo che si è costruito, che le sue macchine sono oggetto del suo narcisismo al pari di se stesso. Anzi, fra i due esiste una specie di rapporto simbiotico: «L'unione di un sé individuale con un altro sé (o qualsiasi altra potenza al di fuori del proprio sé) in modo da far perdere a ciascuno l'integrità del proprio sé, rendendoli dipendenti l'uno dall'altro». (E. Fromm, New York 1941.)26 In senso simbolico, madre dell'uomo non è più la natura, ma quella «seconda natura» che egli si è costruito, le macchine che lo nutrono e lo proteggono.

Un'altra caratteristica dell'uomo cibernetico - la tendenza a comportarsi in modo stereotipato, non-spontaneo, seguendo una routine - emerge drasticamente in molti stereotipi schizofrenici ossessivi. Sorprendenti sono le analogie fra gli schizofrenici e l'uomo monocerebrale: forse ancor più sorprendente è il quadro presentato da un'altra categoria che non si identifica con la schizofrenia, ma è ad essa collegata: quello dei bambini «autistici», descritto da L. Kanner (1944), elaborato successivamente da M. S. Mahler (New York 1968). (Vedi anche la discussione di L. Bender, 1942, sui bambini schizofrenici.) Secondo la descrizione della sindrome autistica, fatta da Mahler, questi sono i tratti più importanti: (1) «perdita di quella differenziazione primordiale fra materia animata e inanimata, che von Monakow defini protodiakrisis» (M. S. Mahler, New York 1968); attaccamento a oggetti inanimati, come una sedia o un giocattolo, accoppiato all'incapacità di entrare in contatto con una persona, particolarmente con le madri, le quali, a loro volta, spesso riferiscono «di non riuscire a raggiungere i propri figli»; (3) una pulsione ossessiva a individuare analogie formali, descritta da Kanner come caratteristica classica dell'autismo infantile; (4) il desiderio intenso di essere lasciati soli («La caratteristica più stupefacente del bambino autistico è la sua lotta spettacolare contro ogni richiesta di contatto sociale, umano.» [M. S. Mahler, New York 1968]); (5) l'uso del linguaggio (sempre che parlino) per scopi di manipolazione, ma non come mezzo di comunicazione inter-personale. («Questi bambini autistici comandano all'adulto, con gesti e segnali, di fungere da estensione esecutiva di tipo semianimato o inanimato, come l'interruttore o il dispositivo di una macchina.» [M. S. Mahler, New York 1968]); (6) Mahler cita un altro tratto particolarmente interessante rispetto ai miei commenti precedenti sulla diminuita importanza del complesso «anale» nell'uomo monocerebrale : «La maggior parte dei bambini autistici ha una cathexis relativamente bassa della superficie del proprio corpo, il che spiega la forte insensi-bilità alla sofferenza fisica. A questa deficienza catetica del sensorio si accompagna una mancanza di stratificazione gerarchica, di libidinizzazione e sequenza zonali». (M. S. Mahler, New York 1968.)*7

Mi riferisco soprattutto alla mancanza di differenziazione fra materia vivente e inerte, all'assenza di contatti con gli altri, all'uso del linguaggio per manipolazione e non per comunicazione, all'interesse preponderante per il meccanico piuttosto che per il vivo. Per quanto notevoli siano queste analogie, soltanto con studi approfonditi si potrà verificare l'esistenza di una forma di patologia mentale negli adulti, corrispondente a quella del bambino autistico.

Forse è pitù concreta l'ipotesi di una connessione fra funzionamento dell'uomo cibernetico e processi schizofrenici. Ma ciò costituisce un problema estremamente difficile, per diverse ragioni :

1. Le varie scuole psichiatriche hanno dato della schizofrenia definizioni estremamente diverse, a cominciare da quella tradizionale che vede nella schizofrenia una malattia di origine organica, fino alle varie definizioni comuni, in una certa misura, alla scuola di Adolf Meyer (Sullivan, Lidz), a quella della Fromm- Reichmann e alla piti radicale scuola di Laing, che intendono la schizofrenia non come malattia, ma come processo psicologico da inquadrare nei termini di una reazione alle complesse, sottili relazioni inter-personali operanti fin dalla prima infanzia. Qualora dovessero emergere cambiamenti somatici, Laing li spiegherebbe come risultato, e non come causa, dei processi interpersonali.

2. La schizofrenia non è un singolo fenomeno; il termine comprende una serie di disturbi di diverso tipo, così che, a partire da E. Bleuler, si parla di schizofrenie, piuttosto che di schizofrenia come singola entità morbosa.

3. Lo studio dinamico della schizofrenia è relativamente recente, e finché non sarà compiuto un ulteriore lavoro di ricerca la nostra conoscenza in merito resterà molto inadeguata.

Un aspetto del problema che, a mio avviso, è particolarmente urgente chiarire, è la connessione fra schizofrenia e altri tipi di processi psicotici, particolarmente quelli generalmente definiti come depressioni endogene. Certo, persino un ricercatore illuminato e avanzato come Eugen Bleuler operò una chiara distinzione

fra depressione psicotica e schizofrenia, e sembra innegabile che i due processi, in linea di massima, si manifestino in due forme diverse (anche se l'esigenza di codificare varie etichette miste - accoppiando caratteristiche schizofreniche, depressive e paranoidi - sembra rendere contestabile la distinzione). Dunque, il problema che si pone è se le due malattie mentali non siano forme diverse dello stesso processo fondamentale, o se, invece, le differenze fra i vari tipi di schizofrenie non siano talvolta più rilevanti della differenza esistente fra certe manifestazioni dei processi, rispettivamente, depressivi e schizofrenici. Se così fosse, non dovremmo preoccuparci troppo dell'ovvia contraddizione fra l'assunto che esistono elementi schizofrenici nell'uomo moderno e la diagnosi di depressione cronica fatta precedentemente in connessione con l'analisi della noia. Potremmo ipotizzare che nessuna delle due etichette è completamente adeguata... oppure che potremmo lasciar da parte tutte le etichette.28

Certo, sarebbe davvero sorprendente se l'uomo cibernetico monocerebrale non presentasse un quadro di schizofrenia (usando questo termine per semplificare) cronica a basso voltaggio. L'atmosfera in cui vive è solo quantitativamente meno vuota e spenta di quella descritta da Laing ed altri nella presentazione delle famiglie schizogenetiche (producenti schizofrenia).

Credo sia legittimo parlare di una «società pazza» e del problema di quel che accade a un uomo sano di mente in una simile società. (E. Fromm, New York 1955.) Se una società producesse membri sofferenti, in gran parte, di schizofrenia acuta, minerebbe la sua stessa esistenza. Lo schizofrenico a pieno regime è caratterizzato dal fatto di aver reciso ogni rapporto col mondo esterno; si è ritirato nel suo mondo personale, la sua malattia è giudicata grave soprattutto per una motivazione sociale: non è in grado di funzionare socialmente; non può badare adeguatamente a se stesso; in un modo o nell'altro ha bisogno dell'aiuto del prossimo. (Ma questo non è completamente vero, come ha dimostrato l'esperienza in tutti quei luoghi in cui gli schizofrenici cronici hanno lavorato o badato a se stessi, anche se con l'aiuto

di certe persone che hanno predisposto le condizioni favorevoli, e almeno con qualche contributo materiale dallo stato.) Una società, per non parlare di quelle grandi e complesse, non potrebbe essere manovrata da schizofrenici, ma magari potrebbe benissimo essere diretta da persone sofferenti di schizofrenia a basso livello, perfettamente in grado di cavarsela con quelle cose che sono necessarie perché una società funzioni. Tali persone non hanno perso la capacità di guardare «realisticamente» il mondo, sempre che per questo si intenda la capacità di concepire intellettualmente le cose nel modo necessario per affrontarle efficacemente. Può darsi, invece, che abbiano perso totalmente la capacità di sperimentare le cose personalmente, cioè soggettivamente, e col proprio cuore. L'individuo completamente sviluppato può, per esempio, vedere una rosa, sentirla come qualcosa di caldo, persino di infuocato (se poi esprime questa esperienza in parole lo chiamiamo poeta), ma sa benissimo che la rosa - nel regno della realtà fisica - non lo riscalda come il fuoco. L'uomo moderno ha col mondo un'esperienza incentrata soltanto su scopi pratici. Ma il suo difetto non è meno irrilevante di quello del cosìddetto malato di mente che non può percepire il mondo «oggettivamente», pur avendo conservato l'altra facoltà umana dell'esperienza personale, soggettiva, simbolica.

Nella sua Etica, Spinoza è stato il primo, credo, a esprimere il concetto di pazzia «normale» :

«Vediamo infatti che a volte gli uomini sono così affetti da un oggetto, che, benché non sia presente, credono tuttavia di averlo davanti; il che, quando accade a un uomo che non dorme, diciamo che delira o che è pazzo... Ma quando l'avaro non pensa a nessuna cosa all'infuori del guadagno e del denaro, e l'ambizioso a nulla che non sia la gloria, eccetera, questi non si ritiene che delirino, per il fatto che di solito sono molesti, e si stimano degni di odio. Ma in realtà l'avarizia, l'ambizione, la libidine, eccetera, sono specie di delirio, nonostante che non siano enumerate fra le malattie.» (B. Spinoza, New York 1927.)

Il cambiamento che si è verificato dal diciassettesimo secolo fino ai nostri giorni è esemplificato dal fatto che un atteggiamento definito «degno di odio» da Spinoza, oggi non è considerato affatto disprezzabile, ma se mai encomiabile.

Dobbiamo compiere un ulteriore passo avanti. La «patologia della normalità» (E. Fromm, New York 1955) raramente si deteriora in forme più gravi di malattia mentale, perché la società produce un antidoto contro tale deterioramento. Quando i processi patologici assumono uno schema sociale, perdono il loro carattere individuale. Al contrario, l'individuo malato si trova a suo agio con altri individui analogamente malati. L'intera cultura è strutturata secondo questo tipo di patologia, e offre gli strumenti per fornire soddisfazioni che si adattino alla patologia. Ne risulta che l'individuo medio non percepisce l'isolamento e la separazione che affliggono lo schizofrenico totale. Anzi, egli si sente a suo agio fra coloro che soffrono della stessa deformazione; invece è la persona completamente sana a sentirsi isolata nella società pazza, e l'incapacità di comunicare può instillarle sofferenze tali da renderla psicotica.

Nel contesto di questo studio, il problema cruciale è verificare se l'ipotesi di un disturbo quasi-autistico o schizofrenico a basso livello possa aiutarci a capire in una certa misura la violenza che va diffondendosi oggi. Ma qui ci troviamo in una sfera quasi unicamente congetturale, perciò abbiamo bisogno di ulteriori dati e ricerche. Certo, nell'autismo ritroviamo molta distruttività, ma non sappiamo ancora dove collocare questa categoria. Per quanto riguarda i processi schizofrenici, cinquant'anni fa non ci sarebbero stati dubbi. Si presumeva che i pazienti schizofrenici fossero violenti, e che per questo motivo dovessero essere rinchiusi in istituzioni che non consentissero la fuga. Le esperienze con gli schizofrenici cronici che lavoravano nelle fattorie o autogestendosi (come le comunità organizzate da Laing a Londra) hanno dimostrato che lo schizofrenico è raramente violento, se viene lasciato in pace.29

Ma lo schizofrenico «normale», a basso voltaggio, non viene lasciato in pace. Lo sospingono qua e là, interferiscono nella sua vita, ferendo i suoi sentimenti più intimi, varie volte ogni giorno, cosicché è comprensibile che questa patologia della normalità provochi distruttività in molti individui. In misura minore, naturalmente, fra coloro che meglio si sono adattati al sistema sociale, e in misura maggiore fra chi non ha alcuna remunerazione sociale né un posto in una struttura sociale che abbia un senso per lui: i poveri, i negri, i giovani, i disoccupati.

Ma a questo punto dovremo lasciare aperte tutte le ipotesi sulla connessione fra processi schizofrenici (e autistici) di basso grado e distruttività. Infine la discussione ci porterà a domandarci se esista una qualsiasi connessione fra certi tipi di processi schizofrenici e la necrofilia. Sulla base della mia conoscenza e(j esperienza personale non posso far altro che porre il problema, nella speranza che possa stimolare altri a compiere ulteriori ricerche. Dovremo accontentarci di constatare che l'atmosfera (]e]|a vita familiare rivelatasi schizogenica rassomiglia molto da vicjno all'atmosfera sociale che genera la necrofilia. Bisognerà, comunque, aggiungere qualcosa. Un orientamento monocerebrale è incapace di visualizzare scopi che incentivino la crescita e la sopravvivenza di una società. Per formulare questi scopi occorre la ragione, e la ragione è più della semplice intelligenza, si sviluppa soltanto quando il cervello e il cuore lavorano all'unisono, quando sentimento e pensiero sono integrati ed entrambi razionali (nel senso proposto in precedenza). La perdita della capacità di pensare secondo visioni costruttive è di per sé una pesante minaccia alla sopravvivenza.

Se ci fermassimo qui, il quadro sarebbe incompleto e nondialettico. Aumentando lo sviluppo necrofilo, si sviluppa contemporaneamente anche la tendenza opposta, quella dell'amore per la vita, che si manifesta in diverse forme : nella protesta contro la distruzione della vita, che proviene da tutti i gruppi sociali e anagrafici, ma particolarmente dai giovani. C'è della sperane jn questa protesta sempre più vibrante contro l'inquinamento e la guerra; nell'interesse crescente per la qualità della vita; nell'atteggiamento di molti giovani professionisti che preferiscono attività interessanti, con un significato umano, ai redditi alti e ai prestigio: nella ricerca diffusa di valori spirituali, anche se spesso fuorviata e ingenua. Come protesta deve essere intesa anche l'attrazione che esercita la droga fra i giovani, per quanto sia sbagliato il tentativo di sentirsi più vivi con i metodi della società consumistica. Le tendenze antinecrofile si sono manifestate anche nelle diverse conversioni politico-umane avvenute in rapporto alla guerra nel Vietnam. Questi casi dimostrano che, per quanto sia possibile reprimere in profondità l'amore per la vita, quel che è represso non è morto. L'amore per la vita è una qualità così intrinsecamente biologica che, con l'eccezione di una piccola minoranza, può sempre tornare alla ribalta, sebbene in genere ciò avvenga soltanto in particolari circostanze personali e storiche. (Può accadere anche nel processo psicoanalitico.) La presenza, e persino il rafforzarsi di tendenze antinecrofile è la sola nostra speranza che il grande esperimento, l'Homo Sapiens, non fallirà. In nessun paese, credo, come in quello più tecnicamente progredito, gli Stati Uniti, esistono maggiori possibilità di riaffermazione della vita : qui la speranza che il «progresso» porti felicità si è già rivelata illusoria per quasi tutti coloro che hanno avuto l'opportunità di conoscere il sapore del nuovo «paradiso». Come si può sapere se mai si verificherà un cambiamento così fondamentale? Le forze che lo contrastano sono immense e potentissime, e non c'è alcuna ragione di essere ottimisti. Ma io credo che vi sia ragione di sperare.

[…]

Il rapporto fra gli istinti di vita e di morte freudiani con biofilia e necrofilia

Per concludere questa discussione sulla necrofilia, potrà essere proficuo presentare un breve abbozzo del rapporto fra questo concetto e il concetto freudiano dell'istinto di morte e dell'istinto di vita (Eros). È grazie allo sforzo dell'Eros che la sostanza or-ganica si combina in unità sempre più larghe, mentre l'istinto di morte tenta di separare e disintegrare la struttura vivente. Non è necessario spiegare ulteriormente il rapporto dell'istinto di morte con la necrofilia. Per chiarire la relazione fra istinto di vita e biofilia bisognerà però fornire una breve spiegazione di quest'ultima.

Biofilia è l'appassionato amore per la vita e tutto quanto è vivo; è il desiderio di far crescere... una persona, una pianta, un'idea o un gruppo sociale. La persona biofila preferisce costruire piuttosto che tesaurizzare. È capace di meravigliarsi, e preferisce vedere qualcosa di nuovo piuttosto che veder riconfermato l'antico. Ama l'avventura di vivere più della certezza. Vede l'insieme e non le parti, le strutture e non le sommatorie. Vuole modellare e influenzare con l'amore," la ragione, l'esempio; non con la forza, facendo a pezzi le cose, non con l'amministrare burocraticamente le persone come se fossero cose. Poiché gode della vita in tutte le sue manifestazioni, non è un appassionato consumatore di «eccitazione» confezionata di fresco.

L'etica biofila ha un suo principio di bene e di male. Il bene è tutto quanto serve alla vita; il male, tutto quanto serve alla morte. Il bene è rispetto per la vita,35 tutto quanto incoraggia la vita, la crescita, il dispiegamento. Il male è tutto quanto soffoca la vita, l'avvilisce, la fa a pezzi.

La differenza fra il concetto freudiano e quello presentato qui non risiede nella rispettiva sostanza, ma nel fatto che in quello freudiano entrambe le tendenze sono ugualmente forti, essendo entrambe date biologicamente. La biofilia, però, è riferita a un impulso biologicamente normale, mentre la necrofilia è intesa come fenomeno psico-patologico. Quest'ultimo emerge necessariamente come risultato di una crescita stentata, di una «storpiatura» psichica. È il risultato di una vita non-vissuta, dell'incapacità di spingersi oltre un certo stadio, oltre il narcisismo e l'indifferenza. La distruttività non è parallela, ma alternativa alla biofilia. L'alternativa fondamentale che si pone a ogni essere umano è proprio questa : amore per la vita o amore per la morte. La necrofilia cresce quando viene ostacolato lo sviluppo della biofilia. L'uomo è biologicamente dotato della capacità di essere biofilo, ma psicologicamente possiede il potenziale necrofilo come soluzione alternativa.

Come risultato della «storpiatura», la necessità psichica per lo sviluppo della necrofilia dev'essere intesa in riferimento alla situazione esistenziale umana, di cui ho discusso in precedenza. Se l'uomo non può creare qualcosa o interessare qualcuno, se non può evadere dalla prigione del suo narcisismo, del suo isolamento totali, per sfuggire al senso insopportabile di impotenza vitale, di essere nulla, non ha altra soluzione che riaffermarsi distruggendo quella vita che è incapace di creare. Per la distruzione non occorrono sforzo, pazienza, cura, ma braccia forti, o un coltello, o un fucile.36

Princìpi clinici/metodologici

Chiuderò questa discussione sulla necrofilia con qualche osservazione clinica generale e metodologica.

1. La presenza di uno o due tratti è insufficiente per formulare la diagnosi di carattere necrofilo. Questo per vari motivi. Talvolta un comportamento particolare, che sembrerebbe indicare la necrofilia, non è un tratto caratteriale, ma è dovuto a una tradizione culturale o ad altri fattori analoghi.

2. D'altra parte, per formulare la diagnosi, non è necessario individuare tutte quante le caratteristiche necrofile. Diversi fattori, personali e culturali, sono responsabili di questa non-uniformità; inoltre, certe persone nascondono talmente bene i loro tratti necrofili che è impossibile scoprirli.

3. È particolarmente importante capire che soltanto una minoranza relativamente piccola può essere completamente necro- fi'a; si potrebbe considerarli casi patologici gravi, e ricercare una disposizione genetica alla malattia. Com'è prevedibile per motivi biologici, la grande maggioranza non è interamente sprovvista di qualche tendenza biofila, magari debole. All'interno di essa esiste però una certa percentuale di persone la cui necrofilia è così predominante da giustificare la definizione di necrofile. Di gran lunga più numerosi sono coloro in cui le tendenze necrofile si mescolano a tendenze biofile abbastanza forti da creare un conflitto interiore spesso molto produttivo. L'esito di questo conflitto per la motivazione di una persona dipende da diverse variabili. Prima di tutto, dalla rispettiva intensità di ciascuna tendenza; in secondo luogo, dalla presenza di condizioni sociali che rafforzano l'uno o l'altro orientamento; inoltre da eventi particolari nella vita della persona che possono spingerla in una direzione o nell'altra. Poi vi sono quelle persone così prevalente-mente biofile che i loro impulsi necrofili possono essere facilmente frenati o repressi, oppure servono a determinare una particolare sensibilità contro le tendenze necrofile in se stesse e negli altri. Infine vi è un gruppo - e di nuovo soltanto una piccola minoranza - in cui non esiste traccia di necrofilia, biofili motivati dall'amore più intenso e puro per tutto quanto è vivo. Albert Schweitzer, Albert Einstein e papa Giovanni XXIII sono fra i più famosi esempi recenti.

Ne consegue che non esiste nessun confine rigido fra orientamento necrofilo e biofilo. Come per la maggioranza degli altri tratti caratteriali, le combinazioni possibili sono numerose quanto gli individui. Per tutti gli scopi pratici, comunque, è possibile distinguere fra persone prevalentemente necrofile e persone prevalentemente biofile.

4. Poiché ho già indicato quasi tutti i metodi per scoprire il carattere necrofilo, potrò riassumerli molto concisamente. Sono: (a) osservazione accurata del comportamento di una persona, soprattutto involontario, compresa l'espressione facciale, la scelta delle parole, ma anche la sua filosofia generale, e le piti importanti decisioni da lei prese nella sua vita; (b) studiare i sogni, le battute, le fantasie; (c) valutare il modo in cui tratta gli altri, l'effetto che ha su di loro, e quale tipo di persone preferisce o detesta; (d) l'uso di test proiettivi come le macchie di Rorschach. (M. Maccoby l'ha usato con risultati soddisfacenti proprio per formulare la diagnosi di necrofilia.)

5. È inutile sottolineare che i tipi gravemente necrofili sono molto pericolosi. Sono i razzisti, gli individui impregnati di odio, che invocano guerre, spargimenti di sangue, distruzione. Sono pericolosi non solo come leaders politici, ma anche come coorti potenziali di un leader dittatoriale. Diventano boia, terroristi, torturatori; senza di loro non si potrebbe instaurare nessun sistema basato sul terrore. Ma anche i meno intensamente necrofili sono politicamente importanti. Pur non essendo fra i primi ade-renti, sono necessari a un regime di terrore, perché gli forniscono una base solida, anche se non necessariamente maggioritaria, per conquistare e conservare il potere.

6. In considerazione di tutti questi fatti, non sarebbe molto importante, politicamente e socialmente, conoscere quale percentuale della popolazione possa essere considerata prevalentemente necrofila o biofila? Conoscere non solo l'incidenza di ciascun gruppo, ma la sua collocazione come età, sesso, cultura, classe, occupazione, luogo di residenza? Usando adeguate tecniche di campionamento, studiamo le opinioni politiche, i giudizi di valore, ecc., e otteniamo risultati validi per tutta la popolazione americana. Ma i risultati ci informano soltanto delle opinioni degli individui e non del loro carattere, in altre parole ci dicono solo quali sono le convinzioni effettive che li motivano. Se dovessimo studiare un campione ugualmente adeguato, ma con un metodo diverso, che ci permetta di individuare le forze, largamente inconsce, che sono al lavoro dietro il comportamento e le opinioni manifeste, sapremmo certo molto di piti sull'intensità e la direzione della energia umana negli Stati Uniti. Potremmo addirittura proteggerci da alcune di quelle sorprese che, una volta realizzatesi, vengono dichiarate inspiegabili. Oppure, forse, la verità è che ci interessiamo esclusivamente dell'energia necessaria per la produzione materiale e non delle forme assunte dall'energia umana, che è di per sé un fattore decisivo nel processo sociale?

Note

1 La parola greca nekros significa «cadavere», i morti, gli abitanti dell'oltretomba. In latino, nex, necs significa morte violenta, assassinio. Chia

ramente nekros non si riferisce alla morte, ma ai morti, al cadavere, all'assassinato (la cui morte violenta è stata evidentemente distinta da quella naturale). «Morire», «morte», ha un significato diverso; non si riferisce al concetto di cadavere ma all'atto di morire. In greco è thanatos, in latino mors, mori. Le parole inglesi «to die» e «death» risalgono alla radice indogermanica dheu, dhou. (Sono grato al dott. Ivan Illich che mi ha fornito ricco materiale sulla etimologia di questi concetti, di cui ho ci-tato soltanto i dati più importanti.)

2 In certi paesi esiste l'abitudine di collocare un ritratto del defunto sulla sua tomba.

3 Una storia non autenticata su Hitler descrive una scena analoga, in cui il dittatore non è capace di distogliere gli occhi dal cadavere decomposto di un soldato.

4 Per evitare equivoci, voglio mettere in chiaro fin dall'inizio che, descrivendo il «carattere necrofilo» completamente sviluppato, non intendo tracciare una netta discriminazione fra necrofilo e non-necrofilo. Il carattere necrofilo è una forma estrema in cui la necrofilia è il tratto dominante. In realtà, di solito le persone sono un misto di tendenze necrofile e biofile, e dal conflitto che ne deriva scaturiscono spesso sviluppi produttivi.

5 Secondo R. A. Medvedev (Let History Judge, New York 1971; trad, italiana: Lo stalinismo, Milano 1972) sembra che Lenin sia stato il primo ad usare il termine «necrofilia» (trupolozliestvo) in senso psicologico. (V. I. Lenin, Sochineniia).

6 Unamuno rimase agli arresti domiciliari finché mori pochi mesi dopo. (H. Thomas, New York 1961; trad, italiana: Torino 1963.)

7 Una relazione preliminare sulle mie scoperte è comparsa in E. Fromm (New York 1964; trad, italiana: Roma 1965).

8 Rivedendo vecchi casi clinici di gente da me analizzata e casi presentati da psicoanalisti più giovani in seminari, o da psicoanalisti che hanno lavorato sotto la mia supervisione.

9 Cfr. l'esempio precedente del desiderio conscio di una persona: annegare nel cadavere in disfacimento della propria nonna.

10 Cfr. il ricco materiale su feci e lereiume in J. G. Bourke (Lipsia 1913; trad, italiana: Firenze 1971).

11 Albert Speer, comunicazione personale.

12 Ho citato questi sogni in The Forgotten Language, New York 1951 (trad, italiana: Il linguaggio dimenticato, Milano 1962).

13 II fatto che il medico personale di Churchill, Lord Moran, citi lo stesso episodio nei suoi diari (Lord Moran, Boston 1966; trad, italiana: Milano 1966), fa presumere che Churchill facesse questo gesto con una certa frequenza.

14 Per Marx, capitale e lavoro non erano semplicemente due categorie economiche. Il capitale era per lui la manifestazione del passato, del lavoro trasformato e ammassato in cose; il lavoro era la manifestazione della vita, della energia umana applicata alla natura nel processo della sua trasformazione. La scelta fra capitalismo e socialismo (come lo intendeva lui) era in questi termini: chi (che cosa) deve dominare su chi (che cosa)? Quel che è morto su quel che è vivo, o quel che è vivo su quel che è morto? (Cfr. E. Fromm, New York 1961, trad, italiana: Milano 1973; 1968, trad, italiana: Milano 1971).

15 Questa preferenza di colori è uguale a quella spesso rilevata nelle persone depresse.

16 Agli inizi degli anni Trenta era un argomento controverso in questo settore della popolazione, perché molti consideravano il trucco un'abitudine borghese, innaturale.

17 R. W. Flint (New York 1971), che ha curato l'edizione americana delle opere di Marinetti, tenta di minimizzare il sostegno dell'artista al fascismo. ma secondo me le sue argomentazioni non sono convincenti.

18 Non è questa la sede per analizzare certi fenomeni dell'arte e della letteratura moderne allo scopo di verificare la presenza di elementi necrofili. Nella sfera della pittura, è un problema al di là della mia competenza; per quanto riguarda la letteratura, è troppo complesso per risolverlo brevemente. Mi propongo di trattare l'argomento in un prossimo libro.

19 La Battaglia d'Inghilterra, all'inizio della guerra, fu ancora combattuta alla vecchia maniera: i piloti dei caccia britannici sfidavano gli avversari tedeschi; il loro aeroplano era un veicolo individuale, erano motivati dalla passione di salvare il proprio paese dalla invasione tedesca. Erano la loro abilità personale, la loro determinazione e il loro coraggio a decidere l'esito dello scontro; in linea di principio, la loro lotta non era diversa da quella degli eroi della guerra di Troia.

20 Lewis Mumford ha messo in luce i due poli della civiltà, «il lavoro organizzato meccanicamente e la distruzione organizzata meccanicamente». (L. Mumford, New York 1967; trad, italiana: Milano 1969.)

21 Vorrei ricordare a coloro che non attribuiscono alcun valore a questo «passo» che milioni di persone, assolutamente perbene sotto tutti gli altri aspetti, non mostrano alcuna reazione quando vengono commesse atrocità a parecchi passi di distanza dal loro stato o partito. A quanti passi di distanza si trovavano gli uomini che hanno tratto vantaggio dalle atrocità compiute, all'inizio del secolo, dall'amministrazione belga contro i negri africani? Certo un passo è meno di cinque, ma la differenza è solo quantitativa.

22 Contribuiranno indubbiamente a confermare o a contestare la mia ipo- lesi gli studi intrapresi da M. Maccoby sul carattere dei managers negli Stati Uniti (nell'Harvard Project on Technology, Work and Character, «Progetto Harvard su tecnologia, lavoro e carattere», di prossima pubblicazione) e da I. Millän sui managers messicani (Caracter Social y Desarrolo, «Carattere sociale e sviluppo», Università Nazionale Autonoma del Messico, di prossima pubblicazione).

23 Questo mercato è tutt'altro che libero nel capitalismo contemporaneo. Il mercato del lavoro è determinato in larga misura da fattori sociali e politici, mentre il mercato delle merci è ampiamente manipolato.

24 Cfr. «Sogno 7» più addietro in questo capitolo.

25 E’ significativo che i più creativi scienziati contemporanei, come Einstein, Born, Heisenberg, Schrödinger, sono stati fra gli individui meno alienati e monocerebrali. Nel loro interesse scientifico non c'è traccia della componente schizoide della maggioranza. L'elemento caratterizzante è il fatto che il loro interesse filosofico, morale, spirituale ha pervaso tutta la loro personalità. Hanno dimostrato che l'approccio scientifico in quanto tale non sbocca necessariamente nell'alienazione; è invece il clima sociale a deformarlo, rendendolo schizoide.

26 Margaret S. Mahler ha usato il termine «simbiosi» nel suo eminente studio sulla relazione simbiotica fra madre e figlio. (M. S. Mahler, New York 1968.)

27 Sono particolarmente grato a David S. Schechter e a Gertrud Hunziker- Fromm, fra gli altri. Condividendo con me le loro esperienze cliniche e le loro opinioni sui bambini autistici mi hanno dato un aiuto particolarmente prezioso, perché non ho mai lavorato personalmente in questo campo.

28 Sulla base di queste considerazioni, gli psichiatri meyeriani e Laing rifiutano l'uso di etichette nosologiche. Questo cambiamento è stato determinato, in larga misura, dal nuovo approccio ai malati di mente. Finché non si potè avere un approccio psicoterapeutico con i pazienti, il punto fondamentale di interesse era l'etichetta diagnostica, utile per decidere se metterli o no in una istituzione per malati di mente. Da quando si cominciò ad aiutare il paziente con una terapia orientata psicoanalitica- mente, le etichette divennero trascurabili, perché l'interesse dello psichiatra si concentrava sulla comprensione dei processi che si svolgevano nel paziente, sentito come un essere umano che non è fondamentalmente diverso dall'«osservatore partecipante». Questo nuovo atteggiamento verso il paziente psicotico può essere considerato come un'espressione di umanesimo radicale, che si sta sviluppando nella nostra epoca nonostante il processo di disumanizzazione dominante.

29 Il quadro offerto dai bambini autistici è abbastanza diverso. In loro la distruttività intensa sembra essere più frequente. Per spiegare la differenza, bisognerebbe ricordare che il paziente schizofrenico ha reciso i propri legami con la realtà sociale; perciò, se viene lasciato in pace, non si sente minacciato, e di conseguenza non è incline alla violenza. Ma il bambino autistico non è lasciato in pace. I genitori cercano di fargli giocare il gioco della vita normale, invadendo il suo mondo privato. Per di più, il fattore dell'età costringe il bambino a mantenere i suoi legami con la famiglia; egli non può permettersi il lusso di ritirarsi completamente in se stesso. Questa situazione può produrre odio e distruttività intensi, spiegando la frequenza relativamente superiore di tendenze violente fra bambini autistici rispetto agli individui schizofrenici adulti lasciati in pace. Naturalmente tutte queste sono ipotesi che dovranno essere confermate o rifiutate dagli specialisti del settore.

30 I riti di iniziazione hanno la funzione di rompere questo legame, segnando il passaggio alla vita adulta.

31 Col suo rispetto per le convenzioni della vita borghese, Freud sistematicamente discolpava i genitori dei suoi piccoli pazienti dall'aver arrecato qualsiasi danno ai figli. Si riteneva che tutto, compresi i desideri incestuosi, nascesse dalla fantasia del bambino, che non era stata provocata. (Cfr. E. Fromm, New York 1970 b; trad, italiana: Milano 1971.) Questo documento si basa su una discussione tenuta all'Istituto Messicano di Psicoanalisi da un gruppo formato, oltre che dall'autore, dai dottori F. Narvâez Manzano, Victor F. Saavedra Mancera, L. Santarelli Carmelo, J. Silva Garcia e E. Zajur Dip.

32 Cfr. E. Bleuler, (New York 1951); H. S. Sullivan, New York 1953 (trad, italiana: Milano 1962): M. S. Mahler e B. J. Gosliner, New York 1955; L. Bender, 1927; M. R. Green e D. E. Schechter, 1957.

33 Ho conosciuto parecchi pazienti incestuosi di questo tipo che desideravano affogare nell'oceano, ricorrente simbolo materno.

34 Intendo pubblicare una versione più lunga e documentata di quanto ho brevemente abbozzato qui.

35 Questa è la tesi principale di Albert Schweitzer, uno dei più grandi rappresentanti dell'amore per la vita, sia nei suoi scritti sia nella sua attività personale.

36 Come dimostrerò con ricchezza di particolari nella mia discussione sulla teoria freudiana dell'aggressione, contenuta nell'Appendice, passando dai vecchi concetti alla nuova polarità Eros-istinto di morte, Freud in realtà cambiò il proprio concetto globale di istinto. Nella prima versione, la sessualità era un concetto fisiologico, meccanicistico, suscitato dall'eccitazione di varie zone erogene, la cui soddisfazione consisteva nella riduzione della tensione prodotta dall'eccitazione crescente. Gli Istinti di morte e gli istinti di vita, invece, non sono collegati a nessuna particolare zona corporea; in loro manca il carattere ritmico della tensione—distensione—tensione; sono concepiti in termini biologici, vitalistici. Freud non tentò mai di su-perare il vuoto esistente fra questi due concetti; ne preservò semanticamente l'unità con l'equazione: vita = Eros = sessualità (libido). Nell'ipotesi proposta qui, la prima e la seconda fase della teoria freudiana sarebbero collegate attraverso il presupposto che la necrofilia è la forma maligna del carattere anale, mentre la biofilia è la forma completamente sviluppata del carattere «genitale». Naturalmente, non bisogna dimenticare che, usando i termini «anale» (accumulatore) e «genitale» (produttivo), ho conservato la descrizione clinica di Freud, rinunciando però al concetto delle radici fisiologiche di queste passioni.